Christian Raimo e Lorenzo Boffa
Il Ministro Valditara ha parlato, in questi giorni di proteste e occupazioni nei licei, di scuola democratica e "cultura del rispetto". In realtà sembra voler cancellare tutto ciò che di buono ha fatto il riformismo degli anni Sessanta e Settanta. Come? A colpi di voti in condotta, punizioni esemplari, e classi esclusive.
C’è voglia di rigore nella scuola. I cinque in condotta per le occupazioni che in questi giorni hanno scatenato finalmente un dibattito acceso tra studenti, docenti, dirigenti, famiglie, fanno il paio con gli editoriali sul «Corriere della sera» firmati da Ernesto Galli della Loggia sul declino di un sistema scolastico che sarebbe troppo inclusivo, e ancora con le nuove proposte legislative sull’aumento delle sanzioni a scuola proposte dal governo in nome di quella che il ministro Valditara definisce “cultura del rispetto”.
Ma tutto questo non è un flame ciclico, come spesso accade con i rituali delle stagioni scolastiche, ma viene da lontano: da una trasformazione profonda anche se quasi innavertita che è avvenuta nel sistema scolastico italiano.
Negli ultimi anni la scuola è molto cambiata. Negli ultimi anni il racconto della scuola è profondamente cambiato. Negli ultimi anni la politica italiana sulla scuola è cambiata quella ministeriale, quella delle organizzazioni studentesche, quella dei sindacati, quella dei partiti, quella che viene decisa e dibattuta nei collegi docenti, quella che alimenta il dibattito sui giornali.
“Negli ultimi anni”, però, è un’espressione forse vaga. E allora precisiamola con una data esatta: dal 5 gennaio 2017. È il giorno in cui muore Tullio De Mauro, professore universitario di linguistica, curatore del Corso di linguistica generale di Saussure, autore della Storia linguistica dell’Italia unita, uno dei più importanti studiosi italiani del Novecento e oltre, e, soprattutto, intellettuale capace di mettere al centro del suo impegno politico e della ricerca la scuola democratica.
La sua morte ha conseguenze funeste per mille ragioni, una delle quali immediate e pubbliche: la sua scomparsa libera gli spiriti neri che non aveva smesso di affrontare lungo tutta la vita e che era riuscito almeno in parte a contrastare. Da un mefitico vaso di Pandora fuoriescono da subito forze retrive, reazionarie, antidemocratiche, classiste.
Anche per chi non era stato d’accordo con lui o l’aveva avversato politicamente, De Mauro era rimasta l’ultima figura considerata unanimemente autorevole, in grado di prendere voce in un dibattito sulla scuola sempre più squalificato, coniugando una visione coerentemente costituzionale con una credibilità scientifica. De Mauro è il correlativo oggettivo (pubblico) della scuola innovativa e democratica. La sua autorevolezza rende il bersaglio perfetto, pure – o soprattutto – da morto.
Il 4 febbraio 2017 esce e viene ripresa ampiamente sui giornali una lettera del cosiddetto Gruppo di Firenze. È un gruppo organizzato da quattro docenti. Come è riportato dal sito: Sergio Casprini, docente di storia dell’arte nelle scuole superiori; Andrea Ragazzini, docente di Storia dell’arte nelle scuole superiori; Giorgio Ragazzini, docente di Lettere nella scuola media; Valerio Vagnoli, dirigente scolastico (quest’ultimo se ne distaccherà). In realtà, avendo tutti e quattro settant’anni circa, sono in pensione.
“Anche per chi non era stato d’accordo con lui o l’aveva avversato politicamente, De Mauro era rimasta l’ultima figura considerata unanimemente autorevole, in grado di prendere voce in un dibattito sulla scuola sempre più squalificato”.
Autoproclamatisi “per la scuola del merito e della responsabilità”, sono attivi dal 2005: organizzano convegni, presentazioni, hanno un blog. Le loro iniziative non hanno una grande eco fino a quel febbraio del 2017, quando le loro lamentele sulla conoscenza della lingua italiana degli studenti universitari e le loro proposte sui cambiamenti della scuola arrivano al centro del dibattito.
Riportiamola per intero quella lettera, perché è significativo anche lo stile con cui viene scritta:
“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana.
A fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi. Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema.
Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né il generoso impegno di tanti validissimi insegnanti né l’acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti. Dobbiamo dunque porci come obiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti.
A questo scopo, noi sottoscritti docenti universitari ci permettiamo di proporre le seguenti linee di intervento:
– una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari. Tali indicazioni dovrebbero contenere i traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere e le più importanti tipologie di esercitazioni;
– l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano.
