Lorenzo Gramatica
L’ultimo film di Andrea Segre, Berlinguer - La grande ambizione ripercorre la vita del segretario del PCI negli anni del compromesso storico. È l’occasione per riflettere sulla figura di un leader molto amato e su una fase storica complessa.
In una raccolta di vignette di Vincino del 1977, L’importante è non vincere, Enrico Berlinguer è in copertina.
Nel disegno di Vincino, lontano dalla fase matura del vignettista, contraddistinta da tratti meno precisi, quasi abbozzati (immagini che avevano, per usare le parole di Giuliano Ferrara: “la straordinaria bellezza del vago”), Berlinguer è ritratto in primo piano, sullo sfondo di uno stadio di atletica. Indossa canottiera sportiva, pantaloncini corti e calzini bianchi logori. In una mano regge per le stringhe un paio di scarpe da corsa, l’altro braccio è appoggiato al fianco, in una posa che sembra esprimere stanchezza. Gli occhi, rivolti all’ingiù come quelli di un basset hound (col quale condivide anche le dimensioni delle orecchie), esprimono una dignitosa e assorta delusione. Alle sue spalle, il podio su cui non è riuscito a salire, e la folla festante (si riconoscono, dalla mitra calzata in testa, i profili di vescovi e cardinali) che celebra il vincitore e i due piazzati. In calce al disegno, il celebre motto decoubertiano che rende ovvio quello che era facilmente intuibile “L’importante non è vincere, è partecipare”. Vincino ritrae un uomo sconfitto e solo.
La vignetta è del 10 giugno 1977 e due giorni prima Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, e Aldo Moro, presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, hanno trovato per la prima volta un accordo programmatico per la realizzazione del “compromesso storico”, formula con cui si indica la strategia politica del PCI tesa a cercare un’alleanza di ampio respiro con le forze di ispirazioni cattolica-democratica, strategia elaborata e fortemente voluta proprio da Enrico Berlinguer a seguito dell’esperienza dell’Unidad Popolar nel Cile di Allende.
Curiosamente, nel molto atteso film di Andrea Segre Berlinguer. La grande ambizione (presentato alla Festa del Cinema di Roma), il segretario del PCI compare per la prima volta sullo schermo intento a fare ginnastica in camicia e canottiera. Un corpo esile e dritto, che si muove con l’impaccio legnoso di un impiegato poco avvezzo all’attività sportiva. Un corpo rigido ma vivo. Berlinguer ha bisogno di sentirlo, il suo corpo, dalle spalle, giù per la schiena, fino alla punta delle dita dei piedi.
Sono i primi giorni dell’ottobre 1973. Berlinguer è a Sofia per partecipare a un vertice bilaterale con i comunisti bulgari. Un mese prima, l’11 settembre, Salvador Allende è stato destituito con un sanguinoso colpo di stato orchestrato dalla CIA ed eseguito da una parte dell’esercito e della polizia nazionale cilena – proprio con le immagini di repertorio dal Cile si apre il film.
“Se il comunismo sovietico è una liturgia, con i suoi codici, le sue funzioni, Berlinguer di questo culto è un sacerdote riluttante, un prete di provincia in crisi mistica”.
La ginnastica è per Berlinguer anche un modo per dare ordine ai pensieri, per soffocare i tafferugli interiori, per tenere impegnata l’angoscia che gli corruccia il volto. Finiti gli esercizi, si dirige alla scrivania e scrive uno dei tre pezzi – usciti per «Rinascita», il periodico del PCI – che porranno le basi della strategia del compromesso storico. Li ascoltiamo, recitati fuori campo dalla voce di Elio Germano, che ricalca, senza sfociare mai nel manierismo, quella inconfondibile di Berlinguer: l’inflessione sarda, lo scandire chiaro, la sintassi ordinata, la prosa pulita, una lucida e controllata fantasia locutoria che gli ha permesso di creare formule di successo, entrate nel gergo della politica (eurocomunismo, questione morale e appunto compromesso storico). Una voce autorevole, che lo è anche per la capacità di far coesistere il dubbio, inteso come ricerca di nuove soluzioni, con l’assertività di chi crede nella propria visione.
I tre pezzi scritti da Berlinguer partono dall’esperienza cilena, che è stata dolorosa negli esiti, ma fondamentale per la prassi: come in Cile, Berlinguer si auspica in Italia un “risveglio delle forze democratiche”. L’Italia, come il Cile, ha scelto la via democratica al socialismo e il colpo di stato fascista che ha destituito Allende, più che un esempio scoraggiante, è un invito a difendere la democrazia e a farlo tempestivamente. Berlinguer è consapevole che il peso del PCI è considerevole, anche numericamente. Immagina uno schieramento di forze politiche progressiste, coese attorno ai valori della democrazia, che faccia da argine alle tentazioni reazionarie e violente di parte della società. Nella visione di Berlinguer le forze popolari e proletarie devono incontrarsi con quelle borghesi, con il ceto medio e, con esse, percorrere un tratto di strada nella stessa direzione. Comunisti, socialisti, cattolici e altri democratici assieme contro le destre e le derive autoritarie. Con la Democrazia Cristiana, con una parte di essa (quella che fa capo ad Aldo Moro), si deve trattare.
