Claudia Bellante
Dal Nepal all’Egitto, da Medellín a Bali, le vite “da remoto” non raccontano solo di libertà, indipendenza e laptop sulla spiaggia, ma anche di privilegi, solitudine e differenze di genere.
Nel febbraio 2011 la mia amica Tess Vleugels stava per diventare nomade digitale e non lo sapeva. Ai tempi viveva a Buenos Aires e lavorava come coordinatrice del marketing e delle vendite per l’agenzia di viaggi nella quale aveva fatto lo stage durante i suoi studi di turismo in Olanda. Un giorno conosce Antonio Torres, venezuelano, impiegato in un boutique hotel. Si innamorano e – visto che agli occhi di Antonio l’Argentina di Cristina Kirchner è a un passo dal trasformarsi nella Repubblica bolivariana dalla quale era scappato – decidono che la cosa migliore sia iniziare a girare il Sud America alla ricerca di un posto nuovo dove vivere. Rinunciare a due stipendi però non è pensabile, e così Tess inizia una lunga trattativa con la sua responsabile finché ottiene sei mesi di prova per svolgere il suo lavoro da remoto.
Mancano nove anni alla pandemia, il lavoro da remoto è ancora una rarità e l’idea di Tess non ha un nome.
Lei e Antonio vendono tutto: vestiti, mobili, suppellettili e decidono di aprire un blog di viaggio. Anche in questo sono pionieri. Il blog si chiama Destination Next Home e racconta i loro mesi nelle città che hanno deciso di testare come futura casa. “La regola che ci eravamo dati era di rimanere nelle città non meno di quattro settimane e non più di sei, ci sembrava un tempo ragionevole per iniziare ad avere una routine, vivere in un posto non da semplici turisti. Le nostre tappe erano Florianópolis e Salvador de Bahia in Brasile, Medellín in Colombia e Lima in Perù”.
Da quando ho conosciuto Tess e Antonio nel 2013, gustando un asado su una terrazza di Barranco, il quartiere più hipster di Lima, ho sentito questa storia decine di volte, eppure ogni volta scopro dettagli nuovi. “A Salvador avevamo affittato casa di uno scrittore messicano, noi vivevamo al piano di sopra e in quello di sotto abitava la famiglia che si prendeva cura della casa. Sono sempre stati gentilissimi con noi e ci hanno aiutato in tutto, ma il Brasile non era un buon posto per vivere, per Antonio era difficile trovare lavoro”, ricorda Tess.
“A Medellín siamo stati due mesi, ci era piaciuta tantissimo. Vivevamo in un grande attico con altri ragazzi e c’era una coppia di americani che lavoravano anche loro da remoto. In quegli anni in Colombia si respirava una bella aria”, dice Antonio. Alla fine però a vincere Destination Next Home è Lima. I primi tempi alloggiano a Casa Nuestra, un B&B negli anni diventato famoso, gestito da Carmen, peruviana dall’eleganza parigina, e Francesco, fiorentino alto e biondissimo; per alcuni mesi Tess e Antonio li sostituiscono nella gestione. Poi affittano un appartamento, Antonio trova un lavoro fisso e Tess, superati ormai i sei mesi di prova, continua da remoto. Lima diventa così, per un lungo periodo, la loro nuova casa.
Oggi vivono a L’Aia, in Olanda, Tess ha sempre un impiego che le permette di scegliere se andare in ufficio o no e Antonio ha aperto il primo e unico ristorante di arepas venezuelane della città. “Dopo tanti anni in Sud America c’erano cose che non ci piacevano più e che ci affaticavano”, confessa Antonio. “Sono contenta però che abbiamo vissuto in quel modo per un po’ di anni”, dice Tess. “Spesso le persone credono che non sia possibile, invece lo è anche se non è facile e non è per tutti. Devi darti delle regole, avere una disciplina perché devi lavorare le ore richieste dalla tua impresa. Per la maggior parte del tempo starai a una scrivania. Devi essere consapevole del fatto, poi, che non sempre avrai affinità con le persone che incontri, a volte ti sentirai solo e devi imparare ad apprezzare quello che vivi senza gli altri”.