– Sarebbe utile la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media, anche per stimolare su questi temi il confronto professionale tra insegnanti dei vari ordini di scuola.
Siamo convinti che l’introduzione di momenti di seria verifica durante l’iter scolastico sia una condizione indispensabile per l’acquisizione e il consolidamento delle competenze di base. Questi momenti costituirebbero per gli allievi un incentivo a fare del proprio meglio e un’occasione per abituarsi ad affrontare delle prove, pur senza drammatizzarle, mentre gli insegnanti avrebbero finalmente dei chiari obiettivi comuni a tutte le scuole a cui finalizzare una parte significativa del loro lavoro”.
La lettera – scritta in un italiano farraginoso pur proponendo una nuova didattica della lingua italiana; senza conoscenza delle norme pur proponendo una nuova legislazione scolastica – riceve un’enorme attenzione: se ne parla come “lettera dei seicento”, perché riesce a raccogliere da subito l’adesione di seicento professori di vari settori, ma soprattutto accademici, a cui se ne aggiungono nei giorni e nelle settimane successive altre centinaia, tra cui Giuseppe Valditara.
A chi frequenta i dibattiti sull’insegnamento dell’italiano a scuola, quest’appello fa specie. Esiste già un’associazione per l’insegnamento della lingua italiana, la Asli, che elabora le istanze dell’accademia e della ricerca per proporle al sistema scolastico; esistono società di universitari di scienze della formazione che perseguono gli stessi obiettivi; esistono decine di gruppi di docenti che lavorano su questi temi in maniera costante e con un confronto allargato a migliaia di membri (dall’Mce al Cidi), e soprattutto è attivo dagli anni Settanta un gruppo che si occupa di linguistica democratica che si chiama Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), fondato da Tullio De Mauro.
Le loro dieci tesi per la linguistica democratica – frutto di un’alleanza tra i settori più avanzati dell’università e della scuola – sono state il riferimento di migliaia di docenti e educatori per cinquanta anni; diventano, morto De Mauro, un obiettivo contro cui scagliarsi.
“La lettera – scritta in un italiano farraginoso pur proponendo una nuova didattica della lingua italiana; senza conoscenza delle norme pur proponendo una nuova legislazione scolastica – riceve un’enorme attenzione”.
La lettera dei seicento è un documento storico significativo, inaugura (per metodo e per merito) un goffo e sinistro tentativo di produrre un discorso pubblico alternativo sulla scuola. A distanza di sette anni, si può dire dolorosamente che quel tentativo avuto successo, nella proposta e nella diffusione di una nuova, pedestre, egemonia.
L’esponente più in vista di questa tendenza è Ernesto Galli della Loggia. È lui a infamare De Mauro il 9 febbraio 2017 con un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» intitolato La disfatta della lingua italiana (c’entra anche Tullio De Mauro) in cui si accusa “lo studioso campano” di avere grosse responsabilità sulle “scarse capacità di scrittura degli studenti, denunciate oggi dai docenti”. L’attacco di Galli della Loggia si basa su una sola frase, estrapolata da un articolo di De Mauro su «Paese sera» del 1971, e strumentalizzata. L’attacco è vile e mira a screditare De Mauro e il suo impegno politico e militante in favore della scuola democratica.
In questi sette anni, Galli della Loggia ha scritto altri commenti discutibili per il «Corriere della sera» e pubblicato un libro confuso e regressivo come L’aula vuota, chiara dimostrazione della sua impreparazione sul tema “scuola” – la sua fonte quasi unica sono i testi di Adolfo Scotto di Luzio. Di qualche settimana fa è questo brevissimo editoriale, in cui si scaglia contro il modello inclusivo della scuola italiana.
Le parole di Galli della Loggia provocano un’indignazione e una rabbia diffusa persino in chi, fino a questo punto, l’aveva ritenuto semplicemente un osservatore monotono o barboso. Le reazioni articolate di esperti sbugiardano senza appello le sue illazioni, mostrando come sia evidente che Galli della Loggia non conosca nemmeno gli elementi minima della pedagogia e della normativa dell’inclusione.
Galli della Loggia aspetta qualche giorno per “chiedere scusa” in un editoriale molto più lungo, sempre sul «Corriere della sera», in cui ripete essenzialmente il suo ragionamento, e peggiora se possibile la sua posizione, rivelando quanto il suo abilismo sia radicato.
