Michele Rossi
08 Dicembre 2023
La mostra a Reggio Emilia, la ripubblicazione dei loro EP storici, la festa al Teatro Valli: per i loro 40 anni di carriera, i CCCP hanno fatto le cose in grande. Eppure, solo qualche tempo fa, sarebbe parso impossibile di riunire tutti i membri della band. Come è successo? Ecco la storia dietro la storia.
“Bravo Michele”, mi dice Giovanni domenica notte nei camerini del Teatro Romolo Valli, esausto ma con il sorriso che gli taglia la faccia. È appena terminata la seconda replica del Gran Gala Punkettone di parole e immagini, in verità una manciata di videoclip del tempo che è stato dei CCCP Fedeli alla Linea, un po’ di racconti sulla provincia emiliana del consumismo dilagante e comunismo calante degli anni Ottanta, tanta “musica da ballo per giovani proletari”.
Lo abbraccio forte e gli dico: “Ciao Giovanni, vado via”. Venuto per la sera del sabato portando con me poche cose, avendo assistito a un evento “epico”, mi sono trattenuto due giorni a Reggio Emilia per poter replicare alla “terapia aperta nazionalpopolare”. Perché a solcare il palco non è una ex band musicale, ma un “gruppo di psicoterapia aperto” come quello degli anni Ottanta. Solo che, a differenza del teatro primitivo e per certi versi barbarico di allora, quando mettevano in gioco il loro equilibrio e quello degli spettatori, nei tempi attuali – completamente cambiati e decisamente da cambiare – con un senso diffuso di malessere e smarrimento, devastazioni interne (e esterne) più forti di allora, si limitano a rimescolare la loro emotività e le loro voglie, presentandole per quelle che sono.
“La musica dei CCCP è la storia dei nostri sentimenti; è tra l’altro la nostra dichiarazione d’amore”, confessavano quattro decenni fa, ma è ancora così. Penso di non sbagliarmi. Chi ha avuto la fortuna di assistere a una delle due serate potrà dire: “Non è successo nulla, ma tutto è cambiato”. D’altronde il programma del Gran Gala a una lettura attenta faceva presagire qualcosa di diverso.
Sono passati trentaquattro anni dall’ultima esibizione dei CCCP e trentatré dall’ultima reunion, a Villa Pirondini, quando si ritrovarono assieme per l’ultimo lavoro discografico. In verità, quando realizzarono Epica Etica Etnica Pathos, i CCCP, dopo il tour fatto l’anno precedente in Unione Sovietica, erano già una realtà virtuale.
“Se quel mondo si stava sgretolando era inutile far finta che non fosse così, che andasse tutto bene, bisognava sgretolarsi insieme a quel mondo: era l’unica chance a disposizione”, disse Giovanni Lindo Ferretti a Alberto Campo in un libro-confessione del 1997. “Vivevamo in un mondo frantumato, senza che vi fosse la possibilità di mantenersi integri: nulla era più integro, né la nostra terra né l’ideologia. Non eravamo altro che lo specchio di quella frantumazione e non potevamo che essere frantumati a nostra volta”.
Quel viaggio a Mosca e all’allora Leningrado era stato l’inizio della loro fine. In quei giorni di primavera del 1990, i due perfomer del gruppo, la mannequin Annarella Giudici (la Benemerita Soubrette) e lo spogliarellista Danilo Fatur (l’Artista del popolo) espressione visionaria del vitalismo avanguardistico dei CCCP, si aggiravano per la casa colonica di Scandiano nervosi, senza sapere cosa dovevano fare.
Di fatto erano stati esclusi dal nuovo progetto discografico dall’arrivo nella formazione, ampliata a otto elementi, dei transfughi dei Litfiba Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali e Ringo de Palma, anche se poi presero parte alle registrazioni di alcuni brani: la Benemerita Soubrette a Campestre II, l’Artista del popolo a Narko’$, Baby Blue e L’andazzo generale.
