Leni Riefenstahl è ancora la figura più problematica della storia del cinema - Lucy
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Nicola Lagioia

Leni Riefenstahl è ancora la figura più problematica della storia del cinema

30 Agosto 2024

Nel suo nuovo documentario, dedicato alla “regista del nazismo”, Andres Veiel si chiede cosa ne è del talento quando celebra il più orrendo dei regimi.

Cosa fare con Leni Riefenstahl?

Nel 1932 esce La bella maledetta, primo lungometraggio di una regista trentenne nata a Berlino. Il suo nome è Leni. L’impianto narrativo, di vago sapore wagneriano, è piuttosto elementare. Ma la potenza visiva del lavoro è impressionante. Ricercatezza delle immagini, inquadrature, uso della luce, capacità di soffermarsi sui corpi fondendoli con l’ambiente circostante (cieli, alberi, cascate) impongono a chiunque guardi l’opera il talento della sua autrice. “Se loro vedranno il film”, le suggerisce un conoscente che ha capito cosa sta per succedere in Germania, “ti ameranno perdutamente”. Con loro intende le camicie brune. Hitler sale al potere nel 1933, Leni Riefenstahl diventa (come detestò di essere chiamata dal 1945 al 2003, anno della sua morte) “la regista del nazismo”, almeno quanto Albert Speer ne fu l’architetto e lo scenografo. Cosa ne è del talento, o addirittura dell’arte (e dell’arte cinematografica in particolare), quando celebra il più orrendo dei regimi?

Riefenstahl, del regista tedesco Andres Veiel, proiettato oggi alla Mostra del Cinema di Venezia, è un documentario che prova a fare i conti con tutto questo, e ci riesce in maniera mirabile. Si esce scossi dalla sua visione. Com’è noto Leni Riefenstahl fu la regista del Trionfo della volontà (dove un’estetica di abbagliante bellezza si fa tutt’uno con la propaganda nazista) e di Olympia (celebrazione dei giochi olimpici del 1936 a Berlino, pellicola per realizzare la quale il nazismo mise a disposizione della regista mezzi e denaro mai visti prima), oltre ad aver documentato con la macchina da presa altri momenti cruciali del nazionalsocialismo, come il raduno di Norimberga del 1935 nell’ambito del quale venne reintrodotta la coscrizione obbligatoria, e furono promulgate le leggi razziali.

Nel suo documentario Veiel esplora la vita e le opere di Riefenstahl prima e dopo il 1945. Finita la guerra, sconfitto il nazismo, la regista viene imprigionata, processata e infine assolta dalle accuse di complicità. La considerano una semplice “simpatizzante”, niente di più. È vero, grazie a Hitler e ai suoi sgherri (c’è forse stata una frequentazione sentimentale con Joseph Goebbles, incantato dall’arte di Riefenstahl; o forse Joseph Goebbles l’ha forzata a frequentarlo, ed è arrivato a stuprarla) Riefenstahl ha ricevuto favori, denaro e fama in quantità enorme, ma non è entrata nella macchina decisionale del partito, non ha mai avuto responsabilità fuori dal lavoro dietro la macchina da presa. Per questo, le viene solo proibito di rivestire ruoli pubblici. Torna in breve una libera cittadina.

“Veiel esplora la vita e le opere di Riefenstahl prima e dopo il 1945. Finita la guerra, sconfitto il nazismo, la regista viene imprigionata, processata e infine assolta dalle accuse di complicità”.

A questo punto comincia a essere chiamata come ospite da trasmissioni radiofoniche e televisive in Germania e altri paesi d’Europa (un circo mediatico che durerà per cinquant’anni) durante le quali le viene chiesto conto della sua condotta durante il nazismo. Ma è il gioco delle parti. I conduttori dei talk show cercano di inchiodare Riefenstahl a responsabilità più che evidenti (è chiara la sua persistente simpatia per il nazismo, l’amore per Adolf Hitler; come è chiara la capacità della regista, se solo avesse voluto, di sapere della “soluzione finale”), ma al tempo stesso sobillano il sensazionalismo, il voyeurismo dei telespettatori per la gioia degli indici di ascolto. Riefenstahl riceve a propria volta ricchi compensi per le sue ospitate nei canali televisivi della Germania democratica, e può giocare a discolparsi, o si toglie addirittura dei sassolini dalla scarpa.