È questa “la grande ambizione” a cui allude il titolo del film di Andrea Segre, che si concentra nell’arco di tempo in cui il compromesso storico è stato teorizzato e cercato con determinazione, dal 1973 fino alla morte di Aldo Moro, raccontando i passaggi e le sfide fondamentali di quegli anni, dal referendum per l’abrogazione del divorzio all’attentato di Piazza della Loggia, passando per gli attentati delle Brigate Rosse e le elezioni del 1976 che videro il più grande successo di sempre del PCI alle politiche.
Le angosce di Berlinguer a Sofia sono motivate. La strategia politica che sta elaborando è di rottura rispetto ai dettami dell’Unione Sovietica, l’alleanza con il ceto medio non può certo piacere a Est. Le sue decise prese di posizione contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia non sono state dimenticate e la sua prudente ma decisa volontà autarchica non è gradita a Breznev.
Se il comunismo sovietico è una liturgia, con i suoi codici, le sue funzioni, Berlinguer di questo culto è un sacerdote riluttante, un prete di provincia in crisi mistica.
Nel film, quando è a colloquio con Todor Zivkov, il leader del partito comunista bulgaro, Berlinguer è fermo nel rivendicare le ragioni della sua strategia, ma inquieto. Di fronte non ha un interlocutore dotato di una propria visione; ha un funzionario di partito, capace di esprimere solo le ragioni dell’URSS. Eppure, in famiglia, è Berlinguer a essere chiamato, con affettuosa volontà di scherno, “grigio funzionario di partito”.
I negoziati bulgari vanno male, un clima di freddezza lascia il posto a un’aperta ostilità. Si riparte per Roma con la consapevolezza di una distanza incolmabile.
Nel viaggio in macchina all’aeroporto, un camion che trasporta pietre scavalca la sua corsia e si getta contro la macchina di Berlinguer e dei i suoi accompagnatori. L’interprete rimane ucciso, mentre Velchev, il numero due del partito comunista bulgaro, ferito.
Alla moglie Letizia Laurenti, tornato a casa, Berlinguer dirà: “Non è stato un incidente, volevano uccidermi”.
Questo momento è importante perché anticipa quello che mi pare un tema portante del film, quello della solitudine. Berlinguer non è un uomo solo, ovviamente: ha una famiglia che lo ama, ricambiata (la moglie Letizia, interpretata da Elena Radoncich, le figlie Bianca, Maria Stella e Laura e il figlio Marco); dei collaboratori fidati e affettuosi (l’autista Menichelli, interpretato da Giorgio Tirabassi e il segretario personale Antonio Tatò, interpretato da Pierluigi Corallo), il rispetto e la devozione di milioni di militanti del partito.
La sua solitudine è prima di tutto un tratto di carattere, una leggera estraneità a se stesso: nel film di Segre, Berlinguer si stupisce, imbarazzato e timido, quando gli chiedono quale sia il suo film preferito di Fellini, come se non si fosse mai posto la domanda, come se il suo gusto non fosse rilevante nemmeno per lui. D’altronde, come se ne uscì un giorno, “il comunismo era qualcosa che poteva riempire degnamente una vita”.
Filippo Ceccarelli, nel suo libro Invano, ricorda di quella volta che, per una serie di disguidi, sbadataggini e problemi di comunicazione, il partito e la prefettura si dimenticarono di lui durante le celebrazioni garibaldine a Caprera. Dopo aver aspettato lungamente, Berlinguer prese a percorrere le strade ciottolate dell’isola, come un turista, con i quotidiani sottobraccio. Quando lo recuperarono, disse, forse con un sospiro: “Mi sembrava troppo bello per essere vero!”
Anche il Berlinguer de La grande ambizione sembra un uomo a suo agio nel silenzio, perso nella sua grafomania strategica, più a contatto con le ambizioni politiche che con le proprie emozioni. Il latte che si versa di continuo è legato al ricordo della malattia di sua madre, a cui lo offriva nella speranza di guarirla. Un legame reciso dalla morte ma portato avanti attraverso la reiterazione di un gesto, alla ricerca di un nucleo di amore che le parole non possono restituire fino in fondo.
In quella dedizione, in quel senso pratico, c’è la misura di un uomo forse non tagliato per indicare un orizzonte nuovo, un senso altro, ma chiamato a farlo dalle circostanze e dall’onestà intellettuale, che certo il politico possedeva.