Il volantino promozionale del Gran Gala, con stampato sul verso la fotografia dei Fantastici 4 davanti a un lacerto del Berliner Mauer di Treptow-Köpenick, scattata però non in Germania ma a Reggio, ai chiostri di San Pietro, per la mostra Felicitazioni! dei CCCP, riporta sul recto una riflessione sul tempo presente scritta di pugno da Lindo Ferretti: “Sorpresa: la storia non è finita, il mondo lo stesso coacervo di tensioni, nuovi protagonisti per messinscena obsolete. Rimodellato l’Impero del male, risvegliate entità primitive sotto un cielo punteggiato da visori/sensori a circoscrivere zone d’influenza, d’interesse, d’intervento. In basso migrazioni, dislocazioni, catastrofi, guerre in diretta sul telefonino. Il porno ultima frontiera dell’emancipazione. Oltre il rumore dell’intrattenimento un silenzio assordante, barlumi di infinito”.
Il silenzio, però, è quello che c’è stato tra di loro, anche se sono stati sempre presenti nell’assenza; ventiquattro anni è durato quello che si è protratto tra Giovanni e Zamboni. Si sono rivisti pochissime volte dal mese di novembre del 1999, da quando, cioè, si consumò a Berlino la loro separazione – conclusa pure l’esperienza artistica con il Consorzio Suonatori Indipendenti, meglio nota come CSI.
A notte fonda in autostrada sull’Appennino, passato da poco Roncobilaccio, ci ho ripensato con un’alzata di sopracciglia e mi sono chiesto: “Bravo…?! Ma bravo per cosa?”. Come dopo un’affannosa corsa, il petto mi ha fatto: TU TUM, TU TUM, TU TUM. Il cuore ha trovato una sua risposta, ma forse è stata solo la mia immaginazione.
Non era in Valium Tavor Serenase, inclusa nel long playing 1964-1985 Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi – del conseguimento della maggiore età, il loro primo LP datato 1986, che i CCCP cantavano: “Dov’è la vostra pena, qual è il vostro problema?/ Perché vi batte il cuore? Per chi vi batte il cuore?”.
Qual è il motivo del battito accelerato del mio muscolo cardiaco? In fondo sono solo canzoni, qualcuno mi dirà. Ma si sbaglia, le canzoni sono un surrogato della realtà; vengono in soccorso alle nostre debolezze e all’incapacità di afferrare il tutto, sono capaci di risvegliare in noi che le ascoltiamo energie sopite, di generare conseguenze imprevedibili.
I testi dei CCCP si sollevano oltre la realtà specifica per proporne un’altra: prospettano altri colpi d’occhio sul mondo e diversi modi di vita, altre possibilità del pensiero, modalità di utilizzare il linguaggio. Di fronte “al consumo e all’usura di tutti i linguaggi dell’epoca – politici, artistici, religiosi, filosofici, religiosi – i CCCP dimostrarono di avere trovato un loro linguaggio per comunicare l’usura stessa.
“Qual è il motivo del battito accelerato del mio muscolo cardiaco? In fondo sono solo canzoni, qualcuno mi dirà. Ma si sbaglia, le canzoni sono un surrogato della realtà”.
Non per superarla, e neppure per combatterla, ma solo per rimarcarla. Meglio: dichiararla”, ha spiegato Marco Belpoliti, autore a metà degli anni Ottanta su «il Manifesto» e «Reporter» delle prime recensioni al gruppo punk d’ avanguardia e kitsch, che riuscì a fiutare “l’aria di un’epoca, senza doverla interpretare fino in fondo, anzi vivendola prima del tempo”. Ribelli piuttosto che servili, i CCCP offrivano una insicurezza salutare. Bene, ma io che c’entro?
