L'ossessione per il benessere non ci salverà - Lucy
articolo

Priscilla De Pace

L’ossessione per il benessere non ci salverà

28 Ottobre 2024

Oggi i più giovani non sembrano poi così interessati ad alcool e sigarette, anzi: sui social imperversano routine improntate ad aperitivi fit e ricette plant-based. Bene, ma cosa si rischia di perdere assieme alla sregolatezza?

Verso la fine dell’estate mi piace fare questa cosa un po’ stucchevole di andarmene al parco vicino casa a contemplare la natura urbana e assaporare in anticipo l’arrivo dell’autunno. Ovviamente, a fine settembre a Roma non c’è un indizio di cambio di stagione neanche a pagarlo quindi, in realtà, me ne sto lì a simulare un po’ di malinconia e a osservare con inquietante amorevolezza le coppie giovani. Quest’anno due adolescenti si sono accoccolati su una zolla d’erba vicino a dove ero seduta. Lui si è sdraiato poggiando la testa sulle gambe di lei, i volti orientati l’una verso l’altro, le mani della ragazza nei capelli del ragazzo. Hanno iniziato a sussurrarsi cose, a ridere,  discutere. A un certo punto, la conversazione si è accesa: lui le faceva domande appassionate, lei rispondeva con lunghe spiegazioni. Mi sono messa in ascolto: “Non è come pensi”, diceva lei. “Se vuoi diminuire i carboidrati devi aumentare l’apporto di grassi e fare un uso moderato di proteine. In pratica per ogni grammo di carboidrati dovresti consumare quindici grammi di grassi. Hai capito, amore?”. Sono rimasta lì per tutta la durata della loro conversazione. Sugli alberi, neanche una foglia gialla.

Ultimamente nell’aria pare ci sia più smania di salute che libido, più autodisciplina che desiderio. E sembra che questa tendenza origini proprio da una gioventù che, invece di consumare i migliori anni della propria vita in eccessi e trasgressioni, ha deciso di intraprendere la strada della cura di sé, eleggendo il salutismo come il migliore dei modi per dissipare l’eccesso di energia giovanile. Basta guardarsi attorno per accorgersene. C’è il picco di sobrietà adolescenziale, con le lattine di design che offrono il brivido di uno spritz analcolico al sommacco piccante o l’ebbrezza di un surrogato di Negroni con sentore di ginepro toscano biologico; c’è la sinistra ondata di regimi di bellezza anti-ageing per pubescenti ossessionate dall’invecchiamento cellulare; c’è la sezione #FitTok, con più di quattro milioni di contenuti, dedicata a workout e alimentazione. Ci sono, infine, ronde di teenager che invece di aggirarsi per il supermercato nel tentativo di trafugare della vodka scadente, perlustrano gli scaffali scannerizzando i prodotti con Yuka, una app per la rilevazione di zuccheri e grassi in eccesso nei valori nutrizionali. Secondo alcuni studi le motivazioni di questa nevrosi risiederebbero nell’atipica mole di dati sulla salute personale a cui le nuove generazioni hanno accesso, mentre altri tendono a ricercarne la causa nell’alienazione che attaglia i nativi digitali. In ogni caso, la vita e la sua rappresentazione online sembrano sfumare in una foschia torpida che avvolge giornate scandite da integratori e superfood, routine alimentari e aperitivi “fit” a base di kombucha e pizzette all’albume da gustare inguainate in tutine di poliestere rigenerato color confetto. Da qualche parte, oltre la caligine, persistono le catastrofi ambientali, le guerre, il brusio di città immerse in un’unica stagione afosa. È come se improvvisamente vivessimo tutti a Los Angeles. Invece siamo qui, sparsi tra Lubecca e Caltanissetta, legati gli uni agli altri dai nodi di una rete che sfruttiamo esclusivamente per scambiarci consigli nutrizionali.

“Ultimamente nell’aria pare ci sia più smania di salute che libido, più autodisciplina che desiderio. E sembra che questa tendenza origini proprio da una gioventù che, invece di consumare i migliori anni della propria vita in eccessi e trasgressioni, ha deciso di intraprendere la strada della cura di sé”.

Pochi giorni fa mi sono imbattuta in un subreddit dedicato al videogioco The Sims dove si possono trovare informazioni sull’apporto calorico ideale per i propri personaggi virtuali. All’interno della conversazione una tabella nutrizionale indica i valori di ogni pietanza. I dati vengono analizzati e commentati dagli utenti, che condividono esperienze di gioco e suggerimenti per perfezionare la dieta degli avatar. Il salmone in crosta per esempio ha più calorie dell’insalata, ma garantisce la possibilità di essere produttivi più a lungo, mentre mangiando due aragoste alla Termidoro ogni giorno il sim manterrà il suo peso forma ideale. Una delle discussioni più accese riguarda i prodotti da forno che, a quanto pare, non hanno calorie. “Non è possibile” commentano gli utenti. “Cosa nascondono i programmatori del gioco?”, “Qual è il trucco?”. La carbofobia dei giorni nostri contagia anche la dimensione immateriale del gaming. 