“Amai all’epoca La bella maledetta”, le contesta una sua coetanea durante uno di questi talk show, “ma poi fui tremendamente delusa dal Trionfo della volontà. Pura propaganda nazista. Come si può arrivare a tanto?”

“Andiamo!”, sbotta Riefenstahl, “all’epoca il 90% dei tedeschi idolatrava Hitler. Beata lei che già sapeva tutto! Io cos’avrei dovuto fare? Stare con la minoranza?”.

Ma poi, messa alle strette, Riefenstahl dice qualcosa di molto più interessante, vero e falso al tempo stesso. “Ho accettato di fare dei film su commissione del partito nazista perché ho vissuto in Germania in quel periodo. Se fossi vissuta altrove, e Roosevelt mi avesse commissionato un film per celebrare la potenza dell’esercito statunitense, l’avrei fatto. E se fosse stato Stalin a commissionarmi un film, be’, avrei accettato l’invito”.

Perché questa affermazione è vera: quando Riefenstahl si trova a documentare le Olimpiadi, sotto il suo obiettivo finisce a un certo punto il velocista statunitense Jesse Owens, che a Berlino conquisterà ben 4 ori per il sommo dispiacere di Adolf Hitler. È la prima volta che Riefenstahl vede un afroamericano. Ne è immediatamente conquistata. Adora il corpo di quell’atleta, i suoi muscoli, le movenze da felino. E infatti in Olympia Jesse Owens viene reso visivamente in modo splendido.

Perché questa affermazione è falsa: di Owens Leni Riefenstahl ammira la bellezza, la salute, ma soprattutto la forza. Così come si farà conquistare dalla bellezza e dalla forza del popolo Nuba in Sudan, i corpi dei cui rappresentanti (i più aitanti, i più belli, i più forti) immortalerà in due libri fotografici usciti nel 1974 e nel 1976. Nell’esaltazione della pura forza (della forza fine a se stessa, che può significare anche della distruzione fine a se stessa) Leni Riefenstahl riesce a carezzare il cuore del nazismo celebrando degli africani. Tant’è che non appena le domandano: “ma avrebbe mai filmato, o avrebbe mai fotografato dei disabili?”, lei risponde trattenendo a malapena l’indignazione: “certo che no! Disabili! No! La gente ama la salute, la bellezza!”.

“Che te ne fai di una super-estetica se dentro non c’è niente?”.

Chi dovesse nutrire un po’ di umana comprensione per Leni Riefenstahl verrebbe messo a dura prova dal documentario di Veiel. Durante le interviste a Riefenstahl negli anni Settanta, Ottanta, e Novanta, ci sono dei fuorionda in cui la regista smette di recitare la parte dell’inconsapevole esteta e la sua rabbia esplode, le giustificazioni diventano invettive, la timidezza si rovescia nel risentimento, e nei suoi occhi brucia qualcosa di terribile, di rivoltante. Non arriva mai a dire “Torneremo!” Lo dicono però apertamente le migliaia di cittadine e cittadini tedeschi che, dopo averla vista in tv, le mandano bigliettini, messaggi, lettere d’amore, addirittura denaro. 

“Non si preoccupi”, le scrive un’ammiratrice alla fine degli anni ’80, “lei non ha colpe. Il conduttore della trasmissione in cui è stata ospite è stato deplorevole. Le accuse che le ha mosso sono false, lo sappiamo tutti! Questo paese è nel caos. Ma tempo due o tre generazioni, rimetteremo le cose a posto, in ordine. È nell’indole del popolo tedesco”.

Il film si conclude con una quasi novantenne Leni Riefenstahl che si accosta alle cascate sotto cui girò, tanti anni prima, La bella maledetta. Che te ne fai di una super-estetica se dentro non c’è niente? Il documentario di Andres Veiel solleva domande cruciali sull’arte, l’etica, la responsabilità di chi sta da questa parte della macchina da presa. Diverse risposte sono lasciate allo spettatore. Assolutamente da vedere.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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