Parlare con Tess e Antonio che si sono lasciati alle spalle la loro epoca vagabonda mi ha aiutato a spegnere, in parte, lo sfavillio della narrazione che invece circonda i “nomadi digitali”, e a capire che anche le vite apparentemente perfette contengono, come tutte, delle criticità.
1. Capire un fenomeno
Sebbene la pandemia abbia dato grande impulso al lavoro da remoto, permettendo a molte persone di rendersi conto che andare in ufficio non è indispensabile, i nomadi digitali esistono già dal secolo scorso. Il primo a definirsi tale sembra essere stato Steven K. Roberts, che tra il 1983 e il 1991 percorse 17.000 miglia attraverso l’America in bicicletta, lavorando come scrittore freelance e consulente high tech, dopo aver venduto la sua casa nei sobborghi di Columbus, in Ohio. Steve era un inventore e aveva dotato la sua due ruote di pannelli solari, tastiera e monitor trasformandola in un vero e proprio ufficio mobile. Ma se prima a compiere il grande salto erano in pochi, oggi si parla di milioni di persone.
Il report dell’agosto 2023 di MBO Partners, una piattaforma che mette in comunicazione professionisti indipendenti e proprietari di microimprese, dal titolo “Il nomadismo entra nel mainstream” riporta i numeri relativi agli Stati Uniti dove 17,3 milioni di lavoratori attualmente si descrivono come nomadi digitali, con una crescita relativa del 2% rispetto al 2022 ma con l’incredibile aumento del 131% rispetto all’anno prepandemico 2019. Definire i nomadi digitali in modo univoco non è semplice, lo stesso report lo ammette.
“Nel febbraio 2011 la mia amica Tess Vleugels stava per diventare nomade digitale e non lo sapeva”
C’è chi lo fa per anni, chi per brevi periodi, chi si sposta di continente in continente e chi si muove all’interno di un’unica area geografica, chi ha un impiego stabile che gli assicura un certo tenore di vita e chi invece vive nella costante ricerca di un’opportunità di guadagno che gli consenta di stare in giro e di luoghi economici dove fare base. Ad accomunare queste persone è il desiderio di combinare lavoro da remoto e viaggio. Studiando un po’ meglio il fenomeno, però, si scopre che determinare il successo delle vite dei nomadi digitali sono i fattori di sempre: le possibilità economiche, il sesso, gli studi fatti, il passaporto con cui si viaggia, la moneta con la quale si paga.
2. Il genere conta, sempre
Prerna Gupta l’ho conosciuta grazie a Home Exchange. Mi ha contattato per offrirmi la sua casa a Bangalore in cambio della mia a Milano. Vuole stare alcuni mesi in Europa e cerca delle soluzioni economiche per farlo. Prerna è una life coach e consulente psicologica specializzata nell’aiuto di persone queer. Ha iniziato a lavorare da remoto durante la pandemia, scoprendo così nuove modalità per svolgere il suo mestiere, ma per lei la vita da nomade digitale ha parecchi ostacoli. “I miei pazienti mi pagano in rupie indiane, guadagno circa 1300 dollari al mese; non è un budget sufficiente. [Quello del nomade digitale] non è uno stile di vita sostenibile, a meno che tu non sia ricco. Oltretutto io ho anche delle persone e degli animali che dipendono da me”. Prerna si riferisce al suo gatto, ma soprattutto agli impiegati domestici che si prendono cura della sua casa. “In altri paesi è incomprensibile, ma la società indiana è strutturata così, e anche se me ne vado devo pagare queste persone che vivono del loro stipendio”.
Chiedo a Prerna se essere nomade digitale donna è diverso rispetto all’essere uomo. “Certo, per noi è più costoso, e a volte i posti economici non sono sicuri”. Le chiedo anche se le capita di sentirsi sola. “Sì, soprattutto con il lavoro che faccio io, quando concludi le sedute da remoto e spegni il computer hai bisogno di sfogarti, di staccare la spina, e se sei lontana da casa non sempre hai qualcuno con cui chiacchierare”.