1. Cinema Astra di Parma, 24 ottobre 2022
Sono il biografo di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, e un po’ ci gioco nel dirlo. Nove anni fa ho dato alle stampe un libro-racconto della loro avventura umana prima che artistica, da me seguita a una certa distanza a partire dal 1994, poi da più vicino, infine a lato. In quelle pagine raccontavo, oltre che la storia dei CCCP e dei CSI, dei successivi progetti artistici di Ferretti e Zamboni e delle loro recenti vicissitudini, che ambedue ignoravano a vicenda. Sia Giovanni sia Massimo non erano a conoscenza dei dischi e dei libri pubblicati dall’altro dopo la loro separazione. Le mie pagine si concludono così:
“La storia di Ferretti e Zamboni – iniziata insieme e poi proseguita su binari separati – non può certo dirsi finita: ogni esistenza è una storia aperta e non è dato di sapere quanto ci riserva il domani. Il fervore artistico dei due musicisti non si è spento e, chissà, forse dietro l’angolo c’è una nuova trascinante esperienza ad attenderli. Ai tempi dei CSI, dopo il viaggio in Mongolia, Zamboni sosteneva che sarebbe stato necessario per il gruppo andare in pellegrinaggio a Santiago di Compostela per trovare la giusta ispirazione. Non se ne fece nulla. Ma Ferretti, in recenti presentazioni dei suoi libri, ha dichiarato che sta pensando proprio a un pellegrinaggio a cavallo al celebre santuario galiziano. Ci piace immaginare un incontro fortuito tra i due, più miracoloso che inaspettato: “Massimo?”, “Giovanni!”… E chissà… Ma questa è un’altra storia”.
E un’altra storia in effetti c’è stata la mia doppia biografia è uscita nelle librerie a 2014. Due giorni prima, in una fredda e soleggiata mattinata invernale, avevo preso l’auto e raggiunto a casa Massimo, a Carpineti, e a pranzo Giovanni, a Cerreto Alpi, per mangiare assieme a lui e a suo zio Francesco. Non stavo nella pelle. Avevo con me in borsa tre copie del libro.
L’emozione mi ha tradito a tal punto che ho lasciato a Giovanni la copia senza dedica e riportato indietro quella con il mio pensiero d’affetto scritto a penna, che non gli ho più dato. Uscendo dal portone della luminosa e isolata casa di sasso di Massimo, al limine del bosco, al momento dei saluti mi ha richiamato dicendomi: “Aspetta un attimo…” Ha preso una cartolina e ci ha scritto sopra a penna qualcosa. “La dai a Giovanni questa?”. Il messaggero confessa di aver recapitato diligentemente al destinatario la missiva, senza curiosare cosa c’era scritto. O forse qualcosa ha adocchiato, non ricorda bene…
La mattina del 13 agosto 2014 ricevo una telefonata da parte di un amico: “Hai letto le dichiarazioni che ha rilasciato Zamboni su «La Stampa» di oggi?» Mi precipito in edicola. Dopo 15 anni Ferretti e Zamboni ritornano a fare progetti. Il chitarrista: «Che voglia di tornare a suonare insieme». Massimo ha rotto il silenzio e si è deciso a ripercorrere con Franco Giubilei il suo attuale rapporto con Giovanni: “Negli ultimi due mesi, dopo quindici anni di sofferenza, ho finalmente recuperato un legame con Ferretti, il che mi serve a vivere meglio. Nelle ultime settimane ci telefoniamo e ogni tanto viene a trovarmi. […] Il libro di Michele Rossi [Quello che deve accadere accade, biografia di Zamboni/Ferretti uscita per Giunti, NdSA] ci ha messi davanti alle nostre rispettive responsabilità”. Si spinge oltre, aggiungendo: «In realtà non abbiamo ancora parlato di fare musica insieme, è ancora prematuro, ma a proposito del nostro riavvicinamento ho l’idea di una cosa giusta: ci sono attrazioni naturali che non possono essere separate. […] Potrebbe pure essere un disco, anche se non so se abbia ancora un senso oggi… Ma ho scritto delle canzoni e le sto facendo circolare fra gli altri. O forse ci rimetteremo in cerchio con strumenti e amplificatori a buttare giù delle idee per farne dei brani”.
“I testi dei CCCP si sollevano oltre la realtà specifica per proporne un’altra: prospettano altri colpi d’occhio sul mondo e diversi modi di vita, altre possibilità del pensiero, modalità di utilizzare il linguaggio”.
