Giuliano Battiston
15 Agosto 2024
Il 15 agosto 2021, le immagini della presa di Kabul da parte dei Talebani e del ritiro delle truppe USA destarono incredulità e partecipazione. A tre anni da quel giorno, cosa sappiamo dei Talebani? Un reportage che, a partire da un incontro con il militante jihadista Abdul Hai Sabawoon, raccoglie voci dentro e fuori dal Paese per tracciarne un bilancio oggi.
“Ma dove vanno i Talebani, con le loro giubbe sporche, sempre in cerca di una bomba e di un bazar… Ma dove vanno i Talebani, con le loro barbe lunghe, sempre in cerca d’uno straniero da beccar…”. Durante i viaggi di lavoro in Afghanistan, con studiata ritualità mi sono ritrovato a canticchiare Ma come fanno i marinai, la splendida canzone del 1978 scritta e cantata da Lucio Dalla e Francesco De Gregori. Mormorato sotto voce – su un taxi collettivo da Kabul a Mazar-e-Sharif o su un minibus sgangherato lungo la strada centrale verso Herat, unica striscia di terra nel mezzo di paesaggi solitari e battuti dal sole –, quel testo storpiato era un gesto scaramantico; una preghiera laica in un Paese fondato sulla religione, rivolta al dio degli atei affinché intercedesse per scongiurare il male: un checkpoint dei Talebani e, nel migliore dei casi, il rapimento e la lunga prigionia in cattività.
Il tempo delle canzoni scaramantiche è finito tre anni fa, il 15 agosto 2021. È allora che i Talebani, dopo un’offensiva rapida che capitalizzava due decenni di insensata e disastrosa occupazione militare, conquistano l’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, abbandonato in fretta e furia dal presidente della Repubblica islamica. Soltanto pochi mesi prima, durante una preghiera pubblica nel giardino dell’Arg, il presidente Ashraf Ghani era rimasto impassibile al suono sordo di un’esplosione poco distante, mentre i suoi collaboratori tremavano di paura. In un’altra occasione, a favore di telecamere, aveva gonfiato il petto dicendosi pronto al martirio pur di difendere la patria e la Repubblica. Oggi vive al sicuro e con agio negli Emirati Arabi Uniti e, insieme agli statunitensi, è il capro espiatorio di un fallimento le cui responsabilità sono molto più ampie. Quali e di chi siano, i Talebani sono al potere.
“I rapimenti? Uh, ma quella è una storia vecchia, quelle cose non le facciamo più. Erano parte del jihad. Ora non servono. L’Afghanistan ha ritrovato la sovranità. Siamo in pace con tutti, tranne con chi minaccia l’Emirato”. Il mawlawi Abdul Hai Sabawoon è un veterano del jihad afghano: “Una lunga storia. È stata dura, molto dura, ma grazie ad Allah ce l’abbiamo fatta. Abbiamo riconquistato la sovranità sul nostro Paese”. Fa parte dei militanti di medio-alto livello del movimento dei Talebani. Il più longevo gruppo jihadista al mondo. L’unico capace di istituire per due volte, prima a metà degli anni Novanta, poi nell’estate del 2021, un Emirato islamico, fragile ma funzionante.
Quando l’ho incontrato a Farah, nel maggio 2022, il clerico oscillava tra due mondi. Da una parte rivendicava i sacrifici compiuti, necessari alla vittoria “sul governo corrotto di Kabul, fantoccio degli americani”, dall’altra sembrava ancora faticare a riconoscersi nel nuovo ruolo: responsabile del dipartimento per l’Informazione e la Cultura. Il vestito inamidato, il turbante bianco accuratamente avvolto intorno alla testa, sedeva malvolentieri, e solo per le foto di rito, sulla poltrona del suo ufficio. Preferiva stravaccarsi a terra, su tappeti e comodi cuscini. Gli stessi su cui mi aveva interrogato con calma indagatrice sulle ragioni della mia visita, inusuale. Fino a pochi mesi prima viveva in clandestinità. E in clandestinità aveva contribuito ad alimentare la macchina della propaganda degli eredi di mullah Omar, padre spirituale e fondatore dei Talebani, sfruttando i troppi errori del governo repubblicano e le troppe stragi di civili dei soldati stranieri. Nel maggio 2022, il clerico di Farah e l’intero movimento dei Talebani erano all’inizio di una transizione epocale: dalla guerriglia armata ai ministeri, dal jihad combattuto alla governance. Oggi, a tre anni dal loro ritorno al potere, qual è la traiettoria dell’Emirato, il governo dei Talebani?