Federico D’Ubaldo è originario di Civita Castellana. Assieme alla sua fidanzata Ole, è amministratore del gruppo Facebook Digital Nomads || Co-livings & Retreats around the globe che ha oltre 61.000 iscritti. “Non mi definisco nomade perché ho casa a Civita e torno ogni tre mesi per ricaricarmi” mi spiega, dimostrando ancora una volta come l’etichetta di nomade digitale venga spesso applicata con troppa facilità. Federico ha cominciato facendo il lavapiatti, poi è diventato junior chef e in poco tempo è andato “in burnout totale”. In seguito è passato a vendere software e a fare campagne marketing. Ha vissuto prima in Svizzera, poi a Lisbona. La pandemia lo ha obbligato a lavorare da remoto e, per curiosità, un paio di anni fa si è ritrovato a un retreat per nomadi digitali a Madeira. Lì ha incontrato Oleksandra, una ragazza ucraina con un’agenzia di performance marketing. “Abbiamo iniziato a viaggiare insieme in Europa, in Estonia e in Polonia. Poi per un periodo siamo stati sul lago di Bracciano e lì abbiamo pensato che potesse essere una buona idea affittare una grande villa e realizzare un coworking che offrisse anche delle esperienze culinarie. Avevamo dodici posti ed è andato sold out”. Da quel primo esperimento è nato Eatinerant: proposte di co-living dedicate ai nomadi digitali amanti del cibo ogni volta organizzati in luoghi diversi.
“Circa l’80% dei nostri clienti sono ragazze, perché cercano compagnia ma in posti sicuri”. A Federico chiedo se per essere nomade digitale bisogna essere ricchi: “Io trovo che adesso come adesso per me sia più economico essere nomade digitale che vivere stabilmente in Italia. Una cosa che accomuna molti di noi è che scappiamo dall’inverno e andiamo in paesi dove la vita costa meno. Siamo turisti a lungo termine, che fanno un tipo di viaggio lento”. Ma che lavori fanno questi viaggiatori lenti? “Nonostante quello che si possa pensare la maggior parte non sono gipsy, sono produttivi e in media hanno 35 anni. In pochi hanno un solo lavoro e sono per lo più software developer, consulenti, lavorano nella cyber security o nel coding. Ci sono anche i crypto, però sono una razza a parte, vivono appartati nella loro bolla”.
La maggior parte dei nomadi digitali che, oltre a definirsi tali, possono vantare i benefici offerti dal loro status, come visti specifici concessi da molti paesi interessati ad attrarre cervelli giovani e disposti a spendere, lavora nel settore dell’information technology e del marketing. Me lo conferma Kadri Koor, impiegata all’Ente del turismo estone che sta per ultimare il suo master all’Università di Tallinn con una tesi sul significato del lavoro per i nomadi digitali. Kadri ha intervistato 114 nomadi digitali che, al momento dello studio, si trovavano in 41 paesi diversi e provenivano da 43 nazioni e ha registrato un’età media compresa tra i 26 e i 35 anni con alto livello di istruzione. “La maggior parte degli intervistati proveniva dall’Europa, il 61%, e anche l’attuale localizzazione dei nomadi digitali era prevalentemente europea, il 52%”, mi spiega. L’Europa in effetti è il continente dal quale provengono moltissimi dei nomadi digitali che sono in giro per il mondo. Una cifra totale che secondo Nomad List, una piattaforma che pubblica statistiche, dati e trend in tempo reale provenienti dagli iscritti alla propria community, sfiora i 55 milioni. Secondo questi dati, il nomade digitale medio è: eterosessuale, bianco, maschio, progressista, non religioso, con uno stipendio medio di 85 mila dollari l’anno.
Passando ore e ore tra siti e gruppi facebook di nomadi digitali, ho potuto osservare che i posti nei quali si muovono non brillano per originalità. Tra le mete prescelte ci sono molti classici. Portogallo e Spagna, tra i primi paesi a introdurre una visa specifica per i nomadi digitali, l’immancabile Thailandia, la sovraffollata Bali che però qualcuno sta sostituendo con la meno – per il momento – bazzicata Lombok. C’è poi l’emergere delle repubbliche baltiche, l’Estonia di Kadri su tutte, e di paesi piccoli ma ospitali e ancora economici, come la Georgia, individuata da Federico per uno dei suoi “food-living”. Ad attrarre però la mia attenzione è stata la cittadina di Pokhara, in Nepal, che sul sito abrotherabroad.com è indicata come la più economica in assoluto con un costo medio della vita di 467 dollari al mese. Chi ha la mia età (45) probabilmente ricorda il libro di culto Flash. Il grande viaggio e si ricorderà le esperienze dell’autore, il francese Charles Duchaussois, che, di droga in droga, arriva sino a Kathmandu. Bene, il Nepal di Pokhara nel 2024 non ha niente a che vedere con quello degli hippy negli anni Settanta. I nomadi digitali che interagiscono nel gruppo Pokhara Expat (4371 membri) cercano lezioni di yoga e tai chi, guest house economiche e panoramici trekking. Al posto dell’oppio oggi si va a caccia di aria buona per riempire i polmoni.
