L'atto morale è un atto creativo: "Campo di battaglia" di Gianni Amelio - Lucy
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Irene Graziosi

L’atto morale è un atto creativo: “Campo di battaglia” di Gianni Amelio

01 Settembre 2024

Nel film di Amelio in concorso a Venezia81, Alessandro Borghi interpreta Giulio, medico militare alle prese con dubbi morali che, fortunatamente, non trovano mai una risposta definitiva.

In Campo di battaglia di Gianni Amelio, in concorso a Venezia81, Giulio (Alessandro Borghi) e Stefano (Gabriel Montesi) hanno studiato medicina assieme e ora curano i feriti in battaglia in un ospedale del Friuli durante la Prima guerra mondiale. Stefano è il rampollo di una famiglia importante e non coltiva dubbi su ciò che la Patria gli chiede di fare: rimandare i soldati al fronte, biasimare gli impauriti e i disertori, glorificare gli audaci. Giulio, più taciturno, riflessivo, rigoroso, di dubbi ne coltiva parecchi. Ma è il solo, perché persino l’amica Anna (Federica Rossellini), che ha studiato all’università con gli altri due dovendo poi ripiegare sul ruolo di infermiera perché donna, sposa acriticamente la propaganda del Paese.

Questo è un film intelligente. Prima di tutto è un film di facce e corpi: non ci sono campi larghi, non ci sono luoghi, paesaggi, quando pure le montagne si sarebbero prestate a riprese da cartolina. Invece no, perché ad Amelio interessano gli uomini. La guerra è fatta di corpi, e quelli vanno inquadrati per far intuire allo spettatore l’orrore, che si gonfia di più quando non viene mostrato, ma solo evocato. 

La faccia che spicca su tutte le altre è quella di Alessandro Borghi, che è talmente bravo, talmente espressivo anche quando interpreta un personaggio introverso come Giulio, che si divora tutte le altre facce, generando uno squilibrio tra la sua interpretazione e quella di chi lo circonda, che appare sbiadita. Forse però era anche l’intenzione di Amelio, che si concentra sui lineamenti di Borghi con più attenzione di quanto non avvenga con gli altri: i piccoli occhiali tondi che rendono il suo sguardo distante, come se scrutasse il mondo dall’alto, intuendo ciò che agli altri è precluso; la luce che ne illumina fiocamente il profilo, le guance; la cicatrice sul labbro superiore, che porta a domandarsi, invano, quale ne sia stata la causa all’origine. Nel film infatti il passato non ha posto, al pari del futuro. La guerra vive nel presente, e come spettatori solo quello ci è dato conoscere. Non sappiamo la storia dei tre protagonisti, non ne vediamo neanche troppo i tormenti emotivi. Questo è un film morale, e la morale è un sentimento intellettuale che, una volta sbocciato, soverchia tutti gli altri. 

“Questo è un film intelligente. Prima di tutto è un film di facce e corpi: non ci sono campi larghi, non ci sono luoghi, paesaggi, quando pure le montagne si sarebbero prestate a riprese da cartolina”.

È un film di lingue, ed è con i dialetti che Amelio ha l’acume di mostrare l’Italia di ieri, e di oggi. I soldati in ospedale parlano tutte le lingue possibili, ma i soldati “si capiscono tra di loro anche quando vengono da lontano”. Il fronte unisce più di ogni altra cosa, crea un’unica lingua che parla di sopravvivenza, speranza e paura. Ma appena il fronte scompare, ecco che le differenze di ceto, classe e provenienza agitarsi: i siciliani, racconta un giovane soldato, non li fanno mai tornare a casa, perché la Sicilia è lontana e grande, e non li acciufferebbero più. 

L’intenzione solenne dei dialoghi, che qualche volta risulta un po’ forzata, in altri casi è assolutamente efficace: su tutti, il giovanissimo soldato interpretato da Giovanni Scotti che racconta del suo compagno condannato al carcere e ucciso da un crucco, che lo ha dunque liberato. La scenografia inizialmente disorienta un pochino, forse perché si proviene da film ad alto budget, maniacalmente curati in ogni dettaglio, come accade in Maria e Babygirl. Amelio invece non si cura troppo del contorno, che vuole pennellare con pochi segni, quasi fosse una quinta teatrale.

C’è infine il momento di maggior sensibilità del film che ne rivela la perspicacia e arriva quando da Giulio si presenta uno degli uomini che aveva salvato, un imbroglione che vorrebbe spingerlo a rendere profittevole il suo agire ampliandolo anche ad altri soldati, disposti a pagare qualunque cifra pur di tornare a casa. Ma salvare un uomo per istinto, per compassione, come tutti gli atti etici di questo tipo (e come racconta Simone Weil scrivendo di Alessandro Magno che getta l’elmo colmo d’acqua portatogli dai soldati nel deserto per asserire la sua uguaglianza e infondere coraggio ai suoi commilitoni) sono atti singoli, creativi, impulsivi, liberi, quasi artistici. È in questa circostanza che ciò che Giulio ha sempre considerato giusto, più giusto della giustizia della Patria, più giusto di ciò che credono gli amici Stefano e Anna, si incrina. Ci si chiede dunque se la giustizia non duri solo nell’attimo in cui viene attuata, e non possa che sfuggire a una sua sistematizzazione. Impossibile stabilirla una volta per tutte. Del resto nessuno può essere certo della giustezza delle proprie azioni, pure quando la tentazione di trovare la bontà una volta per tutte si fa irresistibile. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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