Lorenzo Gramatica
Per la prima volta in concorso a Venezia, i fratelli Boukherma adattano per lo schermo il romanzo di Nicolas Mathieu, realizzando uno dei film più intensi di questa edizione della Mostra.
Tra i privilegi concessi a chi frequenta la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, oltre a un biglietto per i mezzi pubblici che porta da Venezia al Lido – il più delle volte mai utilizzato perché smarrito nella shopper d’ordinanza della Biennale o nelle tasche di pantaloni inzaccherati di spritz e pizzette – c’è quello di uscire da una sala a notte inoltrata, dopo aver partecipato una delle ultime proiezioni del giorno, con i pochi zombie che ancora si trascinano attorno alla cittadella del cinema – fuori invece è tutto un susseguirsi di baracchini che sparano musicaccia a tutto volume, con ragazzine e ragazzini locali in tiro, speranzosi di imbucarsi a una festa qualsiasi del cinema.
Spesso a queste proiezioni ci si dirige col cuore pesante di chi sta andando dal commercialista, lasciando i propri cari a bere, organizzare la cena e fantasticare di eventi a cui non andranno. Ma una volta in sala, si tira un sospiro di sollievo: si sono risparmiati almeno 60 euro e, se si è fortunati, si vedrà un buon film.
L’altra notte, ci si è sentiti più che fortunati quando, seduti sulle scale del Palazzo del Casinò, si avevano gli occhi lucidi e ancora immersi nelle immagini di Leurs enfants après eux, quarto film dei giovani registi francesi Ludovic e Zoran Boukherma, in concorso nella selezione ufficiale della Mostra. Un film molto riuscito, tratto dall’omonimo romanzo di Nicolas Mathieu, vincitore del premio Goncourt 2018 e pubblicato in Italia da Marsilio.
Il romanzo, che racconta una storia di coming of age nella profonda provincia francese, si attaglia alla perfezione al cinema dei Boukherma che, cresciuti nel dipartimento di Lot-et-Garonne, in Nuova Aquitania, hanno già esplorato quel senso di placida inquietudine e di confusa intraprendenza di chi, adolescente, ha guardato alla grande città da lontano, con il desiderio di raggiungerla e l’orgoglio di non appartenervi. Il loro film Teddy, presentato in concorso a Cannes nel 2021, è un horror peculiare e molto influenzato dal lavoro di Bruno Dumont, maestro di irrequietezze giovanili in provincia – La Vie de Jésus, L’Humanité e la mini-serie P’tit Quinquin su tutti.
Come Teddy, anche questo loro ultimo film si apre in una torrida estate, in un paesino sperduto nell’Est della Francia circondato da laghi, boschi e dagli altiforni dell’industria siderurgica locale in crisi. “Mi sto rompendo le palle” dice il cugino al protagonista Anthony (interpretato, splendidamente, da Paul Kircher). Comprensibile: per due adolescenti in campagna l’estate può essere di una noia intollerabile, quando gli unici svaghi sono bere una birra, fumare qualche canna, giocare alla Nintendo, ascoltare il frinire dei grilli fino allo sfinimento. È il 1992, non c’è nemmeno TikTok. Che si fa? Si ruba una canoa, per andare da una parte all’altra del lago – durante la traversata, mentre i due vogano con foga, parte Run To the Hills degli Iron Maiden, come a dargli manforte – dove due ragazze stanno prendendo il sole. Cercare di abbordarle è di certo la cosa migliore da fare.
Steph (interpretata da Angelina Woreth), una delle due ragazze, è bellissima, ed è una cosa che Anthony non smetterà più di pensare da quel primo, fatale momento in cui i suoi occhi si soffermano con accurato desiderio sul suo viso, sulle gambe, sul ventre, sulle tette. La guarda come si guarda una dea, con quella gratitudine bisognosa tipica dei maschi adolescenti e il privilegio di poter abitare il suo spazio, di poterle rivolgere la parola, sperando che dietro alle frasi di circostanza e ai silenzi si nasconda la prospettiva di una storia d’amore. Le due ragazze li invitano a una festa in villa. Ma è lontana, è sulle colline, distante dal paese e dalle abituali frequentazioni di Anthony e del cugino, che sono di estrazione working class. In bici non si può andare, bisognerebbe prendere la moto del padre di Anthony, che però non vuole: il padre, che beve molto ed è incline a spaventose sfuriate manesche, tiene a quella moto più che a ogni altra cosa. Le succedesse qualcosa, Anthony sarebbe morto. Sei un codardo, per caso? Stasera, mentre gli altri scoperanno, tu sarai a casa a giocare ai videogiochi, lo provoca il cugino.
“Un grande romanzo per immagini che ha freschezza, ironia, malinconia e una durezza che spesso muove al pianto”.
Si accetta il rischio, si va. Quando i due cugini sono in moto, la camera li segue sulla strada circondata dagli alberi con una grazia e una vicinanza che ricorda quella con cui Leos Carax riprende Denis Lavant e Julie Delpy in Mauvais Sang (anche le altre e tante scene in moto che seguiranno, sembrano, come quelle di Carax, circonfuse da un senso di libertà e di bellezza che è intrinsecamente connesso all’età di chi guida).