La riservatezza, il disagio di Berlinguer sono bene espressi nel film dalla recitazione di Germano, che non ha bisogno di invadenti e grottesche protesi o di pesanti trucchi per dare spessore al personaggio. Nel suo incedere incerto, incassato nelle spalle, con le braccia rigide attaccate al busto quando sale sul palco prima di un comizio, Berlinguer mostra la sua natura di leader riluttante, capace però di parlare con chiarezza, con voce tonante e pause studiate. Una voce che, per alcuni, sembrava provenire da un luogo dove le complessità e i problemi del presente sarebbero stati risolti con pragmatismo.
Nel film, attorno a Berlinguer si muovono alcune delle figure decisive di quegli anni: il partigiano Ugo Pecchioli (Piero Calabresi), Armando Cossutta (Fabio Bussotti), Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli), Giulio Andreotti (Paolo Pierobon), Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi), Aldo Moro (Roberto Citran). Sono personaggi di contorno, appena abbozzati, spesso dai tratti vagamente caricaturali nonostante le capacità indiscutibili degli attori che li interpretano: ad esempio, Andreotti è una creatura sgradevole e vampiresca, Cossutta un servo infido dei sovietici e, se in entrambe le cose c’è molto di vero, le loro interazioni con Berlinguer sono forse troppo sbrigative per connotarli in modo adeguato.
Ma è una scelta comprensibile, quella di Segre. Il dramma di Berlinguer è individuale anche se non è vissuto come tale, una missione collettiva che lo investe privatamente, essendo per lui labili i confini che separano la vita intima dall’agire politico.
La sensazione è che, senza la politica, semplicemente Berlinguer non sarebbe stato altro. Quando ironizza sul vezzeggiativo che gli riservano in famiglia, “grigio funzionario di partito”, forse intuisce già che lo scarto trasformativo che vorrebbe operare non può riuscirgli fino in fondo, perché è un uomo che non può (e non vuole) distruggere la casa nella quale è cresciuto. Ma ristrutturare un PCI stretto tra l’invadenza disperata dell’Unione Sovietica e i movimenti giovanili ed extra-parlamentari è impresa ardua; se il Sessantotto lo aveva visto in grado di farsi interprete di parte di quella energia spontanea e confusa, gli anni Settanta lo vedono distante e incapace di comprendere e comunicare con quei giovani, con la loro rabbia, la loro violenza.
Pochi giorni fa, su Fuori Orario, è andato in onda il film di Grifi Il festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, girato nel 1977 nel corso dell’omonimo festival della sinistra giovanile. Ascoltando parlare prima i protagonisti del festival ripresi da Grifi e poi Berlinguer in un comizio o in una tribuna politica qualsiasi dello stesso anno, si ha la certezza che quei mondi non potevano incontrarsi, non avevano nulla da dirsi perché mancava, prima di tutto, una lingua comune. Berlinguer poteva farsi comprendere e amare dalla base di militanti comunisti, ma non da quelli che potevano essere destinati a diventarlo negli anni a venire.
“La solitudine di Berlinguer è quindi anche storica, un’asincronia rispetto al presente, e chissà se perché in anticipo o drammaticamente in ritardo sui tempi”.
Berlinguer non solo non fu capace, ma non volle aprire il PCI ai movimenti extraparlamentari. Difficile oggi non riconoscergli che fu una scelta saggia mantenere le distanze tra il partito e una violenza che presto sarebbe diventata, più che rivoluzionaria, greve, stupida, insensata.
La solitudine di Berlinguer è quindi anche storica, un’asincronia rispetto al presente, e chissà se perché in anticipo o drammaticamente in ritardo sui tempi.
Anche Moro, l’interlocutore privilegiato di Berlinguer, era pressoché solo all’interno del suo partito, e se da queste due solitudini è nato un rapporto di stima, tra pari, non si sono create le condizioni affinché il loro progetto politico gli sopravvivesse. Le possibilità di cambiare profondamente le cose erano esigue, anche se qualcosa di ottimo è stato fatto – come ad esempio la creazione del servizio sanitario pubblico. Nel coraggio, anche disperato, di due uomini pronti a fronteggiare le resistenze interne nei rispettivi partiti pur di fare quello che credevano meglio per il Paese, c’è una componente di follia e di azzardo che i due, miti e riservati e osservanti delle gerarchie e delle regole, non avrebbero potuto probabilmente portare avanti con successo.
La morte di Moro colpisce nel profondo Berlinguer forse anche perché lo rende ancora più solo nell’ambizione di costruire stabilmente un’alleanza democratica, come pure rispetto ai tempi e alla modernità che, rapidamente, lo assediano.