Si possono leggere Fabio Bocci o Leonardo Tondelli per farsi un’idea della responsabilità grave non solo delle affermazioni Galli della Loggia, ma anche del «Corriere della sera» che le ospita per ben due volte senza vagliarli in nessun modo. Il dibattito sulla scuola è il regno dell’opinionismo risentito.
Ma non sono molti quelli che sottolineano come il nume tutelare evocato in questo breve editoriale sia proprio Giorgio Ragazzini e il suo benemerito Gruppo di Firenze. Ragazzini, insegnante di lettere alle medie, ora in pensione, negli ultimi anni è diventato prevedibilmente retrivo. Nei suoi articoli sui blog se la prende contro la dittatura woke o difende le tesi di Franco Prodi che negano l’emergenza climatica.
Ma nel frattempo questo genere di istanze, retrograde e scientificamente imbarazzanti, sono assurte a riferimento culturale e anche istituzionale. Il gruppo di Firenze si definisce “per una scuola del merito e della responsabilità”. “Merito” (che fa parte anche della nuova dicitura ministeriale) e “responsabilità” sono diventati i mantra del ministro Valditara insieme a “rispetto”.
“Le parole di Galli della Loggia provocano un’indignazione e una rabbia diffusa persino in chi, fino a questo punto, l’aveva ritenuto semplicemente un osservatore monotono o barboso”.
Valditara reagisce alle parole di della Loggia in modo elusivo, di fatto accreditandole. In un’intervista sulla «Stampa», dichiara: “L’inclusione è un valore importante della scuola costituzionale, la nostra scuola. Perché sia effettiva, però, e non solo declamata, è necessario che si creino le condizioni per una didattica più efficace che consenta di contemperare le esigenze di tutti gli studenti”.
Lo schema retorico è sempre lo stesso. La scuola democratica, progressista, sessantottina, è stata troppo indulgente e oggi se ne vedono i danni, occorre dunque tornare a una scuola ancora più “esigente”, leggi: gentiliana, selettiva. Per delegittimare la storia della scuola democratica ne viene fatta un’astiosa caricatura.
Se non fosse tragico questo tipo di argomentazione, se ne vedrebbe tutta la caratura grottesca. Purtroppo va preso sul serio. Ed è la cornice in cui in questi giorni vanno lette le notizie sulle sanzioni per le occupazioni e il voto in condotta, mettendo in luce l’elemento fondamentale: dalla saldatura tra un opinionismo pseudoaccademico, uno squalificato dibattito pubblico e l’interventismo istituzionale si forgia un risentimento non celato contro i fantasmi del riformismo scolastico degli anni Settanta.
Visto che viene evocata in modo così sguaiato, varrebbe invece la pena di ricordare in breve la stagione luminosa che è seguita al Sessantotto per la scuola, in un decennio in cui la percentuale destinata alla spesa sociale destinata alla scuola pubblica era più del doppio di quella attuale. Parliamo del diritto allo studio garantito con le 150 ore, dall’istituzione della democrazia partecipata nella scuola con i decreti delegat, e soprattutto l’eliminazione delle classi differenziali – la lunghissima portata avanti e vinta da Mirella Antonione Casale, che oggi ha 98 anni.
Negli anni Sessanta Casale è un’insegnante e una madre di una bambina di nome Flavia, che all’età di sei mesi contrae l’influenza asiatica, sviluppa un’encefalite virale che le causa gravissime lesioni cerebrali. Arrivata all’età scolare, la figlia viene inserita in una classe differenziale, che allora è uno dei luoghi peggiore di discriminazione e di ghettizzazione. Mirella Casale inizia, con una serie di associazioni di genitori, una battaglia decennale per dare la possibilità di inserire i bambini con disabilità nelle classi dei cosiddetti “normali”.
Si batte contro le scuole differenziali che confondono disabilità e disagio, riesce a far chiudere un istituto psichiatrico dove i bambini con handicap vengono segregati, apre un centro diurno che inizia la sperimentazione per far studiare i ragazzi disabili, rompe le scatole a tutti, politici, intellettuali, tutti.
Tra il 1968 e il 1975 c’è un momento in cui i genitori degli studenti disabili organizzano una specie di sciopero al contrario, praticando un “inserimento selvaggio” nelle classi cosiddette normali. Nel 1974 si forma la commissione Falcucci che recepisce le istanze politiche che solleva Casale. È un movimento politico che coinvolge genitori, attivisti, politici, militanti, e che nel 1977 porta alla cancellazione delle classi differenziali, e l’inizio del lungo cammino normativo, pedagogico, politico sull’inclusione.