C’è poi stato L’eco di uno sparo, uscito nelle librerie nel 2015. Il “cantico delle creature emiliane” di Massimo, che ho avuto la fortuna di leggere nella prima stesura in capitoli separati, poi diventati dattiloscritto, infine una pubblicazione per la collana “Supercoralli” dell’Einaudi.
Raggiungevo in quel periodo spesso Giovanni alle stalle. Un pomeriggio, mentre lui stava pulendo con la pala i box, appoggiando il mento ai pugni e i gomiti al muretto di recinzione ho iniziato a raccontargli, pieno di entusiasmo, del libro di Zamboni. Giovanni dapprima mi ha ascoltato in silenzio, poi ha iniziato a farmi domande. Sono venuto poi a sapere che una copia con dedica de L’eco di uno sparo, Massimo l’aveva portata a Cerreto. È stato quel libro, forse più del bigliettino, ad accendere qualcosa. È nata così l’occasione per i due di farsi rivedere di nuovo assieme, l’uno accanto all’altro, almeno per parlare di letteratura e della loro terra natale, su un piccolo palco.
L’appuntamento per tutti era fissato nella Sala degli Specchi del Teatro Romolo Valli, il municipale di Reggio Emilia, per il 7 novembre 2015. Il mio incontro con Giovanni e Massimo era stato di qualche settimana prima. Un pomeriggio alla Corte Transumante di Nasseta – la libera compagnia di uomini, cavalli e montagne fondata dal Signore delle parole, Giovanni, dal Signore dei cavalli, Marcello Ugoletti, e dalla Signora della Corte, Cinzia Pellegri–, mentre Giovanni stava mettendo a posto il fieno e io mi stavo aggirando con passo leggero per gli spazi vuoti delle scuderie, mi ha seguito con la coda dell’occhio e mi ha detto: “Il libro di Massimo è bellissimo…”.
Qualche settimana dopo, mi ha telefonato Massimo dicendomi che Giovanni aveva accettato di presentargli il libro. Somma felicità anche da parte mia: i due artisti si sarebbero ritrovati davanti al pubblico dopo sedici anni. C’è di più. Massimo ha aggiunto che gli avrebbe fatto piacere che ci fossi io a presentarli. Ricordo, al mio arrivo, tanta gente fuori dal teatro ad attendere l’evento e molti che non riuscivano ad entrare, essendo terminati i biglietti in pochi giorni. Avevo preparato un discorso di meno di quindici minuti su un quadernetto che avrei letto prima che entrassero.
Giovanni e Massimo, emozionatissimi sul retro del saloncino, si muovevano nervosamente, parlando poco tra loro. Venuto il mio turno, mi hanno chiamato e trepidante, con affezione, ho letto i miei pensieri e tutto si è ricomposto. “Cittadini e cittadine, ecco i miei gioielli!” e, accompagnati da un fragoroso applauso, sono entrati sorridenti. Passate poche settimane, si sono ritrovati di nuovo assieme per presentare alla biblioteca Panizzi di Reggio il libro Fellegara: dove sono nati i CCCP Fedeli alla Linea, curato da Toni Contiero.
Ma torniamo indietro. Un anno prima, tutti e quattro gli ex CCCP si erano rifatti vedere in pubblico, dopo tantissimo tempo, per inaugurare la mostra fotografica Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea – Senz’altro l’abito…, tenutasi nel mese di maggio fino a metà giugno presso lo spazio Gerra di Reggio Emilia. I quotidiani avevano titolato: «per l’occasione ci saranno i CCCP tutti insieme come non succedeva da 30 anni…», e in tanti erano accorsi da ogni parte di Italia per assistere a questa inaspettata reunion, tutta merito dell’emerita Soubrette. Sul palco c’erano pure Danilo Fatur e Benedetto Valdesalici, lo psichiatra reggiano, ignoto forse a molti, che è in realtà stato determinante per la nascita dei CCCP. A presentarli al pubblico c’era l’amico storico di Giovanni, dai tempi del liceo scientifico Spallanzani, Marco Belpoliti.