Ma se a girovagare per il pianeta in cerca di posti economici e rilassanti con un laptop sotto il braccio rischiano alla fine di essere sempre i soliti bianchi e ricchi, a volte capita che gli equilibri si ribaltino e che a dettare le regole sia chi a quei posti appartiene e non ha più voglia di essere relegato a figura di secondo piano, un puntino sfocato che si perde nel panorama instagrammabile.
Jeevan Sigdel è un trentasettenne nepalese che ha preso una laurea in sistemi informatici a Houston, in Texas e ha lavorato per IBM. Oggi fa il consulente ed è tornato a vivere con la moglie e una bambina nata da poco a Kihun, un villaggio a due ore da Pokhara. Usa i soldi che guadagna dai suoi clienti “occidentali” per mettere a posto la casa dei nonni con l’idea di trasformarla in una fattoria organica e co-working per appassionati di mountain bike, birdwatching, passeggiate nella natura. Sul sito del progetto, Jeevan si rivolge ai nomadi digitali come lui offrendo una connessione internet veloce con Wi-Fi e 4G. “Ho un generatore in grado di dare autonomia per tre giorni nel caso saltasse la corrente” mi assicura quando parliamo in videochiamata. “Pokhara è la Cusco del Nepal” mi spiega e io, che a Cusco ci sono stata, capisco cosa vuol dire: un giusto mix di cultura ancestrale, caffè alla moda e ostelli colorati dagli standard europei. “I nepalesi oggi vivono in 140 paesi, i giovani è difficile che restino, preferiscono andare in America, in Australia, in Canada. Io invece ho deciso di tornare”. Gli chiedo se vede la sua come una sorta di rivincita: usare il suo stipendio in dollari per far crescere l’economia del paese dal quale è andato via inseguendo un sogno che non si è rivelato poi così appagante. “In effetti io investo qua i dollari che guadagno con i clienti americani, è una sorta di decolonizzazione”.
3. Solitudine digitale
Marta Malaman ha trent’anni, è nata e cresciuta a Milano ma vive dal 2020 a Fuerteventura dove ultimamente si è trasferita anche sua madre. Marta ha studiato Psicologia all’Università Cattolica e ha fatto un master in coaching. Lavora in italiano e in inglese e tra i suoi pazienti ha diversi nomadi digitali. “Moltissimi sono aspiranti tali. Lavoriamo sull’autostima, sul giudizio degli altri e sul concetto di missione, di ikigai, ovvero ciò che dà senso alla nostra vita. Quello che li accomuna – mi racconta – è il sentimento di solitudine, l’instabilità”. Le chiedo secondo lei come mai le persone scelgono di vivere in movimento: “In questo viaggiare costante c’è sicuramente la necessità di fuggire da qualcosa, ma la maggior parte di noi pensa: Perché vivere una sola vita se ne posso vivere tante?”
Per Marta è importante avere una base. “Con i miei coinquilini ho un accordo per il quale io pago un po’ di più ma ci sono da settembre a marzo, per il resto viaggio”. Da quando è diventata libera professionista Marta si è data un budget di mille euro al mese, affitto compreso, perché fare la psicologa da remoto volendo mantenere la libertà di decidere se e quando lavorare ha un prezzo che certamente non paga chi fa consulenza online per una multinazionale high tech americana. “Certo che mi spiace rinunciare ad andare a cena fuori molte volte, ma lo faccio per un obiettivo più alto nella mia scala di valori”. Le Canarie hanno fatto diventare il surf parte della sua vita e i suoi mesi da nomade girano intorno alle onde. “A giugno vado in Portogallo, a Ericeira, in un co-living per due settimane. Poi torno in Bulgaria dove sono già stata l’estate scorsa, al Bansko Nomad Festival, luglio è dedicato all’Italia e ai compleanni di vari amici, agosto vorrei fare volontariato in Italia, settembre vado a surfare in Marocco e poi con un’amica andiamo a Dahab”. Dahab è la bolla dei nomadi digitali affacciata sul Mar Rosso. Chiedo a Marta se non sia un po’ dissonante immaginare un posto così libero e aperto in quella che è una dittatura a tutti gli effetti e lei mi risponde che se dovessimo visitare o meno i paesi in base al loro livello di democrazia non andremmo quasi da nessuna parte.