Il governo è a esclusiva trazione talebana. Gli impegni presi con l’accordo di Doha, firmato nella capitale del Qatar nel febbraio 2020 dopo mesi di trattative con gli Usa gestite per conto dello sbrigativo Donald Trump dall’inviato speciale Zalmay Khalilzad, sono lettera morta. Vi si alludeva, in cambio del ritiro sicuro dei soldati americani, alla disponibilità al dialogo futuro con altri pezzi dello spettro politico afghano. Ma la storia è andata diversamente. Nonostante gli appelli ripetuti delle cancellerie euro-atlantiche e delle più benevole cancellerie regionali, divise su molte cose ma unite dall’invocazione di un governo più inclusivo, il potere è tutto nelle mani dei Talebani. I quali non hanno alcuna intenzione, né alcuna ragione, per condividerlo. I compiti principali sono altri: mantenere l’unità interna e consolidare l’Emirato (ancora sotto attacco, secondo loro). Con una strategia paradossale.
“‘I rapimenti? Uh, ma quella è una storia vecchia, quelle cose non le facciamo più'”.
Per anni i Talebani hanno descritto il governo di Kabul come fantoccio degli americani, la Repubblica come non rappresentativa, le sue istituzioni come artificio farsesco e prodotto ingegneristico dell’occupazione degli infedeli invasori. Poi però hanno deciso di mantenerle in piedi. Mettendoci un cappello nuovo. Sostituendo alla bandiera tricolore repubblicana quella di un convinto, combattivo monoteismo islamista: il drappo bianco che sventola su ogni edificio pubblico del Paese e su cui campeggia la shahada, la scritta che equivale alla professione di fede islamica. Sventola anche sulla collina di Wazir Akbar Khan – intitolata a uno dei protagonisti della prima guerra anglo-afghana, a metà dell’Ottocento – che sovrasta il quartiere residenziale di Sherpur, a Kabul, simbolo della natura predatoria dei passati regimi.
Bandiera diversa, stesse istituzioni, identica macchina burocratica. Senza i soldi con cui l’occidente ha alimentato quella macchina, però. Servivano a dimostrare che la democrazia, seppur esportata con le armi, funzionava. Ma hanno gonfiato le tasche di molti, afghani e stranieri, e ampliato la distanza tra politica e cittadinanza. In questi tre anni i Talebani hanno dovuto innanzitutto trovare canali di finanziamento alternativi: tasse, controllo dei posti di confine, dogane, concessioni minerarie, attività di lobby sugli imprenditori locali e regionali, commerci illeciti, sponsor regionali che sposano la causa. L’Emirato oggi ha sufficienti risorse per mantenere in piedi uno Stato dalle capacità ridotte, evitando di essere messo all’angolo. Ma cresce la consapevolezza che, al netto della retorica sulle responsabilità disattese dell’occidente, la debolezza finanziaria rischi di alienare ulteriormente la popolazione, vista l’incapacità di pagare in modo continuativo i salari degli impiegati pubblici. L’altro compito ha a che fare con l’ideologia: i Talebani hanno dovuto improntare a valori ‘sani’, non corrotti, ispirati all’Islam, le istituzioni repubblicane. Da qui, una superfetazione giuridica, che attribuisce potere agli interpreti del diritto islamico e agli ulema e rilegittima e reindirizza le vecchie istituzioni. Da riempire con contenuti e provvedimenti improntati al radicalismo islamista anche per segnare la differenza con il passato.
