Lo spirito di Goffredo - Lucy sulla cultura
articolo

Nicola Lagioia

Lo spirito di Goffredo

11 Luglio 2025

È morto Goffredo Fofi, intellettuale, critico, amico di questa rivista e maestro di molti. Il suo impatto sulla cultura è stato enorme e unica la sua capacità di creare ponti tra le persone.

È morto Goffredo Fofi. Era nato nel 1937. È stato il maestro, il padre di molti di noi. Questa rivista gli deve tanto. Ma credo che l’Italia intera abbia con Fofi un conto difficile da saldare, considerando quanto siamo diventati brutti e stupidi noi italiani negli ultimi anni. Chi vorrà salvare la sua vita la perderà, potremmo parafrasare il motto evangelico. Mentre chi avrà il coraggio di metterla in gioco, di non risparmiarsi, si salverà. Goffredo non era certo un cattolico osservante (“Dio o non c’è o è fascista”, amava ripetere questa frase di suo padre) ma con il meglio del pensiero religioso condivideva la capacità di spendersi per gli altri, e la radicalità. Allievo in questo di Simone Weil, fratello più giovane di Carlo Levi, di Aldo Capitini, sodale di Danilo Dolci, di Elsa Morante.

Difficile riassumere in poche righe i suoi meriti intellettuali e le sue intemperanze (la “scoperta” di Totò, considerato a lungo un comico di seconda fascia, la difesa di Carmelo Bene, la pubblicazione su rivista di autori come Svetlana Aleksievič e J.M. Coetzee quando pochi li conoscevano, gli attacchi alle neoavanguardie, la presa in giro del Gruppo 63 “già morto nel ’62”), la cosa più stupida che potevi fare quando ti stroncava, torto o ragione che avesse (spesso aveva ragione), era offenderti.

Alcuni si offendevano. Persino i grandi potevano far passare anni per metabolizzare la batosta, prima di riderci finalmente su (“alla fine Ultimo tango a Zagarol non l’ho mai voluto vedere per paura che avesse ragione Fofi a dire che era più bello del mio film”, un riconciliato Bertolucci). “Quando mi chiamano maestro non mi offendo”, diceva Fofi, “a patto che lo dicano perché sono stato maestro elementare”. La pulizia del suo pensiero è sempre stata evidente. In un mondo in cui a confondere e rovinare le più belle teste in circolazione erano l’ambizione, la frustrazione, la fame di onori ma anche di soldi, il disinteresse totale di Fofi per questo tipo di sirene era un punto di forza.

Viveva come uno studente fuorisede (“ma sempre nelle vicinanze di una stazione ferroviaria”, scriveva credo Pino Corrias, “per rendergli più facili i suoi continui viaggi su e giù per l’Italia”). L’aspetto tuttavia più formativo e raro della sua vita, è stata la capacità di fare. Le buone pratiche. (“Fare, in luogo di non avere fatto”). La cosa che non riesce più quasi a nessuno. Dagli scioperi al contrario con Danilo Dolci, alla fondazione della mensa dei bambini proletari a Napoli, alle battaglie a fianco di contadini e operai. E poi la capacità di allevare generazioni di giovani. Molti, strappandoli letteralmente dalla strada. Aiutando tanti altri a riversare la propria feconda confusione in un libro, in un film, nella pratica teatrale. Instradandoli, perdendoli, non di rado rinnegandoli. Poi ritrovandone qualcuno. Usando spesso le riviste («I quaderni piacentini», «La terra vista dalla luna», «Linea d’ombra», «Lo straniero», «Gli Asini» per citarne alcune) come palestra, laboratorio, ginnasio.

“La pulizia del suo pensiero è sempre stata evidente. In un mondo in cui a confondere e rovinare le più belle teste in circolazione erano l’ambizione, la frustrazione, la fame di onori ma anche di soldi, il disinteresse totale di Fofi per questo tipo di sirene era un punto di forza”.

Ha cercato di infilare in tante zucche vuote (o malamente riempite, le nostre) quel che ci entrava con il meglio del pensiero pedagogico, filosofico, artistico, democratico. Soprattutto lo spirito. Mettere insieme le persone. Questo gli riusciva magnificamente. Anche quando aveva ormai settant’anni, anche quando ne aveva ottanta, e poi ottantacinque, lo andavi a trovare e lui era lì che cucinava (senza l’aiuto di nessuno) per i suoi ospiti.

Gli arrivi continui di persone a casa di Goffredo erano leggendari (fumettisti, accademici, attivisti, scrittori, registi, fotografi, sociologi, preti, attori, editori, grandi vecchi e ragazzini, Mario Monicelli e scappati di casa). In una città e un Paese sempre più esangui, consolava sapere che, tra le otto e le dieci di sera, a casa di Goffredo stava succedendo qualcosa di più interessante rispetto a ciò che andava in scena in qualunque contesto istituzionale. Molte persone si sono formate così. Piccoli gruppi di amici, sparsi in giro per l’Italia (che, come dicevo, Fofi ha percorso in lungo e in largo, dalle grandi città alla provincia sperduta), si frequentano ancora, e si vogliono bene, perché li ha messi per la prima volta insieme lui.

Ho conosciuto Goffredo più di venticinque anni fa. Ci siamo frequentati tanto. A un certo punto (la consideravo una grandissima fortuna) abbiamo abitato nella stessa strada. 

Sono andato a trovarlo, questa volta in ospedale, solo qualche giorno fa. Si era rotto il femore, cadendo per strada dopo aver tenuto alla Sapienza una conferenza su Carlo Levi. L’ho visto affaticato. Oltre a me, intorno al suo letto, c’erano un po’ di persone. Rievocavamo vecchi episodi. Lui invece parlava del futuro. Di quello che avrebbe voluto fare, di quello che è necessario fare in un mondo in rovina. Educarsi persino alla fine del mondo, diceva, per arrivarci con dignità. 

“In una città e un Paese sempre più esangui, consolava sapere che, tra le otto e le dieci di sera, a casa di Goffredo stava succedendo qualcosa di più interessante rispetto a ciò che andava in scena in qualunque contesto istituzionale”.

Siamo tutti addolorati. Se sarà possibile, questa rivista pubblicherà nei prossimi giorni pezzi e ricordi su Goffredo a firma di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo. Grazie Goffredo, scusaci per non essere stati all’altezza.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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