“Sebbene la pandemia abbia dato grande impulso al lavoro da remoto, permettendo a molte persone di rendersi conto che andare in ufficio non è indispensabile, i nomadi digitali esistono già dal secolo scorso”.
Autoritarismi o meno, il fatto che il nomadismo digitale rappresenti una forma nuova di gentrificazione “soft” e che alteri le comunità locali con le quali entra in contatto non è un’intuizione difficile da avere. Sono gli stessi nomadi a rifletterci nei numerosi post che leggo mentre lamentano l’aumento dei prezzi praticamente ovunque, da Città del Messico a Tbilisi. Ad aprile dell’anno scorso fu proprio Medellín, la città colombiana tanto amata già ai tempi da Tess e Antonio, a far discutere per un’azione della politica e attivista Ana María Valle, che tappezzò di cartelli i muri del sempre più turistico quartiere Provenza. Le scritte erano “Scambierei un Airbnb per un vicino e una casa”, “Medellín non è in vendita: basta con la gentrificazione” e “Nomadi digitali, colonizzatori temporanei”. A raccontarlo è la giornalista Nicole Garcia Merida su Vice: “Giochiamo al gioco ‘Individua i nomadi digitali’: non è difficile. Pensa a un backpacker ma rimuovi la fatica, sostituisci lo zaino gigantesco con una borsa piena di una quantità oscena di prodotti Apple che organizzerà in un’inquadratura dall’alto per la sua storia IG prima di concludere la giornata, giusto in tempo per l’happy hour. Un ultimo indizio? Il 76% di loro sono bianchi”.
4. Soft gentrification
“Nel 2022, la Colombia ha formalizzato la creazione del visto per nomadi digitali”, scrive su LinkedIn il giornalista colombiano Manuel A. León Martín. “L’offerta di alloggi turistici a breve termine si sta espandendo rapidamente, mentre le opzioni di affitto a lungo termine stanno diventando sempre più scarse e costose. Ad esempio, nel 2021, la crescita dell’offerta di alloggi turistici è stata del 119%. (…) L’afflusso di nomadi digitali ha portato benefici economici ma ha anche innescato la gentrificazione, sollevando preoccupazioni sull’accessibilità economica degli alloggi e sullo sfollamento dei residenti a basso reddito”.
Sebbene il nomadismo digitale per sua natura non sia paragonabile al turismo usa e getta che punta all’accumulo di quanti più luoghi visitati nel minor tempo possibile, spesso anche la sbandierata fusione con la cultura locale rimane un’utopia.
Serena Chironna ha studiato Sviluppo sostenibile in Svezia e poi si è trasferita a Londra dove ha vissuto per sette anni e dove è di ritorno dopo una parentesi italiana e un’impresa, chiamata Kino, che si poneva l’obiettivo di attrarre i nomadi digitali in territori abbandonati. Il primo esperimento l’ha fatto nel giugno del 2022 a Tursi, un paesino della Basilicata. Il coworking era in un ex monastero dato in concessione dal Comune in epoca COVID, gli alloggi erano stati trovati secondo la logica del turismo diffuso e Serena e il suo socio hanno organizzato diverse attività e un mini festival dedicato all’impatto sociale, per provare a connettere gli stranieri con la gente del posto. A Serena interessava capire quali fossero i bisogni locali e come i nomadi potessero aiutare a trovare risposte offrendo idee e competenze. Ma le cose non sono andate come se le immaginava. “Ho capito che certe iniziative devono nascere dal territorio e che c’è bisogno di un ecosistema locale attivo. È più un progetto da associazione che da impresa business a breve termine”. Kino ha comunque avuto dei successi. “A Ostuni abbiamo collaborato con un’associazione di ragazzi che tengono compagnia agli anziani, fanno con loro la pasta, suonano, e ai nomadi che hanno partecipato a quel co-living piaceva quella dimensione, si sono sentiti inclusi, le persone li riconoscevano in paese, si sono create amicizie, qualcuno ha anche trovato il fidanzato”. Ma creare una relazione profonda e rigenerativa con il territorio è un’altra cosa, per come la vede Serena. “Alla fine diventa anche una domanda esistenziale: io voglio vendere pacchetti turistici? E la risposta, per quanto mi riguarda, è no.”
