Giulio Marchetti
Ripercorrere la storia del condominio ci aiuta a capire le radici culturali della proprietà immobiliare ma, soprattutto, a ipotizzare le future politiche in tema di abitare.
Possedere la propria casa è il pensiero fisso di ogni italiano, e non solo. Un’ambizione da cui sembra impossibile sfuggire: sicurezza abitativa ed economica, realizzazione sociale e personale si intrecciano in questo obiettivo. Non è un caso che, in vista della lunga campagna elettorale che ci condurrà alle prossime elezioni di governo – come la storia politica italiana insegna – il tema di un “piano casa” torni inevitabilmente al centro del dibattito, accompagnato dalla consueta promessa di incentivare gli aspiranti proprietari all’acquisto di un’abitazione, che nella maggior parte dei casi coincide con un appartamento, più precisamente con un appartamento in condominio.
Per capire quale sia l’importanza del condominio nelle nostre vite, iniziamo sfatando il mito che possedere la propria abitazione sia una caratteristica tutta italiana. Infatti, come dimostrato nel libro Casa dolce casa? (2020) di Filandri, Olagnero e Semi, la classifica europea dei proprietari di casa (dati Eurostat 2021) è in realtà guidata da alcuni paesi dell’Est, tra cui Albania e Romania, mentre agli ultimi posti si trovano Svizzera, Germania e Austria, dove la proprietà dell’abitazione è molto meno diffusa a vantaggio invece dell’affitto. L’Italia si colloca nella metà alta della classifica, ma comunque dietro a nazioni come Spagna, Portogallo e Polonia, a conferma di una consolidata cultura della proprietà che però non è affatto eccezionale.
A questo dato possiamo poi aggiungerne un altro, relativo questa volta al tipo di abitazione più diffuso nei diversi paesi (sempre dati Eurostat 2021). Nella stessa Europa dell’Est prevalgono le case indipendenti, mentre in Austria, Germania, Svizzera, ma anche – e soprattutto – in Italia è più frequente vivere in edifici composti da più unità, in appartamento.
Un fatto significativo che, messo in relazione con il dato precedente, conferma le statistiche nazionali: la condizione abitativa più diffusa nel nostro Paese è quella di vivere in un appartamento, molto spesso di proprietà, all’interno di quello che definiamo abitualmente un “condominio”.
Le ragioni che hanno portato gli italiani ad essere un popolo di proprietari sono molteplici e ricostruire la storia del condominio offre una chiave di lettura della nostra storia sociale ancora poco battuta. Si tratta di un elemento delle nostre vite spesso dato per scontato, ma la cui importanza ha profonde ricadute sulle nostre città. Vale allora la pena chiedersi, cosa significa esattamente “condominio”?
La parola “condominio” deriva dal lessico del diritto e, sorvolando sull’etimologia abbastanza ovvia, va subito chiarito che il termine non indica l’edificio in sé, bensì il costrutto giuridico che lo regola. Questa serie di norme, oltre allo scopo di disciplinare la “comunione forzosa” delle parti condivise tra i diversi inquilini, ha il merito di rendere possibile la suddivisione di un singolo edificio in più unità, possedute da proprietari differenti. In altre parole, consente l’esistenza della cosiddetta “proprietà orizzontale” o per piani, in contrapposizione alla “proprietà verticale”, da terra a cielo per intenderci. Mentre quest’ultima vincola il proprietario (persona, società, ente o cooperativa) al suolo su cui l’edificio insiste, la vera rivoluzione del condominio si cela nel distacco della proprietà da terra, ossia nella sua sospensione.
L’idea di possedere il proprio appartamento, la porzione di edificio in cui si abita, è dunque sorprendentemente più recente di quanto si immagini. Un fatto oggi dato per scontato, il cui pieno riconoscimento all’interno del sistema giuridico italiano ha persino meno di un secolo. Risale allo stesso anno in cui l’Italia vinceva la sua prima Coppa del Mondo o ancora più incredibilmente nascevano Sophia Loren e Giorgio Armani. Era il 1934 quando, con il Regio Decreto sulla “Disciplina dei rapporti di condominio sulle case”, il condominio veniva per la prima volta associato alla questione abitativa e ufficialmente inserito nel sistema giuridico italiano.