“L’emozione mi ha tradito a tal punto che ho lasciato a Giovanni la copia senza dedica e riportato indietro quella con il mio pensiero d’affetto scritto a penna, che non gli ho più dato”.
Ho stampata bene in mente quella domenica pomeriggio del 4 maggio 2014. Non tanto per la tensione che si tagliava a fette e le parole dette, non particolarmente interessanti, in effetti. La rammento perché sono arrivato all’incontro con Giovanni dopo essere stato con lui, la Signora della Corte e un’altra persona a un’osteria di Rivalta, alle porte della città, dove ho bevuto un ottimo lambrusco, e per un altro motivo che adesso vi racconto.
Giovanni ha letto l’incipit di Reduce e narrato qualche aneddoto sui primi passi mossi dai CCCP. Massimo, teso e di pochissime parole, ha raccontato che Annarella l’aveva chiamato qualche settimana prima per salutarlo e, qualche giorno dopo, lo aveva invitato a prendere un tè a casa sua. In quell’occasione gli aveva chiesto a bruciapelo se gli avrebbe fatto piacere andare all’inaugurazione della sua mostra, che c’era anche Giovanni. E di nascosto aveva fatto lo stesso con gli altri due. Terminati i racconti, i quattro sono stati investiti dai fan per farsi autografare il libro-catalogo. Massimo è riuscito a sgattaiolare un attimo, mi ha preso da una parte e in un orecchio mi ha sussurrato: “Ho da dirti una cosa”. Gli era stato accolto L’eco di uno sparo, il libro a cui stava lavorando da tantissimi anni. “Allora?! Dimmi… da quale casa editrice?”. “Indovina? Einaudi…”, mi ha detto sorridendo.
L’ho lasciato quindi con gli altri punkettoni e mi sono fatto trasportare dall’onda dei fan dentro l’esposizione fotografica. La visita guidata di Annarella e Valdesalici era tradotta da una interprete russa – avrà tradotto davvero le loro spiegazioni? –. Finita la festa, rimasti solo noi allo Spazio Gerra, mi sono fatto scattare da Cinzia con il mio vecchio telefonino una foto-ricordo assieme a Giovanni e Massimo. Non lo faccio mai, ma questa era un’occasione davvero speciale. La conservo gelosamente, anche se è venuta mossa e io ho una brutta espressione. Mi sento però protetto tra loro due, e si vede.
I tempi erano prematuri per un riavvicinamento tra Massimo e Giovanni e, difatti, la loro frequentazione si è interrotta subito per disguidi su un concerto che non è mai stato realizzato. Ciascuno ha ripreso la propria strada. Erano gli anni del teatro equestre di Giovanni, un progetto romantico e coraggioso, destinato però al fallimento. Nervosismo, fatica e inquietudine quotidiana per lui e i suoi compagni di avventura. A Cuor contento ha continuato a cantare per i club e i teatri della penisola. Massimo ha inciso nuovi dischi e musiche per film, proseguito i suoi concerti, ma soprattutto coltivato la scrittura. Per un momento ha pensato di attaccare la chitarra al chiodo.
“I tempi erano prematuri per un riavvicinamento tra Massimo e Giovanni e, difatti, la loro frequentazione si è interrotta subito per disguidi su un concerto che non è mai stato realizzato”.
Da allora i miei scambi, intrecciati di telefonate e messaggini, si sono intensificati. Ho iniziato a salire, tornante dopo tornante, sempre di più sull’Alpe: a sentire l’incanto del fiero silenzio delle montagne e a vedere con occhi rinnovati boschi e mulattiere, borghi e crinali. Alla fine, mosso da una indicibile gioia, ci ho pure comprato una casa, o meglio un ovile, a Cerreto Alpi.