Invece di prendere Mirella Antonione Casale come esempio politico, oggi è proprio tutto il modello di pedagogia democratica a essere attaccato. Le accuse di mancata qualità alla scuola pubblica, l’odio contro i giovani, leggi e proposte di leggi distopicamente repressive.
In un articolo apparso su «Domani» in merito alle punizioni comminate a studenti e studentesse del Liceo Tasso di Roma, passa quasi inosservata, dopo il commento plaudente di Valditara, la battuta con cui il presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp), Antonello Giannelli, stigmatizza le occupazioni: una pratica deprecabile, tutta italiana, che interessa pochissimi istituti ogni anno. Non ha problemi nell’esporre chiaramente la sua linea in queste poche parole: “le occupazioni non hanno ragion d’essere. Ben vengano tutti quegli interventi pensati per farle a poco a poco ‘perdere’”.
Non è la prima volta che il presidente dell’Anp usa queste stesse parole. Con l’Agi commentava il ciclo di occupazioni del novembre 2018 con le stesse parole, aggiungendo che le occupazioni riguarderebbero solo “scuole di tipo liceale, specificamente delle grandi città. La inquadro in un fenomeno di moda”.
“Visto che viene evocata in modo così sguaiato, varrebbe invece la pena di ricordare in breve la stagione luminosa che è seguita al Sessantotto per la scuola, in un decennio in cui la percentuale destinata alla spesa sociale destinata alla scuola pubblica era più del doppio di quella attuale”.
Prima ancora di riflettere sulle implicazioni e i pregiudizi della posizione di Giannelli, vale la pena provare a capire se quello che dice corrisponde al vero. Sembrerebbe di no.
Senza risalire al ‘68, possiamo facilmente constatare che negli ultimi anni studenti di tutta Europa hanno scelto di occupare i loro istituti per portare avanti le istanze che ritenevano più significative, una su tutte la crisi climatica. Un articolo apparso sul «Guardian» descrive la campagna promossa dal movimento internazionale End Fossil che ha portato all’occupazione di Università e scuole superiori di Germania, Spagna, Belgio, Regno Unito e Portogallo, dove, nella sola Lisbona, vennero occupati 7 licei: in totale, furono 22 le azioni portate avanti nei diversi paesi europei. La stessa campagna, riportano gli organizzatori, portò all’occupazione complessiva di 50 istituti tra il settembre e il novembre dell’anno precedente.
Negli ultimi anni le scuole superiori sono state occupate dagli studenti francesi in molte occasioni, come nel 2018, contemporaneamente alle manifestazioni dei Gilet gialli, o in occasione della riforma del lavoro di Hollande (2016), e ancora prima contro lariforma delle pensioni di Sarkozy (2010). Ma senza arrivare così lontano, nel dicembre dell’anno scorso, i blocchi e le occupazioni dei licei francesi hanno coinvolto diversi istituti a Parigi, Lione, Nantes e Strasburgo, mentre a ottobre del 2022 lo sciopero congiunto di lavoratori e studenti contro le politiche di austerity ha portato alla blocade di circa un centinaio di istituti.
Lo stesso vale per la Spagna, dove la pratica dell’encierro viene adottata dagli studenti di università e scuole superiori sia per la creazione di spazi di discussione che per protesta contro riforme e tagli. In diversi casi, sono stati i genitori stessi di alunni delle scuole medie a occupare gli istituti per impedirne la chiusura o sollecitarne il miglioramento. Sono passate alla storia le occupazioni del novembre 2010 nel Regno Unito contro i tagli all’educazione e, oltreoceano, possiamo leggere di occupazioni in Uruguay, Brasile, Argentina e non solo. “Noi siamo in contatto costante con sindacati studenteschi spagnoli, austriaci, francesi che occupano eccome, a volte anche in maniera più forte di quanto non facciamo in Italia”, conferma Paolo Notarnicola, coordinatore nazionale della Rete degli studenti medi.