In un articolo pubblicato sulla rivista «Pursuit» dell’Università di Melbourne, l’antropologo Shaun Busuttil e la ricercatrice Olga Hannonen mettono a confronto le loro osservazioni sull’impatto dei nomadi digitali in due contesti profondamente diversi come le Canarie e Bali. Secondo quanto osservato da Hannonen a Gran Canaria, “l’atteggiamento dei locali nei confronti della comunità dei nomadi digitali è stato nel suo complesso accogliente sia da parte dalle imprese che traggono profitto direttamente dai nomadi digitali, sia dai residenti che non ottengono alcun beneficio diretto ma interagiscono con loro nella loro vita quotidiana”. D’altro canto, Shaun Busuttil ha rilevato come a Bali le interazioni locali-nomadi fossero principalmente transazionali. “In quella che potrebbe essere vista come una forma di segregazione socio-spaziale”, spiega, “i nomadi spesso lavorano, mangiano e bevono in luoghi diversi rispetto alla gente del posto, segregati non da esplicite politiche discriminatorie ma dal costo letterale del consumo e da significative disparità di reddito”.
“Pur contribuendo in modo sostanziale all’economia regionale attraverso investimenti e spese”, riflette l’autore, “la loro influenza dirompente sull’identità culturale dell’isola ha suscitato alcune resistenze da parte della comunità. Ciò è in contrasto con quanto accade in Europa, dove un background occidentale condiviso tra nomadi e gente del posto suggerisce un’integrazione (potenziale) più fluida”.
“È importante capire”, concludono Busuttil e Hannonen, “che i nomadi digitali spesso fuggono da città e luoghi gentrificati, approfittando delle disuguaglianze strutturali e sfruttando i benefici del geo arbitraggio (guadagnare in un’economia forte vivendo in un posto a basso costo) per massimizzare la qualità della loro vita. Ma perseguendo questo scopo, alla fine scaricano le conseguenze della gentrificazione in nuove località, il che rende solo più difficile per la popolazione locale raggiungere lo stesso ambito obiettivo”.
“C’è chi lo fa per anni, chi per brevi periodi, chi si sposta di continente in continente e chi si muove all’interno di un’unica area geografica, chi ha un impiego stabile che gli assicura un certo tenore di vita e chi invece vive nella costante ricerca di un’opportunità di guadagno”.
C’è un lato romantico della vita del nomade digitale. Esplorare cercando di sentirsi a casa ovunque, seguire un reale, seppur naïf, interesse per le altre culture. Dovremmo trovare il modo di difendere questo slancio: il semplice fatto che ci sia qualcuno che abbia voglia di muoversi, di cambiare, di esplorare – e che allo stesso tempo ci siano altri più o meno disposti ad accoglierlo –, vuole in fondo dire che c’è ancora spazio e desiderio per l’incontro, lo scambio o il conflitto, e la creazione quindi di società nuove, che potrebbero sorprenderci. Per come stanno le cose oggi, però, il romanticismo del nomade digitale sembra ancora, troppo spesso, fondarsi sul privilegio di poter scegliere come e dove vivere, mettendo al centro la propria ricerca di benessere indipendentemente dall’effetto farfalla che ne può scaturire.
Claudia Bellante
Claudia Bellante è giornalista e documentarista freelance. Collabora con diverse testate nazionali e internazionali. È fondatrice, assieme al fotografo Mirko Cecchi, di RACCONTAMI, una realtà multidisciplinare dedicata alla creazione di contenuti per il terzo settore.
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