Il movimento dei Talebani è infatti policentrico, con anime diverse. Non mancano quanti criticano la continuità istituzionale con il vecchio regime. Sono loro ad aver spinto verso politiche ultraconservatrici. E ad aver sabotato ogni tentativo di riavvicinamento diplomatico con la diplomazia euro-atlantica, che da parte sua, persa la guerra, ha adottato politiche di rappresaglia economica, come il congelamento dei fondi della Banca centrale afghana: soldi dei cittadini afghani, congelati con un ordine esecutivo unilaterale del presidente Usa, Joe Biden, a cui il predecessore Trump aveva consegnato una strategia già fallimentare.
Guardando retrospettivamente ai tre anni passati, si fa più evidente la traiettoria dell’Emirato. Più netta la sconfitta dei pragmatici, la componente che aspirava a un riavvicinamento con l’occidente, messa in minoranza. Specchio e risultato di nuova gerarchia di poteri, l’impronta oltranzista dell’Emirato è chiara. Prende corpo e si manifesta nel Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del vizio, conosciuto in tutto il Paese con il suo nome in arabo, Amr bil-Maruf, sebbene nel Paese si parli prevalentemente le lingue dari e pashtu. Ha sede nello stesso complesso che, fino all’agosto 2021, ospitava il ministero per gli Affari femminili, subito chiuso dalle nuove autorità afghane.
Nel maggio 2022, l’ultima volta in cui mi è stato concesso di entrare nel Paese, l’Emirato ha reso pubblico l’editto che obbliga le donne a coprire l’intero corpo, tranne gli occhi. Sono andato a intervistare ragazze, studentesse, attiviste, imprenditrici, per capire cosa ne pensassero e come avrebbero reagito. Poi sono andato a dare conto delle loro risposte al portavoce del ministero. Mi hanno fatto accomodare in una stanza buia. Tè caldo, caramelle sul tavolino basso, una lunga attesa. A un certo punto, fa il suo ingresso Mohammad Sadiq Aqif, il portavoce. Tra il sospettoso e il rivendicativo, tra il fideistico e il ministeriale, spiega che è una decisione giusta e legittima, presa per tutelare i diritti e la dignità delle donne. Che l’Emirato agisce per il bene pubblico. E che no, l’idea di punire i componenti maschili di una famiglia per eventuali comportamenti “immorali” di una donna non avrebbe intensificato la violenza domestica.
Il portavoce mi fa inoltre capire che sì, quel che ho sentito dire da alcune fonti autorevoli può essere giusto. L’introduzione del nuovo editto è legata a dinamiche interne. I pragmatici offrono agli oltranzisti l’obbligo formale del velo integrale in cambio della riapertura delle scuole per le studentesse sopra i 12 anni, chiuse mesi prima. Oggi però l’editto sull’abbigliamento è ancora in vigore, le scuole sono ancora chiuse. E altri provvedimenti fortemente restrittivi delle libertà delle donne hanno fatto seguito. Per lo Special Rapporteur dell’Onu sui diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, si tratta di una politica deliberata, intenzionale, fulcro e cuore dell’ideologia dell’Emirato, che avrebbe creato una vera e propria “architettura dell’oppressione”.
Comprendere quanto sia pesante, dal punto di visto pratico e psicologico, la vita per una ragazza al tempo dell’Emirato è impossibile. Non bastano le statistiche sull’aumento dei problemi psicologici e psichiatrici. Non bastano i sondaggi e le inchieste delle organizzazioni internazionali e non governative. L’impatto dell’esclusione delle donne dall’istruzione, da molti luoghi di lavoro e dagli spazi pubblici è devastante. Avrà effetti per generazioni, sull’intera società. Qualche appiglio in più lo offrono i resoconti personali, in prima persona ma perlopiù anonimi per il timore di ritorsioni. Come questo raccolto dai ricercatori dell’Afghanistan Analysts Network e dedicato all’impresa di organizzare un semplice picnic in famiglia.