I social, ovviamente, sono il palcoscenico di queste nuove ossessioni alimentari. Ogni regime ha le sue food influencer e le rispettive video ricette. Ci sono i menù per le intolleranze alimentari e quelli che si focalizzano sulla diminuzione o l’aumento di un solo nutriente (low carb, protein packed). C’è l’alimentazione salutare, quella intuitiva e, infine, la proposta etica, che include la cosiddetta “dieta plant-based”, il nuovo veganesimo ribrandizzato per un mercato che vuole vendere la Nutella ai ceci senza mettere in discussione i propri metodi produttivi. Nei video le creator fingono di essere colte da guizzi creativi, a cui danno immediatamente sfogo cimentandosi in preparazioni da Martha Stewart, anche quando si tratta delle diete più audaci: le influencer della chetogenica invitano a sperimentare un pericoloso stato di privazione dei carboidrati ingurgitando ketolasagne di yogurt greco e zucchine grigliate, mentre le ragazze della paleolitica promuovono il ritorno a una generica “dieta primitiva” a colpi di poké di carne macinata e frullati a base di acqua di cocco e collagene.

A me il cibo interessa fino a un certo punto. Quello che davvero attira la mia attenzione in questi video è il contenuto dei frigoriferi dei creator, dove ogni componente organico delle ricette viene conservato in contenitori alimentari diligentemente impilati gli uni sugli altri, con le etichette di colori diversi a distinguere i cereali dalle verdure, le salsine dai sottaceti fermentati. Mi ricordano sempre la pubblicità del Kinder pinguì che andava in onda negli anni Novanta, dove gli sportelli di un camion frigo vengono spalancati per rivelare una  parete di merendine impeccabilmente stoccate. Solo che invece di sei tonnellate di morbido pan di spagna rivestito da croccante cioccolato fondente ci sono ingredienti misurati e bilanciati per assicurare che il proprio corpo non ingerisca niente di inopportuno nei successivi centosessantamila pasti rimanenti prima di tirare le cuoia.

La felicità continua ad assomigliare a una cella frigorifera benevolmente rifornita di scorte alimentari, solo che lo spirito del tempo è cambiato e l’altro giorno ho preparato sette vaschette di chia pudding con diversi topping per una settimana all’insegna del risveglio salutare. Ho trovato la ricetta sulla pagina di una delle mie meal prepper preferite: così vengono definite le creator che dispensano consigli e dimostrazioni su come organizzare i pasti in vaschette ermetiche che mai e poi mai chiameremo Tupperware. Se l’azienda americana un tempo aveva costruito un impero diventando eponimo dei suoi stessi prodotti, oggi dichiara la bancarotta e viene ripudiata dai consumatori più giovani. I nuovi contenitori alimentari hanno i coperchi in bambù, il corpo in vetro borosilicato e un’estetica che fa passare la conservazione degli alimenti come un atto di amore verso se stessi, più che una mera questione di praticità.

Dopo due ore di preparazione i miei livelli di stamina erano notevolmente bassi, ma l’algoritmo del mio Instagram ha continuato a incalzarmi con altri di reel di influencer che documentano tutto quello che mangiano durante la giornata, a riprova che il mio sforzo per diventare una migliore versione di me stessa non fosse ancora sufficiente.

L’ossessione per il benessere non ci salverà -

Se c’è una cosa che le stringhe di codice sembrano aver capito della nostra epoca, o quanto meno dell’occidente benestante da cui scrolliamo, è che in tempi di surplus del nulla, di perdita di senso dell’esistenza, non c’è niente di più appagante che sviluppare un rapporto maniacale con l’organizzazione dei pasti. Non importa quanti disturbi del comportamento alimentare si nascondano nello spazio tra un frullato proteico e un’insalata di cavolo nero, in questo momento il web è un universo orientato all’efficientamento nutrizionale.

I video dei regimi alimentari quotidiani, che sono diversi da quelli delle singole ricette e dai meal prepping, iniziano tutti con il titolo “what I eat in a day” seguiti dal sottotitolo «as a…» completato con la categoria con cui ogni creator ha deciso di identificarsi: “as a vegan nutritionist”, “as a uni student”, “as a retired top model”. Seguono le più svariate routine, ciascuna modellata su determinate convinzioni alimentari che sostengono la pretesa di manifestare una verità sul modo in cui la vita andrebbe condotta. C’è la creator che sembra nutrirsi di soli legumi e salsa di anacardi, quella che mette lo yogurt greco pure sul tacchino, e infine la tipa che ultimamente è diventata viralissima dopo essersi filmata addentare un panetto di burro sulla strada verso l’ufficio come se fosse una barretta di muesli. È qui che risiede l’essenza della distinzione del Sé nel ventunesimo secolo: le routine alimentari, e più in generale di benessere, si presentano come l’unica scelta di vita significativa in grado di disegnare la traiettoria individuale di ciascuno nel mondo, ponendosi alla base dell’identità personale. E infatti dalla gestione dei pasti e dell’apporto nutrizionale, si passa a quella dell’intera esistenza. Una volta varcata la soglia dei reel sui diari alimentari, si può accedere a quelli che illustrano con dovizia di dettagli la micro gestione del tempo quotidiano con cui ogni creator affronta il vuoto dell’esistenza contemporanea.

