Isabella De Silvestro
Pablo Escobar non è stato solo un noto criminale, ma anche l’ispiratore di canoni estetici precisi che per le donne rendono quasi obbligatoria la chirurgia plastica: una moda così diffusa da aver ormai contagiato ogni classe sociale.
La prima volta che ho desiderato rifarmi il seno avevo quattordici anni e vivevo a Medellin da qualche mese. Non era un desiderio che mi aveva scandalizzato, perché il mio trasferimento dalla sobria provincia del nord Italia alla seconda più grande città della Colombia era coinciso con il passaggio a un età in cui si dismettono gli ultimi tratti infantili in favore di una nuova versione di sé capace di contenere il sesso e gli attributi fisici per aspirare a farlo – desiderare un corpo diverso mi sembrava coerente con ciò che mi stava accadendo. Intorno a me c’erano sempre le montagne ma la valle era diversa: ospitava una metropoli con quartieri fitti che si arrampicavano su pendii vertiginosi e si respirava un’aria brulicante di vita opulenta e disperata.
A Medellin c’è chi siede nei suv e chi i suv li avvicina al semaforo per chiedere l’elemosina. C’è chi il venerdì parte per raggiungere la propria finca con piscina e chi passa una vita a svicolare nel proprio quartiere fatto di case costruite senza piano regolatore, una sopra l’altra, mattoni e lamiera assemblati come capita. Ciò che sta in mezzo, tra ricchezza e povertà, è una classe che non ha la solidità, la storia o il tenore di una classe media e si barcamena tra la paura di ripiombare tra i miseri, e l’ossessione di raggiungere i più ricchi nei loro appartamenti lucidati dal personale di servizio. Medellin è poi una città che sembra aver rubato spazio alla foresta: camminando per le strade si ha la sensazione che tutto ciò che è civile, costruito, umano, abbia il tempo contato, e che un giorno la vegetazione inghiottirà ogni cosa, abitanti compresi, e un canto di pappagalli ne suggellerà la morte.
A quattordici anni desidero rifarmi il seno per motivi che vanno oltre l’adolescenza. Lo desidero insieme alle donne della città alla quale mi sto adattando, di cui cerco di assumere la forma come un liquido vischioso che sia stato rinvasato all’improvviso in un contenitore diverso dall’originale. Le donne colombiane sono belle, si dice. Ed è vero. Incarnano un’idea di bellezza tropicale che ogni maschio, anche il più timido, è chiamato a riconoscere e desiderare. Molte delle donne che vedo, dalle mie nuove compagne di scuola alle amiche di famiglia, passando per le ragazze con cui gioco a pallavolo fino alle cassiere del supermercato, hanno un’aria felina e stregonesca, come abitassero corpi usciti da uno stesso calco, dai canoni definiti con precisione e senza margini di sbavatura. Portano i capelli lisci e lunghi fino alla vita, strettissima, che è accentuata, invece, dai fianchi larghi e il sedere tornito da ore di esercizi in palestra. Il naso è piccolo e appuntito, il trucco curato, le unghie lunghe e laccate, i denti dritti e bianchissimi. Il seno, tondo, voluminoso, ha la forma artificiale delle protesi di silicone. Non è il seno grande di donne fatte così, cresciute così, senza che potessero decidere se lo volevano o meno, ma quello artefatto di chi sceglie forma e misura. È questo, in Colombia, l’unico tratto che mi pare attraversare i confini di classe: l’estetica femminile. Non significa che una donna ricca e una donna povera si vestano uguale, si acconcino uguale, appaiano uguali. L’abbigliamento è anzi, come ovunque, uno dei più eclatanti distintivi di classe.