La scelta di andare alla festa avrà delle conseguenze più importanti e gravi dell’obiettivo che li ha portati lì – scopare; quando, dopo droghe, bagni in piscina, tentativi più o meno riusciti di seduzione (Anthony indossa una polo da lavoro con su scritto “Agrigel”, non il massimo della coolness), si imbucano alla festa due ragazzi maghrebini, dei bassifondi, Hacine (interpretato da Sayyid El Alami) e un suo amico, succede qualcosa destinato a modificare significativamente il corso degli eventi.
Non graditi alla festa, in quanto poveri e arabi, vengono invitati dai proprietari di casa ad andarsene; più per sconsideratezza, dovuta alle sostanze, che per coraggio, e più per colpire la gattamorta reticente Steph (che ha una relazione complicata con uno che “legge Camus”) che per senso di giustizia, Anthony fa uno sgambetto ad Hacine, che gliela giura. Infatti, finita la festa, la moto del padre non c’è più.
Da questo primo dramma – ritrovare la moto, con l’aiuto della mamma, una Ludivine Sagnier, già indimenticabile bellezza lolitesca a bordo piscina in Swimming Pool di Ozon, qui convincente anche come trasandata moglie e madre – ne arrivano a catena altri nel corso del film, che segue i personaggi nella loro crescita dal 1992 al 1998.
Col passare degli anni, famiglie si sfasciano, amicizie e amori cambiano ma resistono nel loro nitore adolescenziale e i giorni della giovinezza corrono a perdifiato, come in un giro in moto, verso una fine che nessuno vuole davvero. Sullo sfondo, la crisi dell’industria siderurgica, con il paesino che cerca ridicolmente di riconvertirsi a stazione sciistica estiva, con neve artificiale e bar che si credono baite d’altura.
I poveri rimangono poveri, invecchiano e ricordano con nostalgia i tempi della fabbrica e il funerale del proprietario è l’occasione per guardarsi indietro con tristezza e per riaprire vecchi conti; i genitori sono acciaccati, storti, violenti, uomini duri e all’antica sfasciati dall’alcool e dalla salute cagionevole, ma in grado, come il padre di Anthony (Gilles Lelouch), di mostrare una tenerezza disperata perché incapace di esprimersi con la serenità della maturità. La relazione tra lui e il figlio è raccontata in modo brutale e commovente; è un rapporto fatto di fraintendimenti, di parole sbagliate, di violenza e dolcezza muta, nell’attesa di una distensione che non potrà mai avvenire davvero.
Anthony, con la sua espressione assieme ingenua e sfrontata, timida e coraggiosa, l’occhio guercio, i brufoli come cicatrici di una giovinezza che non sembra in grado di superare, guida lo spettatore all’interno di un grande romanzo per immagini che ha freschezza, ironia, malinconia e una durezza che spesso muove al pianto. La sua rivalità con Hacine è quella di un western di campagna: eterna. Il suo amore per Steph è quello della grande letteratura romantica: cieco e ostinato.
“Le due ore e mezza di film e la mezz’ora successiva, passata sulle scale del Palazzo del Casinò a parlarne, rimangono tra le meglio spese a questa Mostra”.
I due registi seminano false piste, danno l’impressione che qualcosa stia per accadere per poi smentirla con un gesto o uno sguardo degli attori, in un modo che è spesso convincente, mai forzato.
Si colgono nel film molte influenze: dai già citati Bruno Dumont e Leos Carax ai primi stupendi film sulla gioventù di Abdellatif Kechiche, ma anche Steven Spielberg, altro maestro di romanzi di formazione e di sguardo sui ragazzi che cercano il loro posto nel mondo.
Vicende anche banali e piccole cose – uno sgambetto, il furto di una moto, una pistola avvolta in uno strofinaccio, una bottiglia di vodka nascosta in una credenza, un pacchetto regalo – assumono grande spessore drammatico senza inutile enfasi. C’è, nei due registi, una dote fondamentale e abbastanza rara: la capacità di raccontare lasciando che le cose scivolino via con naturalezza.
Leurs enfants après eux è un film crudo, intenso, con una sua compiutezza nella capacità di seguire i personaggi dalla giusta distanza, nella tensione drammatica, nella colonna sonora – quanto è bella la versione a cappella di Where is My Mind dei Pixies e quanto bene si accorda alle immagini! Se The Brutalist di Brady Corbet (visto poco prima di licenziare questo pezzo) è un film ambiziosissimo, e anche se ne mancano ancora molti altri attesi – April, Harvest, Love, Stranger Eyes, Queer –, sarebbe un peccato se Leurs enfants après eux, alla fine, non vincesse un premio, anche minore.
Le due ore e mezza di film e la mezz’ora successiva, passata sulle scale del Palazzo del Casinò a parlarne, rimangono tra le meglio spese a questa Mostra.
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