La storia del condominio affonda le proprie radici nell’Europa continentale, ma la sua piena formalizzazione richiese non anni, bensì secoli. Come osserva il giurista Robert Natelson, infatti, l’idea di suddividere la proprietà di un singolo edificio in più parti era fortemente osteggiata dal Diritto romano prima e dal successivo Codice giustinianeo poi, entrambi fondati su principi di proprietà legati al suolo su cui l’edificio insisteva. Possiamo dunque sfatare il mito secondo cui le insulae, edifici multipiano dell’Antica Roma spesso associati alle origini del condominio, potessero davvero essere considerate tali. A confermarlo è anche il fatto che tali costruzioni prendessero di frequente il nome dal loro proprietario, come nel caso della Insula Felicles, il più alto edificio residenziale della città, rievocato da Federico Fellini nel suo Satyricon come luogo sordido e decadente.
“Ricostruire la storia del condominio offre una chiave di lettura della nostra storia sociale ancora poco battuta. Si tratta di un elemento delle nostre vite spesso dato per scontato, ma la cui importanza ha profonde ricadute sulle nostre città.”
La concentrazione della proprietà immobiliare nelle mani di pochi privilegiati, soprattutto all’interno delle città, costituisce una costante della storia europea. E, malgrado non mancassero eccezioni, legate ad esempio a specifici sistemi di diritto mercantile, gli abitanti di quello che oggi definiremmo un’unità immobiliare, se non proprietari dello stesso edificio, erano prevalentemente inquilini obbligati a pagare un affitto.
I primi segnali di cambiamento, legati alle crescenti pressioni demografiche delle città e alla trasformazione della società, in particolare con l’ascesa della borghesia, emersero con il Codice napoleonico del 1804. In forma embrionale vi si trovano riferimenti al regolamento e alla manutenzione delle parti comuni, anche se il concetto di condominio è ancora assente. Qualcosa stava mutando; eppure, come sottolinea la storica Adeline Daumard descrivendo l’evoluzione della proprietà nella Parigi ottocentesca (prototipo della città europea moderna), persino in epoca haussmanniana (1852-70), quando la capitale fu segnata da sventramenti e sostituzioni edilizie, la proprietà immobiliare restò in gran parte concentrata.
Lo raccontano anche i grandi scrittori dell’Ottocento parigino, da Balzac a Émile Zola. E proprio Zola, nel romanzo Pot-Bouille (La solita minestra, 1882), ambienta la vicenda in una classica maison à louer o casa d’affitto, un edificio attraversato da attriti tra inquilini e proprietari, conflitti di classe e contrasti familiari. La costruzione, articolata su quattro piani, ospita diversi strati della borghesia e servitù: il proprietario, commerciante di tessuti, risiede al piano nobile sopra il suo negozio, mentre il prestigio degli inquilini e il decoro degli interni si affievoliscono man mano che si sale verso i piani superiori. Una gerarchia sociale degli spazi domestici che soltanto l’invenzione dell’ascensore, nel Novecento, avrebbe finito per ribaltare.
Sempre a Parigi, questa volta grazie a un architetto, è possibile cogliere una diversa sfumatura dello stesso contesto, con uno sguardo rivolto al futuro. Si tratta di Eugène Viollet-le-Duc, noto soprattutto per il restauro di Notre-Dame e per gli influenti trattati di architettura. In uno di essi, Les Habitations Modernes (1875), l’architetto esprime una certa reticenza nei confronti delle condizioni delle case d’affitto, un tema progettuale allora ritenuto di modesto prestigio architettonico, ma che, data la sua rilevanza sociale, egli stesso eleva sino a farne una vera e propria questione morale. Auspica infatti una soluzione tanto pragmatica quanto duratura: una riforma statale che renda il maggior numero possibile di cittadini proprietari e, di conseguenza, finalmente responsabili del decoro della propria abitazione e insieme della sicurezza della propria famiglia.