Significa però che l’ideale di bellezza su cui hanno allenato la speciale sofferenza che prova ogni ragazzina allo specchio, sentendosi inadeguata, è lo stesso. Negli anni passati in Colombia mi è sembrato che una donna ricca e una donna povera, una figlia e una madre, una intelligente e una scema, intuissero in maniera simile che per essere considerate belle avrebbero dovuto ottenere un corpo fatto così: con le tette e il culo grandi abbastanza da immaginarsi protagoniste di una canzone reggaeton. D’altra parte, il genere musicale di cui Medellin è una delle capitali e che risuona in ogni angolo della città, dai locali agli autobus pubblici, è parente stretto della cultura dei narcos, come l’ideale di bellezza su cui le donne si struggono. Almeno fino all’arrivo di donne come Karol G nel pantheon dei reggaetoneros, nei testi delle canzoni che hanno dominato per decenni le classifiche dell’America Latina un uomo celebra su un ritmo martellante la donna che vuole scopare. Userei verbi più dolci, ma è l’unico che dice la verità.
Secondo gli ultimi dati raccolti dalla Società Internazionale di Chirurgia Plastica Estetica, la Colombia è uno dei dieci paesi in cui sono stati eseguiti più trattamenti al mondo. Solo nel 2022 se ne sono contati 732.783, il 31% in più rispetto all’anno precedente. Nuove cliniche estetiche fioriscono ogni anno e sono molte le donne straniere che viaggiano a Medellin per operarsi, alimentando così il fenomeno del “turismo estetico”. Succede perché i corpi femminili che i narcos hanno finanziato, su modello, si dice, delle prostitute che frequentavano negli Stati Uniti negli anni ’80 e ’90 per i loro viaggi d’affari, hanno oggi conquistato il Messico e da lì gli Stati Uniti per raggiungere infine l’Europa.
Medellin è la città dove è nato e morto Pablo Escobar che, come ogni mafioso di successo, è un personaggio epico. Per quanto rinnegato dai sui suoi concittadini, che come è giusto si offendono che il mondo continui ad associarli a un criminale di cui abbattono i fortini a colpi di dinamite, Escobar fu il più grande narcotrafficante della storia, e diede vita a un melodramma nazionale fatto di tonnellate di cocaina e miliardi di dollari, pistole distribuite ai ragazzini dei quartieri poveri perché uccidessero a comando in cambio di somme ridicole – allora il prezzo di una vita. In Colombia e in particolare a Medellin, si parla spesso di cultura narco o narcocultura. Sono espressioni che durante l’adolescenza iniziano a diventarmi familiari. Mi fanno pensare a uno sguardo maschile cannibale e al vago desiderio di essere mangiate dagli occhi. Traqueto, mi insegnano, vuol dire mafioso. Prepago, mi spiegano, vuol dire ragazza che si prostituisce a chiamata, escort cioè. Sono gli antieroi di un’epopea latina che se anche vengono giudicati con disprezzo, hanno prodotto un codice estetico che in qualche sua versione, addolcita e rarefatta oppure al contrario esasperata, nuota nell’inconscio delle donne colombiane come un riferimento costante.
“Secondo i ricercatori, il corpo femminile nella Colombia dei narcos diventa un mezzo attraverso il quale l’uomo completa la sua ascesa sociale e il suo accaparramento famelico del mondo, al pari di un’auto”.
In un testo accademico dal titolo Narco-aesthetic in Colombia: beteween the vanity and crime: a complex approach, gli psicologi e ricercatori José Alonso Andrade, Brigithe Dineya e Mateo Parra scrivono: “non esiste una definizione consolidata di narcoestetica, e per questo viene associata a ogni pratica di finanziamento di interventi di chirurgia estetica – solitamente per donne – da parte di una persona immersa nel mondo del narcotraffico, al fine di dichiarare agli altri il dominio che si ha su di essa e il potere rispetto ad altri soggetti che operano in dinamiche analoghe. In questo senso, all’interno del “narco-mondo”, una donna con caratteristiche aggiunte alla sua bellezza naturale (chirurgia, protesi, ecc.) è sinonimo di potere e gerarchia, diventando una sorta di oggetto di lusso con cui è possibile comunicare alla società potere, successo, ricchezza e controllo sociale”.