Se capire le profonde conseguenze delle politiche discriminatorie sulla vita di una ragazza di città è impossibile, capire la distanza tra città e campagne afghane è difficile, ma necessario. Le risposte alla domanda su “cosa sia cambiato con l’arrivo dei Talebani al potere?” variano da zona a zona, da contesto a contesto. “Durante i due decenni di governo sponsorizzato dagli Stati Uniti, il progresso non è riuscito a raggiungere le campagne. Molte delle donne che ho intervistato e che vivevano fuori dalle città hanno visto l’arrivo dei Talebani come un fatto positivo: nelle loro zone non c’erano mai state scuole femminili e avevano sempre dovuto indossare il burqa, anche quando l’Afghanistan ospitava più di 100.000 truppe americane. Almeno ora c’è la pace”. Così sintetizza la giornalista e ricercatrice Mélissa Cornet in un articolo recente sulla London Review of Books, confermando il punto di vista degli afghani e delle (poche) afghane raccolti nei miei viaggi nelle aree più rurali.
Altrettanto necessario, per collocare le vicende attuali nella giusta cornice, è sapere che l’idea della necessità di purificare la società non è esclusiva dei Talebani. Come ricordato in un articolo dell’Afghanistan Analysts Network, l’istituzione statale per promuovere la virtù e prevenire il vizio è stata istituita per la prima volta dal re Nader Khan nel 1929 e formalizzata nel 1930, proprio con il titolo di Amr bil-Maruf. Durante il regno di suo figlio, Zaher Shah, il direttorato, composto da 20 ulema, operava nell’ambito della Corte Suprema. La prima Repubblica islamica, istituita dopo la caduta del regime comunista nel 1992 e guidata da Burhanuddin Rabbani, aveva un Ministero del vizio e della virtù, così come il primo Emirato istituito a metà degli anni Novanta. Nel 2001, con il rovesciamento militare del primo Emirato dei Talebani, l’Amr bil-Maruf ha perso lo status ministeriale, ma “ha continuato a vivere come una direzione relativamente priva di potere sotto il ministero degli Affari religiosi”.
“Comprendere quanto sia pesante la vita per una ragazza al tempo dell’Emirato è impossibile. L’impatto dell’esclusione dall’istruzione, da molti luoghi di lavoro e dagli spazi pubblici è devastante”.
La discriminazione verso le donne viene anche da qui. Da una tendenza storicamente radicata a voler purificare la società attraverso il controllo delle donne e del loro corpo. Una tendenza fattasi più forte come reazione alla lunga parentesi del governo a trazione americana. Le scelte dell’Emirato, oggi, sono infatti dettate da un impasto di ideologia, interessi pragmatici e rivendicazione di sovranità. Dopo venti anni di guerriglia contro un governo considerato asservito agli interessi e ai valori degli stranieri, per la leadership talebana il ritorno al potere coincide con il dovere di rimettere il Paese in carreggiata, dopo la sbandata liberale e occidentale. Per gli ultraortodossi, e non solo per loro, le politiche di apartheid di genere sono dei correttivi. Servono a purificare la società, a sanarla, dopo che per venti anni è stato iniettato veleno culturale attraverso l’occupazione militare e il suo inevitabile corredo di valori e modelli sociali esportati. “Gli aspetti negativi degli ultimi 20 anni di occupazione legati all’hijab delle donne e alla cattiva guida finiranno presto”, ha dichiarato Haibatullah Akhundzada, la guida suprema dei Talebani, che governa da Kandahar, lontano dal potere formale dei ministeri di Kabul. Per l’emiro, che alterna posizioni autarchiche a messaggi più distensivi e conciliatori, grazie all’applicazione della sharia, la legge islamica, “la società sta migliorando di giorno in giorno e i malfattori stanno per scomparire”.
Come uscire da una situazione simile? Come confrontarsi con un governo il cui leader supremo, nominato con un processo collegiale ma interno ai Talebani, si nasconde al pubblico e prende decisioni inappellabili, lontano dallo scrutinio, istituzionalizzando la più radicale discriminazione di genere al mondo? Serve codificare l’apartheid di genere come crimine contro l’umanità, suggerisce Richard Bennett e con lui attiviste afghane della diaspora come Metra Mehran. Insieme ad altre attiviste e associazioni, Mehran porta avanti una campagna denominata “End Gender Apartheid”, con l’obiettivo di sottoporre all’Assemblea generale dell’Onu, attraverso le discussioni che si tengono al Sesto Comitato delle Nazioni Unite, una bozza di testo che introduca il reato di apartheid di genere, l’unico, sostengono le promotrici, che possa tener conto della natura istituzionalizzata degli abusi contro le donne afghane. L’idea di fondo è che, codificando il crimine e applicandolo all’Afghanistan, gli Stati membri siano costretti ad agire contro il regime dei Talebani, che verrebbe indebolito e isolato e, quindi, costretto al cambiamento.
