Le recensioni letterarie in Italia stanno diventando inutili - Lucy
articolo

Loredana Lipperini

Le recensioni letterarie in Italia stanno diventando inutili

I romanzi pubblicati sono troppi, le copie vendute troppo poche e le recensioni sempre favorevoli non aiutano nessuno: né gli scrittori a crescere, né i lettori a scegliere, né i libri a vendere.

Era una primavera di vent’anni fa: Aldo Nove, poeta e scrittore, stroncò su «Liberazione» il romanzo di un esordiente di cui sui quotidiani si parlava benissimo. L’esordiente era Alessandro Piperno, il romanzo Con le peggiori intenzioni. Nove lo definì “un incrocio tra un servizio del Tg1 su Ranieri di Monaco e l’epopea imborghesita di un’Elisa di Rivombrosa”. Fu rissa, anche se nessuno o quasi lo ricorda, con i quotidiani che inseguivano al telefono gli scrittori “cannibali” e dunque presumibilmente sodali di Nove per chiedere pareri su Piperno. In alcuni casi, rari, fu anche discussione: Edoardo Sanguineti ricordò che la critica ha senso anche e forse soprattutto quando si stronca il best seller del momento. «Il Foglio», con eleganza, propose per Aldo Nove la legge Bacchelli (il vitalizio, per paradosso, gli venne assegnato nel 2022 dopo una grave malattia: all’epoca, invece, fu puro scherno).

Un putiferio simile si sarebbe ripetuto molti anni dopo quando Michela Marzano stroncò Bruciare tutto di Walter Siti. I due episodi si somigliano solo su un punto: all’epoca dell’esordio di Piperno, nel 2005, si affermava forse per la prima volta dopo molto tempo un’onda  mediatica che, al di là del valore del libro, desiderava creare un caso letterario, in positivo ma anche in opposizione, per contenuti e forma, alla generazione dell’antologia Gioventù cannibale. All’epoca del romanzo di Siti, nel 2017, se ne voleva creare un altro di segno opposto, e forse per questo la recensione venne affidata a una filosofa e scrittrice molto lontana dalle tematiche di Bruciare tutto (e assolutamente sincera nell’esprimere le sue opinioni, ma comunque colpita a sua volta dallo stigma “non si può più dire/scrivere niente”).

Molta acqua era passata sotto i ponti, nel frattempo: il caso Nove arrivò nel pieno dell’affermazione dei blog letterari, dove la discussione culturale si era spostata, spesso costringendo le pagine culturali a inseguirla in rete. Nel 2017 i blog erano quasi spariti e trionfavano, come oggi, i social, dove era molto facile trasformare la riflessione in tifoseria (e chi scrive ricorda molto bene, nel caso Siti/Marzano, certe dichiarazioni sulle donne che non dovrebbero scrivere recensioni, postate peraltro da scrittori).

Era già cambiato moltissimo, per quanto riguardava le stroncature. È vero, ancora nel 2008 Alfonso Berardinelli, che del genere è convinto sostenitore, curava Dieci libri dell’anno, dove diversi critici stroncavano lo stesso Nove, ma anche Mal di pietre di Milena Agus, Mille anni che sto qui di Mariolina Venezia, o Prima esecuzione di Domenico Starnone. Ma era forse uno degli ultimi casi organizzati, per così dire. Una decina di anni dopo, proprio Berardinelli scrive sul «Foglio»: “Si vorrebbe che il lodatore dei tempi eroici avesse qualche volta rischiato qualcosa stroncando qualcuno. No, chi loda le stroncature loda e cita quelle di vent’anni prima, di un secolo prima o di due millenni fa. Con la massima prudenza, stando bene attento a non offendere nessuno che gli possa nuocere, il nostalgico delle stroncature dice che era bello stroncare, ma purché si parli di stroncatori e stroncati che siano tutti assolutamente defunti”.

Dunque non si fanno più stroncature? Sì, se ne fanno: ma quasi sempre su alcune riviste online, o su pochi quotidiani e da parte di pochi critici. Seconda domanda: ha senso stroncare? Per meglio dire: ha senso stroncare in un panorama dove i romanzi si fanno fuori da soli perché non riescono a sopravvivere più di una settimana in libreria o nella memoria dei lettori stessi? La risposta potrebbe essere questa: ha senso una stroncatura articolata, non malevola verso la persona (succede, succede: specie, se si può dire, nei confronti delle scrittrici, perché è piuttosto raro che si adoperi verso gli scrittori il corrispettivo di “scrittura vaginale”, come è recentemente accaduto). Ha senso una restituzione leale di quello che funziona e quello che non funziona, nel reciproco rispetto: può sembrare melenso, certamente, e può dare la stura alle solite considerazioni su quanto erano belle le stroncature di una volta, signora mia. Ma questo servirebbe, perché ancora una volta i tempi sono cambiati.

“Dunque non si fanno più stroncature? Sì, se ne fanno: ma quasi sempre su alcune riviste online, o su pochi quotidiani e da parte di pochi critici”.

Intanto, l’artigliata del critico non è più un’unicità. Sui social ci si artiglia ogni minuto e su ogni argomento, dal Papa alla dozzina dello Strega, e sono lontani gli anni in cui il recensore affondava la lama suscitando ammirazione per l’arguzia e il coraggio (e, certo, non pochi risentimenti duri a morire). Abbiamo fatto il callo, siamo stroncati su tutto in ogni momento della nostra vita online, che vuoi che sia una recensione negativa? Acqua fresca, rispetto agli odiatori quotidiani.