Secondo i ricercatori, il corpo femminile nella Colombia dei narcos diventa un mezzo attraverso il quale l’uomo completa la sua ascesa sociale e il suo accaparramento famelico del mondo, al pari di un’auto, una villa o un orologio di lusso. In questo senso il corpo della donna non è più qualcosa che esiste in sé e può essere conquistato dall’uomo, come in ogni cultura machista, ma diventa qualcosa su cui si esercita un dominio totale, che si contribuisce ad accessoriare, di cui si paga la manutenzione e alla cui perfezione si concorre attraverso continue modifiche chirurgiche.
Esattamente questo, senza raffinatezze ulteriori, è il pretesto narrativo di una delle telenovelas – o meglio narconovelas – di maggiore successo in Colombia e in Latinoamericana dal titolo Sin tetas no hay paraiso (Senza tette non c’è paradiso), che vanta numerosi remake e spin off. La protagonista è Catalina, una diciasettenne che vive in un quartiere popolare di Pereira, città a 250 km ad ovest da Bogotà, la capitale. Catalina è alta e affusolata, ha un addome piatto e sensuale e capelli nero corvino che le incorniciano un viso dai tratti delicati. Sarebbe in ogni luogo del mondo una ragazza bella, non fosse che si vede rifiutare di continuo dai giovani boss della zona, che le fanno sapere, senza giri di parole, che senza tette non andrà da nessuna parte, preferendole coetanee già operate per i fine settimana di festa nelle ville di lusso. Catalina si strugge perché non ha il denaro per l’operazione (cinque milioni di pesos, allora circa sette salari minimi mensili) e litiga con la madre che le vuole imporre di finire la scuola. Si rifiuta di andare a letto con il fidanzato trovando scuse fantasiose perché sa, senza nutrire dubbi, che la sua verginità è l’unica merce di scambio che deve preservare, consegnandola solo a chi la apprezzerà abbastanza da pagarle l’operazione al seno, rendendola così finalmente appetibile sul mercato del sesso, svolta che può innescare una vertiginosa ascesa sociale.
Catalina è povera, ma non poverissima. Desidera, come ogni adolescente, di scegliere vestiti che la facciano sentire attraente, di ricevere in regalo una moto in grado di ampliare il suo raggio di libertà e che aizzi l’invidia delle ragazze del quartiere. Donne povere che risparmiano, si indebitano o si prostituiscono per ottenere un corpo perfetto: la chiave di accesso a un mondo di sfarzo dove ogni miseria diventa un ricordo lontano, seppellito sotto strati di trucco e gioielli pesanti.
Sentire di dover modificare il proprio corpo per farne il mezzo della propria ascesa sociale è un fatto identitariamente violento che non riguarda solo le donne provenienti da contesti di povertà. A Medellin è comune che anche le ragazze cresciute nell’agio sfrenato della borghesia latinoamericana ricevano in regalo dalla famiglia per i loro quindici anni un’operazione di chirurgia estetica. Nel corso degli anni del liceo, dopo le vacanze, passavo in rassegna le mie compagne fino a scovare quelle tornate con due taglie in più di reggiseno o un cerotto sul naso da convalescenza chirurgica. Erano ragazze della Medellin bene, figlie di imprenditori, avvocati, medici, ingegneri, senza alcun legame apparente con il mondo torbido del narcotraffico e la sua estetica voluminosa e sgargiante. Non sarebbero mai andate a passare il sabato nella piscina di un narcotrafficante, a cui avrebbero preferito quella del club privato, eppure delle ragazze che frequentavano la piscina del narcotrafficante replicavano le forme, le pose, l’allure, la famigliarità esibita con i segreti del sesso e il potere maschile. Che cosa volevano ottenere, attraverso i loro nuovi corpi? A che cosa aspiravano? E che cosa volevo io, che le guardavo con un misto di reverenza e confusione, sfilare fiere dal laboratorio di chimica a quello di biologia? Volevano – volevamo – essere belle. Ed essere belle, dopo Pablo Escobar, voleva dire dismettere i nostri corpi smunti di ragazzine asessuate per diventare donne piene, attraenti, fertili.