Una visione che, alle soglie del XX secolo, anticipava ciò che sarebbe accaduto negli anni successivi, riconducendoci agli anni Trenta del Novecento, nel periodo tra le due guerre. Un’epoca segnata dall’aumento del fabbisogno residenziale nelle città, da una più ampia accessibilità al credito per i privati e da profondi mutamenti istituzionali, sistema giuridico incluso. In tale scenario, pur non senza iniziali riserve, la borghesia italiana riconobbe nel condominio uno strumento privilegiato di speculazione edilizia, come vedremo fra poco, con rilevanti risvolti politici.
L’Italia di quel periodo, l’Italia sotto il regime fascista, rappresenta un caso studio emblematico per l’affermazione del condominio. Lo storico Lando Bortolotti sottolinea lo scetticismo iniziale nei confronti di questa forma di proprietà, osservando come agli inizi del Novecento episodi di multiproprietà si riscontrassero soltanto in poche città, come Genova o Savona, dove i limiti territoriali avevano da tempo imposto una maggiore densità abitativa e un’altezza più marcata delle strutture residenziali. Eppure, inevitabilmente, il condominio si era ormai fatto esigenza del tempo, imponendosi come un costrutto nuovo. Tanto che, di fronte a questa realtà, malgrado l’iniziale diffidenza, lo stesso regime fascista non poté più ignorarne l’importanza, arrivando anzi a sfruttarla a proprio vantaggio.
Infatti, se da un lato il condominio rappresentava “un nuovo campo di affari per gli imprenditori e un’opportunità per i piccoli capitalisti di investire il proprio denaro”, come osserva Bortolotti, dall’altro divenne sempre più chiaro che questa forma frazionata di proprietà funzionava anche come uno strumento di ordine e controllo sociale, non solo sotto il regime fascista, ma all’interno di un più ampio contesto politico europeo.
Chi diventava proprietario avrebbe difeso la posizione acquisita a tutti i costi, rendendosi di fatto impermeabile a nuove ideologie rivoluzionarie, fino al punto di spingere il giurista antifascista Domenico Riccardo Peretti Griva a definire il condominio come una forma di “anti-utopia”, un deterrente sociale per la collettività, capace di neutralizzare le ideologie avvertite come più pericolose per l’ordine pubblico.
Estendere l’ambizione di diventare padrone di casa, trasformando gli inquilini in potenziali acquirenti, cambiava le carte in tavola. Invece di confrontarsi con avversari di classe, i padroni – il cui ruolo era comprensibilmente detestabile – si confrontavano ora con aspiranti proprietari, spesso inconsapevoli dello schema speculativo cui erano sottoposti, e disposti a indebitarsi pur di consolidare il proprio status sociale.
Le testimonianze del successo di questo modello sono molteplici e, ancora una volta, è il mondo dell’architettura a fotografare l’evoluzione della società dell’epoca. Un esempio è un’inserzione pubblicitaria apparsa nel 1937 sulla nota rivista di architettura Domus. L’annuncio riguarda un nuovo edificio residenziale a Milano della Società Immobiliare AFEL, ed è intitolato “Case in condominio”.
Le prime righe dell’annuncio si rivolgono proprio all’“uomo previdente”, che finalmente aveva, in piena città, un’alternativa alla classica e tanto ambita “villetta”. Poteva possedere il proprio appartamento, garantire un tetto sicuro e un investimento stabile per la famiglia, condividere le spese di manutenzione dell’edificio, trasformare l’immobile in una fonte di rendita all’occorrenza e, in quanto proprietario, essere libero di personalizzare la propria unità abitativa. Il prodotto perfetto per la borghesia italiana.
Estremizzando, se la scoperta della fissione nucleare pose le basi per l’invenzione della bomba atomica, la formalizzazione del condominio nel diritto civile rappresentò, per il mondo della proprietà immobiliare, una formula capace di innescare quella reazione a catena che avrebbe condotto all’atomizzazione delle grandi proprietà. Vale a dire, la loro parcellizzazione, divisione e vendita frazionata, il che consentì anche di reinvestire i capitali ottenuti nella crescente industrializzazione del settore edilizio.