È più difficile invece rispondere all’obiezione secondo cui le occupazioni sarebbero un fenomeno meramente liceale e legato alle grandi città, anzitutto perché ad organizzarle sono, in buona parte dei casi, i collettivi interni agli istituti e dunque non esiste una mappatura unitaria di questo fenomeno. Laddove è stata fatta, come nel caso delle mobilitazioni anti-Gelmini del 2010, il quadro restituito è sì quello di una prevalenza delle città sulle province e di licei e istituti tecnici su quelli professionali. Ma questo non significa che nelle province non ci siano stati fenomeni significativi. Ad esempio, a febbraio del 2022, le occupazioni nel torinese hanno coinvolto 16 istituti, di cui 9 erano situati in provincia
E a proposito di numeri: ogni anno le occupazioni interessano ben più di una ventina di licei. L’ondata dell’inverno 2021 porta all’occupazione di 50 istituti dal centro alla periferia di Roma e quest’anno, fino ad ora sono state almeno 20. A marzo del 2022, si contano occupazioni in 18 licei milanesi. “Le occupazioni sono una forma di mobilitazione importante: quando non si riesce ad instaurare un dialogo con le istituzioni, di fatto è il mezzo con cui riusciamo a pretenderlo. Tacciarlo di essere ‘un vezzo da liceali’ è completamente fuori luogo. Piuttosto bisognerebbe chiedersi quali spazi abbiano dati agli studenti per portare avanti le loro istanze, dentro e fuori dagli istituti. E la risposta è: troppo pochi”, dice Notarnicola.
Con che chiave vanno interpretate, allora, le dichiarazioni del presidente di Anp? Nelle proteste rubricate sempre come teppismo, nelle questioni politiche bollate come marginali, le lettere firmate da dirigenti, professori e genitori spesso ricalcano nei toni un infantilismo vittimista peggiore di quello che imputano agli studenti.
L’emblema di questa postura è esemplificato dai due disegni di leggi del governo che vengono presentati in questi giorni.
Uno, presentato da alcuni parlamentari della Lega, vuole l’istituzione di un osservatorio nazionale sulla sicurezza del personale scolastico, e propone addirittura una giornata di sensibilizzazione sulla violenza contro il personale scolastico.
Di nuovo, il tragico si manifesta come farsesco. La crisi di autorevolezza del mondo della scuola viene affrontata con una norma sulla lesa maestà.
L’altro disegno di legge porta direttamente la firma di Valditara, e mette insieme significativamente due questioni che sono come acqua e olio: la riduzione a quattro anni dei professionali e una stretta disciplinare attraverso una riforma del voto in condotta. L’accoppiamento è sintomatico: la cosiddetta “scuola del rispetto” è classista ed esige una ginnastica d’obbedienza.
Il ddl 924 bis prevede che sia predisposto un giudizio sintetico alla primaria, in decimi nella secondaria. Giulia Addazi ne ha scritto una buona sintesi su «Domani».
Con voto inferiore al 6 c’è la bocciatura o la non ammissione all’esame di stato. Con voto pari a 6, nella secondaria di secondo grado, si è rimandati a settembre per essere valutati su di un “elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale assegnato dal consiglio di classe in sede di scrutinio finale”. Si può inoltre accedere al voto massimo della fascia del credito solo con voto uguale o superiore a 9. Infine, si prevedono delle modifiche all’istituto dell’allontanamento e azioni di volontariato presso strutture convenzionate con la scuola.
Persino nella formulazione della norma si nota la retorica di Valditara.
Ci sono molte battaglie da fare contro gli intenti illiberali e postfascisti di questo governo, ma davvero occorre dare priorità a quello che accade con la scuola. I peggiori effetti del berlusconismo sono oggi ossificati nelle norme introdotte a suo tempo dalle riforme Gelmini e Moratti. L’involuzione, anche normativa, del sistema scolastico mostra i suoi esiti nel lungo periodo, è un’educazione antidemocratica: al populismo penale, alla repressione del conflitto, all’incompetenza pedagogica.
“Ci sono molte battaglie da fare contro gli intenti illiberali e postfascisti di questo governo, ma davvero occorre dare priorità a quello che accade con la scuola”.
Guardata con una prospettiva storica, questa piccola ideologia incarnata dal gruppo di Firenze, da Galli della Loggia, dalla coppia Luca Ricolfi e Paola Mastrocola (autori di libri molto venduti sui presunti danni della scuola democratica), dai parlamentari di maggioranza, dall’associazione nazionale presidi e dal ministro Valditara stesso per ora mostra solo il rischio di involuzione democratica, ma non ci vuole molto perché diventi senso comune, e uno spirito dei tempi che raccolga i peggiori venti di destra postfascista e illiberale.
Christian Raimo
Christian Raimo è insegnante, saggista, scrittore. Il suo ultimo libro, in collaborazione con Alessandro Coltré, si intitola Willy. Una storia di ragazzi (Rizzoli, 2023).
Lorenzo Boffa
Lorenzo Boffa si occupa di comunicazione sociale per il Terzo Settore. È tra gli autori del podcast “Sveja!”.
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