Un giorno di primavera del 2022 ho invitato Massimo a vederla. Non avevo detto nulla a Giovanni perché ero arrivato in ritardo a pranzo a casa sua e c’erano altri ospiti. Ho iniziato a mangiare in tutta tranquillità al gradevole desco, avendo dato appuntamento a Massimo e Daniela per metà pomeriggio. Non potevo sapere che avevano avuto un imprevisto e non avrebbero potuto raggiungermi all’ora stabilita, ma solo prima. Avevano provato ad avvisarmi ma, essendo irraggiungibile al telefono, erano saliti da soli in macchina a Cerreto. A un tratto, mentre stavamo parlando al tavolo, li ho visti dalla finestra davanti al Pont. “Ci sono Massimo e Daniela! Sono venuti a vedere la mia casa”. Giovanni mi ha guardato.
C’è chi sostiene che merito del loro riavvicinamento è stata la presentazione della nuova edizione del Libretto rozzo al Complesso monumentale del Pio Sodalizio dei Piceni di Roma (sorprendente,vero, la serata Felicitazioni del 5 luglio 2022 , condotta, con una “liturgia della parola” affettata, dal cerimoniere Davide Brullo) e chi, prendendo per buone le dichiarazioni rilasciate da Giovanni ad alcune testate, ha sostenuto che è stato tutto merito del documentario Kissing Gorbaciov, diretto da Andrea Paco Mariani e Luigi d’Alife, allorché il 27 settembre 2022 gli ex CCCP si sono ritrovati nell’aia della casa di Giovanni per farsi scattare alcune fotografie e rilasciare un’intervista per il docufilm. Ma c’è un altro antefatto.
Risale – curiosa coincidenza – a un anno esatto prima del Gala di Reggio, a un evento tenutosi il 24 ottobre 2022 a Parma, al Festival Il rumore del lutto. L’edizione intitolata Curami, come la canzone dei CCCP, includeva nel programma l’incontro annunciato urbi et orbi come Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni: Siamo arrivati tardi o forse troppo presto… in dialogo con Michele Rossi. Quella sera ha ancora dell’incredibile. C’era un silenzio assoluto all’interno della sala cinematografica piena all’inverosimile, rotto, a tratt,i da alcuni commenti fatti ad alta voce da un giornalista e scrittore, grande esperto di Giorgio Gaber e noto opinionista televisivo.
Visibilmente emozionato con tutti quegli occhi puntati addosso, ho cercato di sollecitare con le mie domande aneddoti e curiosità, e Giovanni e Massimo hanno attraversato le loro prossimità e distanze, e ripercorso le stagioni della loro lunga avventura artistica.“Mi sono trasferito a Bologna nel 1972 per uscire di casa e iniziare la mia vita pubblica. Non sapevo quasi niente della città. L’avevo frequentata qualche volta facendo il liceo. Però sapevo che gli alternativi si trovavano davanti alla Feltrinelli, e quindi sono andato lì con il mio zainetto e il mio sacco a pelo, sperando che la vita mi portasse un po’ di fortuna. Ero un ragazzino… dopo un po’ mi è passata davanti un ‘figone esagerato’, detto brutalmente, cioè una donna bellissima. Mi sovrastava. Mi ha guardato con aria di simpatia e ha detto: “Cosa ci fai qua tu?”. E io: “Sono venuto a Bologna e sto cercando casa…”. “Questo è un postaccio, ti fanno fuori tutti questi qua. Fidati di me. Dove dormi stanotte?”. “Non lo so, stavo appunto cercando qualche compagno che mi ospitasse…”. “Ti ospito io”. In qualche modo questa presenza angelica si è presa cura di me, avendo visto la mia ingenuità”, ha raccontato Giovanni ricostruendo la sua esperienza in una piccola comune al civico 12 di via Santo Stefano e il suo ingresso in Lotta continua.