Morto Moro, Berlinguer capisce che il suo progetto è destinato a fallire, che il PCI, senza più un interlocutore nella DC, sarebbe rimasto ai margini.
Berlinguer aprirà il famoso discorso del 1981 sulla questione morale dicendo: “I partiti non fanno più politica”, sottointendendo che il PCI invece sì, la faceva ancora, che era meglio degli altri, in una manifestazione di orgoglio e di alterigia che avrebbe gradualmente reso il suo partito sempre più ininfluente.
Finisce, da progressista quale era, arroccato in una difesa dell’austerità retrograda pure se moralmente corretta, ultimo rifugio di un uomo dominato dal buonsenso ma anche animato dal fastidio per quello che stava arrivando – Craxi, soprattutto, che detestava e dal quale era detestato.
Il film di Segre si chiude con la morte di Moro, ma scorrono sul finale le immagini emozionanti dei funerali molto partecipati (un milione e mezzo circa di persone) di Berlinguer a Roma, dopo la morte a Padova, stoica, come in un estremo sacrificio alla politica, a seguito di un malore avvenuto durante un comizio nel 1984.
Nelle immagini di repertorio dei funerali, si vedono passare a omaggiare la salma del segretario del PCI militanti comuni e celebrità: Antonioni, Mastroianni, Monica Vitti fanno il picchetto d’onore.
I funerali di Berlinguer non mostrano solo il commiato da un leader molto amato dalla gente, ma da un certo modo di fare politica, di intendere la partecipazione e il dovere, commiato che oggi ci sembra definitivo già nel momento in cui si consumava, quando la camera inquadra Craxi accanto a Pertini.
Se Pertini (molto amico di Berlinguer) fu uno dei beniamini di quella massa accorsa a celebrare Berlinguer, Craxi fu invece fischiatissimo, molto insultato, e ci rimase pure male: “Questa è anche la mia folla”, disse tra l’incredulo e lo stizzito, fingendo forse di non ricordare il trattamento ingeneroso, se non proprio spietato, che gli venne riservato appena un mese prima al congresso del PSI di Verona, dove i militanti socialisti fischiarono e insultarono il segretario del PCI, osannati poi, a contestazione avvenuta, da Craxi stesso.
Ma in quell’avvicendamento simbolico, tra il morto e il vivo – vivissimo, perché temibile, furbo, capace e quindi contestato – si avverte con intensità un cambiamento anche antropologico della politica, la fine di qualcosa, l’inizio di qualcos’altro. Un cambiamento che i militanti temevano, e del quale forse sentivano l’ineluttabilità.
Se la morte di Moro (più di quella di Berlinguer, paradossalmente), vista oggi, pare la fine dell’unica idea di comunismo in Italia che pareva sensata (dialogica, disposta al compromesso ed emancipata dall’URSS), i funerali di Berlinguer sono l’inizio del declino che avrebbe poi investito il partito. Con il suo successore Natta (uomo colto e preparato ma elemento residuale del passato), l’inadeguatezza e lo scarso appeal di quel progetto politico incapace di rinnovarsi e di leggere le istanze del presente diventa evidente. La classe dirigente che poi lo liquiderà sbrigativamente (i Veltroni, i D’Alema, gli Occhetto) si dimostrerà, per tratti umani prima che politici forse, decisamente peggiore.
Berlinguer è diventato oggi come il Sarchiapone di Walter Chiari, che è tutto e nulla, strumentalmente adoperato da vari leader del post comunismo italiano come elemento di seduzione o rabbonimento dell’elettorato, nel tentativo di tenere assieme generazioni diverse sotto l’ombrello di un passato annacquato con un presente a tratti incomprensibile. Per Veltroni, Berlinguer era il Kennedy italiano, ad esempio, e nel suo personale Pantheon stava accanto a figure che difficilmente avrebbero trascorso molto tempo nella stessa stanza senza provare fastidio gli uni per gli altri. Chissà come l’avrebbe presa Berlinguer, a vedersi accostato a Madre Teresa di Calcutta.
Oggi Berlinguer è ricordato, soprattutto a destra, come un perdente la cui sconfitta fu totale e definitiva, e trattato dalla sinistra alla stregua di un santino – il modo più comodo e pigro per fare i conti con il proprio passato. Entrambe le letture sono riduttive e parziali.
Il film di Segre, misurato nel racconto e scrupoloso, filologico nelle ricostruzioni, evita i toni troppo nostalgici, e ha il merito di restituire a Enrico Berlinguer una dimensione umana, intima, che forse contribuirà sciogliere almeno un poco la goccia d’ambra in cui è stato cristallizzato; e magari a dissolvere la retorica un po’ troppo autoindulgente secondo cui l’impegno e la rettitudine appartengono solo a un passato irraggiungibile.
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