La proposta riflette uno dei due modi prevalenti con cui la comunità internazionale si divide sul come trattare con i Talebani: sanzioni, condanne pubbliche, isolamento del regime da una parte, dialogo costante ma sottotraccia, pragmatico e ‘condizionato’ dall’altra. I sostenitori dell’approccio pragmatico notano che finora nulla è valso a modificare l’atteggiamento dei Talebani, né le armi prima, né le sanzioni poi. E che l’unico modo per produrre qualche cambiamento è mantenere il dialogo aperto, che non equivale al riconoscimento formale dell’Emirato. L’alternativa, sostengono i sostenitori dell’opzione ‘dialogo condizionato’, non farebbe che consegnare il Paese nelle mani dei Talebani più oltranzisti, compromettendo il monitoraggio dei diritti umani e danneggiando proprio le categorie che vorrebbe difendere chi nega ogni ipotesi negoziale.
I Talebani aspirano al riconoscimento formale dell’Emirato, ma approfittano della spaccatura e incassano la normalizzazione informale dei rapporti con molti attori dell’area. Di fronte allo stallo della diplomazia euro-atlantica, spostano sempre più il baricentro dei loro interessi e del loro attivismo verso gli attori regionali, la cui priorità è la stabilità, non i diritti umani. Dagli attori regionali non bisogna aspettarsi soluzioni nell’interesse della popolazione afghana. Ma neanche dall’occidente, che pure ha fatto dei diritti delle donne e perfino del femminismo la bandiera simbolica con cui avvolgere un fallimentare tentativo di esportazione della democrazia. Le cancellerie euro-atlantiche hanno ormai tirato i remi in barca e usano le politiche restrittive dell’Emirato come “foglia di fico” per giustificare la propria inerzia. Una vera soluzione, va detto, non esiste. Ci sono solo strade meno dannose di altre. Che passano per il riconoscimento di due dati di fatto, paradossali.
“Per gli ultraortodossi le politiche di apartheid di genere sono dei correttivi. Servono a purificare la società dopo che per vent’anni è stato iniettato veleno culturale”.
Il primo è che ogni eventuale apertura del regime talebano verso l’occidente e in particolare sulle questioni di genere potrà avvenire solo dopo che si sarà affermata definitivamente la leadership di Haibatullah Akhundzada. Soltanto quando il regime si sentirà forte, lontano dalle burrascose acque della transizione dalla guerriglia ai ministeri, e soltanto quando l’emiro sentirà di aver indirizzato pienamente la politica estera dell’Emirato, trattenendo le spinte di natura opposta, si potranno vedere cambiamenti significativi. Una prospettiva poco piacevole, ma realistica.
Il secondo dato di fatto è che, alla luce della ridotta capacità degli attori esterni di condizionare le politiche interne dell’Emirato e del sospetto con cui le autorità di fatto vedono ogni interferenza, l’unica pressione significativa non può che venire dall’interno del Paese. Ma affinché la società afghana possa esercitare gli strumenti della contestazione aperta va rafforzato l’intero sistema-Paese, innanzitutto tirando fuori dalla dipendenza dagli aiuti umanitari almeno 24 milioni di persone. La società potrà guadagnarsi spazi di contestazione, infatti, solo se non dovrà dipendere dall’esterno per soddisfare i bisogni essenziali. Il rischio è che, rafforzando la società, indirettamente si rafforzi anche il regime. Ma c’è forse un’alternativa migliore? C’è forse un’alternativa che non passi per una nuova, sanguinosa guerra civile, cosa che nessuno nel Paese vuole?
Giuliano Battiston
Giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste. Docente alla Scuola di giornalismo della Fondazione Basso di Roma, per dieci anni ha curato il Salone dell’editoria sociale, ora organizza il festival MIP, il Mondo in periferia. Con Giulio Marcon ha curato La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare (minimum fax, 2018).
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