L’impatto di questo fenomeno nel secondo dopoguerra è probabilmente quello che oggi ci tocca più da vicino, poiché il condominio divenne il “mattone” dell’urbanistica italiana, un vero e proprio simbolo del boom economico. E proprio in quanto simbolo si trasformò anche in forma espressiva per numerosi abili professionisti.
“È evidente come i vantaggi di una proprietà diffusa per i singoli beneficiari si scontrino con gli svantaggi di una società costretta alla proprietà.”
Come osserva l’architetta Chiara Ingrosso, le città di Milano, Roma e Napoli offrono esempi significativi dell’impatto architettonico di questo modello abitativo. Dalle sofisticate facciate dei condomini milanesi, espressione di un professionalismo colto capace di dialogare criticamente con il tessuto urbano esistente, alle libertà volumetriche ed espressive degli esempi romani — dove, più che di condomini, è consueto parlare di palazzine — frutto di una maggiore indipendenza dei lotti e di un pensiero orientato all’organicità delle soluzioni. Ne deriva una produzione edilizia capace di elevare uno strumento di speculazione fondiaria a discorso architettonico, grazie ad abili professionisti in grado di contrapporsi all’omologazione delle soluzioni costruttive, alla quale il condominio, dovendo rispondere ai gusti di un mercato generico, risulta inevitabilmente più esposto.
Ma se i casi sopra citati riguardavano ancora una fetta limitata e privilegiata della società, alla ricerca della “signorilità” alto-borghese delle proprie abitazioni, anche nelle politiche abitative pubbliche del dopoguerra – quelle popolari, per intenderci – si osserva come l’obiettivo implicito fosse quello di estendere la proprietà a un bacino sempre più ampio.
Il discorso è complesso, ma, in sintesi, persino nell’edilizia residenziale pubblica – ossia posseduta da un ente pubblico e concessa in affitto – si ritrova una chiave d’accesso al mondo della proprietà immobiliare.
Emblematico, in tal senso, è il sistema dell’“affitto a riscatto” introdotto con il celebre Piano Fanfani, cui si deve la costruzione dei noti alloggi INA-Casa tra il 1949 e il 1963, che consentiva agli affittuari di divenire gradualmente proprietari della propria abitazione, trasformando di fatto queste case popolari in condomini latenti.
Durante i cinquant’anni di dominio politico democristiano, del resto, l’elettorato considerava la proprietà privata un pilastro della libertà personale. Lo sintetizza bene il motto perentorio “tutti proprietari” – anziché il “tutti proletari” marxista – coniato nel 1946 da Guido Gonella, futuro ministro e segretario del partito. Da allora, l’Italia è passata da un sostanziale equilibrio tra abitazioni in affitto e abitazioni in proprietà a un netto sbilanciamento delle percentuali, con oltre il 70% della popolazione che oggi vive in proprietà.
Un dato inequivocabile e sistemico, che stigmatizza negativamente chi sceglie di investire diversamente i propri risparmi continuando a vivere in affitto. Una condizione apparentemente irreversibile, nella quale per gran parte della popolazione risulta ormai impensabile mettere in discussione questa conquista faticosamente raggiunta. Chi, oggi, sosterrebbe un aumento delle tasse sulla propria casa? E, ancor meno, su un immobile ricevuto in eredità? In definitiva, chi sarebbe disposto a mettere in discussione il fatto stesso di essere proprietario?
È dunque evidente come i vantaggi di una proprietà diffusa per i singoli beneficiari si scontrino con gli svantaggi di una società costretta alla proprietà e in cui, grazie alla sua pragmaticità e adattabilità, il condominio ha giocato un ruolo centrale nella modernizzazione della città. Non solo come modello abitativo, ma soprattutto come strumento speculativo e lubrificante del capitale, trasformandosi, per scala e ubiquità del fenomeno, in quel vero e proprio monopolio dell’abitare di cui oggi gli effetti sono evidenti.
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