È toccato poi a Massimo raccontare i suoi anni Settanta: “Nel 1977, uscito da poco dalla Figc, ho iniziato ad andare a Bologna per studiare all’università, ma in realtà non frequentavo le lezioni, ma la città. Quello che speravo di trovare non era ciò che vedevo: c’era così tanta tensione, così tanta violenza. Ero spaesato. Io speravo in qualche tipo di liberazione non meglio specificata dal movimento studentesco, quando invece intorno a me vedevo solo nuove oppressioni e in quella città ho iniziato a maturare la voglia di cambiare aria e di andare lontano”. Ha aggiunto: “Pian piano è arrivata qualche sollecitazione, che ha spinto me come tanti altri, verso Berlino”. E nella città tedesca, nella maniera più improbabile, ha conosciuto Giovanni: “è cominciata così questa nostra cura reciproca. Eravamo due ragazzotti di Reggio Emilia che speravano di trovare un po’ di luce…” Giovanni ha commentato, mulinando le braccia avanti e indietro verso Massimo, come a volerlo includere nel suo discorso e nei suoi pensieri: “I CCCP sono nati da questo incontro, da questo strano essere simbiotico”.
Ma vi ricordate il momento preciso in cui avete deciso di mettervi a suonare assieme? “Siamo tornati da Berlino con la voglia di fare qualcosa, non meglio specificato – ha risposto Massimo –. Diciamo che la musica era la disciplina più attrattiva, anche la più facile in qualche modo. Sapevo suonare solo un po’ la chitarra ma era quello che si doveva fare: se volevamo fare quel qualcosa, quello era il momento in cui si doveva decidere. Abbiamo iniziato con Valium Tavor Serenase e Stati di agitazione, canzoni che sono uscite in una, due sere, senza starci a pensare sopra”. Giovanni, dopo aver ascoltato sorridendo sotto i folti baffoni, ha ricordato la loro amicizia profonda: “Parlavamo di tutto, non smettevamo mai di chiacchierare. Avevamo pensato che avremmo potuto fare del cinema, fare i fotografi in giro per il mondo:l’importante era trovarci qualcosa che ci permettesse di avere una vita soddisfacente, qualcosa per cui valesse davvero la pena di vivere, con il rischio che questo comporta. Ci giocavamo la nostra vita”.
I CCCP si sono sciolti perché sono rimasti sepolti sotto le macerie dei valori ideologici o per altre ragioni? “No, i CCCP sono morti perché si muore, le storie hanno un inizio, un prosieguo e una fine. Perché è una storia vera: di sentimenti, di passioni, di amore, di odio, di litigi, in cui butti sul piatto tutte le tue possibilità di vita”, ha ammesso Massimo.
Lo scioglimento del gruppo è stato umano, non ideologico. Il viaggio dei CCCP raggiunse il capolinea negli anni Ottanta perché non potevano dare di più. Introducendo la nascita dei CSI, ha detto: “le storie terminano e sta a noi riuscire a mandarle avanti”, riferendosi indirettamente al loro legame fatto di tormento e sofferenza, ma anche di infinita dolcezza.
E la fine dei CSI? “Era arrivato il tempo in cui questo stato di grazia, che non ha ragion d’essere – solo che la vita è piena di cose che non hanno ragion d’essere… –, che si era verificato in una discoteca a Berlino vent’anni prima, finiva, e ha avuto il buon gusto di finire a Berlino dove decidemmo di andare, da soli, a fare il disco della nostra raggiunta maggiore età. Siamo partiti per Berlino e ci siamo stabiliti a Neukolln, ed è cominciato un disastro che velocissimamente ha prodotto il fatto che le nostre due vite si separassero…”.
“Lo scioglimento del gruppo è stato umano, non ideologico. Il viaggio dei CCCP raggiunse il capolinea negli anni Ottanta perché non potevano dare di più”.
Per Massimo “Chiacchierare in questo modo può essere una terapia di qualche tipo. Perché noi non ci siamo mai trovati a parlare prima d’ora di quegli anni…”. E così hanno parlato per la prima volta in pubblico di Sorella sconfitta e Co.dex, pubblicati dopo il loro litigio: due dischi pieni di dolore sordo, che hanno marcato l’ingresso nella loro vita adulta.