Ma il discorso vale anche all’inverso, ovvero per le recensioni positive. Chi scrive romanzi le desidera, ma certo: solo che, questa è la sensazione, desidera non una lettura critica del testo dove, pur dandone un giudizio positivo, chi recensisce ne evidenzi i punti deboli, che esistono in ogni libro. Semmai, oggi si desidera l’equivalente di una storia su Instagram con molti cuori, si pretende un osanna, una resa, un grido di esultanza, un like all’ennesima potenza. E questo non è utile. Non è utile per vendere, intanto: un po’ perché non si vende comunque, un po’ perché, assediati come siamo dalle informazioni, non ci rendiamo conto che anche il giubilo critico si perde come lacrime nella pioggia, e probabilmente funziona poco come veicolo per la vendita di un libro. Può essere una carezza per la propria comprensibile vanità (chi non gioisce quando si parla con ammirazione di quanto ha scritto?), ma è pericoloso: soprattutto per la scrittura.

La sensazione è che nella dicotomia generata dai social e tremendamente amplificata dai cigni neri di questi cinque anni non ci sia spazio per interloquire: o si distrugge o si incensa, senza renderci conto che nessuna delle due cose è utile. Perché non è quasi mai chi legge il destinatario: ma chi scrive, perché lettori e lettrici si informano altrove, o cercano punti di riferimento che ormai sono in minima parte quelli della critica. Purtroppo, perché di ragionamenti critici abbiamo invece bisogno, e sempre. 

Ammetto di desiderare avidamente un nuovo, lunghissimo post Facebook dove il poeta, e critico, Mario De Santis scandaglia i libri nelle parti deboli e in quelle forti, ed è raro che finisca di leggere senza desiderare di poter parlare di quel romanzo, debolezze incluse. Dovrebbe funzionare così, in effetti.

Infine, c’è un terzo problema. Come si fa quando si apprezza sinceramente il libro di una persona che ci è vicina? Si tace per timore di finire nel calderone di coloro che si recensiscono a vicenda? Che esistono, non si nega: ma non sempre è così, e ridurre tutta l’informazione (non solo la critica) a questo rischia di non fare bene a nessuno e di rafforzare quel fantasma della casta chiusa di cui son pieni i post e i tweet.

Il problema è peraltro antico. Nel dicembre 2005, in quella che era la newsletter dei Wu Ming (Nandropausa) viene affrontato apertamente. Wu Ming 1 vuole scrivere de L’anno luce di Giuseppe Genna. Lo fa, proprio perché è consapevole delle critiche che gli arriveranno:

“Genna è dispartecipe. Non vuole essere recensito da me o da Wu Ming. Teme l’accusa di ‘congrega’. Teme che si parli di ‘pastette’ e reciproci favori. Lui ha recensito i nostri libri in modo ‘capolavoristico’. Se ti piace un libro italiano e lo dici, sei un ‘capolavorista’. Se parlo de L’anno luce può dunque sembrare cortesia ricambiata. “Capolavoristica”. Diranno che è cortesia ricambiata. Diranno che è capolavorismo. Genna prova fastidio preventivo, non vuole essere nominato. Non lo abbiamo mai recensito, pregasi continuare a non recensirlo. Lo chiede con sincerità.

Capolavorismo è l’accusa di chi ripete che in Italia non c’è niente, non si scrive niente, nessuno scrive, questa è la linea!, obbediscano gli schiavi, non c’è niente! Nessuno osi dire che in Italia si scrivono romanzi potenti, è IM-POS-SI-BI-LE!, all’estero si sbagliano tutti, NON sta succedendo! Nessuno osi alzarsi in piedi o verrà impallinato. La lamentela è obbligatoria e imposta dall’alto. Tutto è finito, nulla cominci più, si canti solo la chanson égocentrique del fascismo nientista:
Non c’è niente / Non c’è niente / Non c’è niente / Non pensare a elefanti rosa / NO! / Ho detto di non pensare a elefanti rosa! / Non c’è niente…

La letteratura italiana è Piazza dei Miracoli. La Torre è la coppia Pasolini-Calvino, e pende sulla “fine del romanzo”. I giapponesi sono i nientisti. Sfruttano un gioco di prospettive, simulano un impegno, uno sforzo, fingono di sorreggere il ricordo di una grande stagione. Non sanno perché fu grande, non sanno quando e perché è finita, se è finita, non sanno di cosa fece parte, perché rifiutano di capire quel che è seguito e segue. Arrivano, si mettono in fila, dicono la cazzata, non li vedi in nessun’altra via o piazza della letteratura, la sera sono già via”.

Ecco, vorrei sommessamente dire che il problema, anni e anni dopo, è ancora questo: i bei libri esistono eccome. E a prescindere dall’autocensura o dalla stroncatura o dalla recensione compiacente ma insincera il problema è riuscirli a “vedere” in un’onda di titoli almeno quadruplicata, credo, rispetto al 2005. La questione è sempre qui, e pazienza se si continua a indicare il famigerato dito.

Loredana Lipperini

Loredana Lipperini è scrittrice, saggista, blogger, attivista culturale e docente. Il suo ultimo libro è Il Segno del Comando (Rai libri, 2024).

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