A pensarci oggi, modificare il proprio corpo in favore di un’idea di bellezza imperante nel proprio contesto è, ad ogni latitudine del globo, la cosa più simile a un rito di iniziazione femminile all’età adulta. Farsi donne richiede un corpo che ratifichi il passaggio. E quale sia il corpo adatto lo decide chi detiene il potere. In un paese come la Colombia la globalizzazione, la crescita, il denaro in grandi somme, sono arrivati grazie al narcotraffico e all’imprenditoria, ma anche la seconda (l’imprenditoria sana), ha dovuto confrontarsi con il primo: come interlocutore, ricettatore, potere in grado di chiedere il pizzo, di minacciare, di far fallire. Chi ha prosperato senza colludersi con l’universo narco ne ha condiviso in ogni caso forzatamente il territorio, dovendo fare i conti con le sue pratiche, con i suoi metodi, e, anche, con la sua idea di bello. Perché il denaro della cocaina viaggia veloce e si moltiplica, costruisce ville e palazzi, si adorna di gioielli luccicanti e progressivamente, senza che si possa in seguito capire quando è accaduto, si fa “produttore di storia”. Non vuol dire che non rimanga spazio per altro, e che lo spazio che rimane non sia, per reazione, molto fertile. Vuol dire però che l’idea di un popolo di vita spesa bene, le sue abitudini e le sue ambizioni, non possono sorvolare i suoi ultimi quarant’anni di storia come se non fosse successo niente. Un antieroe nazionale che può tenere in vita il fuoco del proprio caminetto bruciando banconote di dollari non è qualcosa che svanisce senza spargere cenere per decenni.
Per questo insieme di ragioni, passeggiare per il centro di Medellin, è un’esperienza estetica stupefacente. Il kitsch urlante degli oggetti in vendita nei baracchini e nei negozi si mischia al caldo e alle grida dei commercianti. Donne (veneri e madonne) si aggirano vistose per le strade e i vicoli, con le loro scollature fatte per dire che senza tette non c’è paradiso, e chi aspiri a qualcosa di meno del paradiso ha perso in partenza. Facendosi strada per il centro si raggiunge Plaza Botero, la piazza più importante della città, dove sorgono maestose le ventitré statue che Fernando Botero, l’artista colombiano famoso in tutto il mondo per il volume dei soggetti, ha donato alla sua città. Sono grandi sculture in bronzo e ritraggono donne, uomini e animali, tutti sovrabbondanti. In una delle ultime interviste rilasciate prima di morire, Botero ha detto: “il volume offre l’opportunità di esaltare la realtà. Come ho detto in precedenza, una mela dipinta da un maestro — enorme, colossale, voluminosa — è più una mela rispetto al semplice frutto delle nostre vite quotidiane. Questa è l’essenza della mia estetica: cerco di esaltare il volume per comunicare bellezza e sensualità e trasmettere un senso di grandezza.”
Le statue di Botero, nella mia traiettoria biografica, sono sempre state un riferimento. Non ho mai capito se mi piacessero per quel loro essere ingombranti e prendersi lo spazio e gli sguardi o se le trovassi volgari, come ogni cosa che eccede. Con il corpo che ho desiderato in quegli anni mi accade lo stesso: a volte mi guardo allo specchio e ricordo i molti giorni spesi a volermi diversa. Poi infilo una maglietta sgualcita ed esco.
Isabella De Silvestro
Isabella De Silvestro è giornalista freelance e scrive di diritti umani, cultura e sociale. Collabora con diversi giornali tra cui «Domani».
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