2. Teatro municipale di Reggio, 21 ottobre 2023
Il cerchio si chiude al Teatro Valli. Hanno scelto per la scaletta della serata sette canzoni, anche se il pomeriggio le avevano provate di più: ad Annarella è seguita, dopo una loro intervista, Morire, Oh! Battagliero, Stati di agitazione e Libera me domine; in ultimo, dopo l’immancabile monologo di Andrea Scanzi – era lui il giornalista di Parma, per chi non l’avesse capito –, Emilia paranoica e Radio Kabul. Il canto di Giovanni si lascia attrarre dalla chitarra di Massimo, il cui suono acido e grattugiato ne puntualizza e amplifica il senso “fino a schiuderne una concretezza materica, carnale, che può ferire/far male o lenire le ferite assumendo valenze terapeutiche e taumaturgiche”, come ha scritto Giovanni in un suo libro di tre anni fa, Non invano. Il pubblico si alza tutto in piedi e libera un applauso che pare non finire mai. Riescono per il bis.
Giovanni con le mani appoggiate all’asta del microfono inizia a cantare Amandoti. Ed è qui che viene il bello, a cui hanno assistito i presenti alla prima sera. Accompagnato dal violino di Ezio Bonicelli, il cantore sbaglia completamente intonazione “che vuoi farci è la vita/ è la vita la mia./ Amami ancora”. Si interrompe, alza le braccia e corre da Massimo per abbracciarlo forte. Un gesto spontaneo che ne elimina mille altri, spazzando via il fascio degli equivoci. Chi c’era ha riconosciuto in quell’abbraccio un calore umano, la vibrazione di una intimità fraterna che c’è sempre stata.
Mi sovvengono solo ora le parole che Massimo mi ha detto quella mattina di febbraio a casa sua, davanti a una tisana bollente, vedendo per la prima volta stampata la copertina del mio libro che li ritrae entrambi nella campagna di San Faustino di Rubiera nell’inverno del ’93, mentre stavano producendo il nuovo disco degli Üstmamò. L’ha fissata e, puntando il dito sul nome dell’editore collocato in basso in mezzo a loro due, ha esclamato: “Vedi cosa ci è scritto qui? GIUNTI…è così…W, a voler puntualizzare che la loro amicizia è stata una premonizione, l’incontro che aspettava di compiersi.
Quelle braccia di Giovanni che hanno stretto così amorevolmente Massimo sorridente mi hanno fatto pensare a tutto questo, quella notte sull’autostrada. E a qualcos’altro: che non siamo fatti per capire cosa vediamo o ci viene raccontato dagli altri, ma per spingere tutto questo più avanti. Il grande critico Cesare Garboli, in un bellissimo saggio dedicato alla figura di Antonio Delfini – autore modenese amato da Giovanni, avendo egli utilizzato un verso di Per andare in paradiso col mio cuore per una sua canzone –, ha scritto che “in ogni amicizia c’è un rimorso”, il desiderio, cioè, di conservare il legame che ci unisce alla persona da noi ferita.
“Quelle braccia di Giovanni che hanno stretto così amorevolmente Massimo sorridente mi hanno fatto pensare a tutto questo, quella notte sull’autostrada”.
Giovanni e Massimo mi hanno fatto capire che ogni vita è fatta di una fatalità più forte di ogni pretesa di cambiarla. So bene che ciò che è stato, non sarà mai più. Eravamo stati, infatti, avvertiti che non si sarebbe trattata di una reunion di una band scomparsa, né di un crogiolarsi nella nostalgia – meno che mai di un monumento funebre con annessa certificazione di morte, ma di qualcosa di diverso: della testimonianza dell’ “allungarsi di una cellula vivente in una cellula dormiente chiamata al risveglio”.
Giovanni e Massimo sono la conferma vivente del fatto che bisogna farci sorprendere dalla vita. Le cose succedono perché devono succedere, ma dobbiamo fare un grosso sforzo per assecondarle. È la mancanza d’attenzione, a volte, l’origine della nostra infelicità.
Michele Rossi
Michele Rossi è direttore del Gabinetto Vieusseux e scrittore. Alla storia dei CCCP ha dedicato Quello che deve accadere, accade. Storia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni (Giunti, 2014).
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