Proprio come in The Sims le protagoniste dei video presentano la loro vita come una lunga lista di attività determinata dal ruolo che interpretano nella società (my daily routine as a corporate girlie o as a gym girlie o ancora as a work-from-home mom), per poi mostrare le proprie giornate susseguirsi tra mansioni e compiti domestici meticolosamente incastrati nel planning settimanale come i contenitori ermetici nei loro frigoriferi. 

La maggior parte dà prova della propria efficienza segnalando gli slot temporali che scandiscono gli intervalli tra ogni attività: workout in casa o nella palestra condominiale dalle 6 alle 7 di mattina, doccia e beauty routine fino alle 8, poi pancakes proteici accompagnati da uno smoothie, e alle 9 si apre il computer per lavorare da casa. Se la routine è pomeridiana, le azioni vengono svolte in ordine inverso: si chiude il computer, si fa uno snack salutare, skincare serale, yoga defaticante e si va al letto con un serie tv sull’iPad e una yankee candle accesa sul comodino. Del lavoro non c’è traccia, fatta eccezione per la scocca del portatile che si solleva o si abbassa. Nessun hashtag #Ilovemyjob, nessun momento di gratificazione professionale, nessuna traccia di burnout all’orizzonte. È la routine del nulla, fatta di quei momenti che fino a qualche anno fa avremmo definito le parentesi meno significative della vita di un individuo e che oggi invece simboleggiano un lifestyle a cui ambire. Non la vita di una rock star o il sogno di diventare infaticabili professionisti di successo: oggi non si chiede altro che una quotidianità immacolata, sterilizzata dai concetti di morte e malattia, ma anche di desiderio e passione. A ben guardare, i protagonisti e le protagoniste di questi video sembrano mettere in scena una versione un po’ più cool e giovanile di quella che immagino debba essere la vita in una casa di riposo. Si assumono pasticchette e frullati la mattina, si fa un po’ di posturale foderati in comode tutine, ci si rincoglionisce davanti alla televisione aspettando la morte. Gli slot di questi video indicano di rado un appuntamento fuori casa. Nessuno si sveglia la mattina del fine settimana a mezzogiorno in preda a un hangover, perché il weekend si gira il video del Sunday reset, dove si esibisce la propria routine di pulizia e si filma il cruciale momento in cui il frigo viene svuotato e stoccato con nuovi ingredienti freschi, bevande analcoliche e prodotti proteici.

Anche l’abbigliamento sembra un po’ quello di un ospizio chic. Se le case sono i nostri nuovi uffici, le tute di Kim Kardashian sono i nostri tailleur. La moda è esclusivamente athleisure – dalla fusione di athletic e leisure, ovvero un abbigliamento sportivo indossabile in qualsiasi momento – o sleepware, che funziona secondo lo stesso principio di decontestualizzazione, così ci si veste come se si fosse in pigiama ma non si è in pigiama, sono vestiti normali che assomigliano a un pigiama. L’estetica in realtà ambisce a essere quella di una celebrità paparazzata fuori dalla propria abitazione a Los Angeles mentre beve un caffè a portar via e accompagna il cane a fare i bisogni. Ma ancora, siamo soli nelle nostre case, ignorati dai vicini e dal resto del mondo, in qualche punto indefinito tra Lubecca e Caltanissetta da cui simuliamo un’esistenza fatta di eterno tempo libero.

“C’è vita oltre il trionfo dell’abulia? Esiste la possibilità di riscatto creativo? Di un ritorno delle passioni, un rinascimento ideologico? Baudrillard sosteneva che la società dei consumi dirotta i desideri dell’individuo canalizzandoli attraverso oggetti e tempo libero, con la promessa di colmare un vuoto”.

Una delle creator che ho iniziato a seguire nelle ultime settimane, l’unica che si reca ogni mattina in un vero e proprio ufficio e che non indossa un finto pigiama tutto il giorno, ha deciso di escludere dalle sue routine quotidiane il momento in cui si lava i capelli. Questo dettaglio, spesso ripreso dalle altre creator attraverso piccoli espedienti, come brevi frammenti in cui si passano lo shampoo o si avvolgono nell’accappatoio, nei suoi video è completamente assente. I suoi contenuti la mostrano durante la colazione, mentre si prepara per la palestra, quando si allena. Ma poi, come in un glitch, eccola di nuovo davanti allo specchio a farsi la skincare con i capelli raccolti in una coda. Nessuna traccia dell’insaponamento.

Dato che non vogliamo arrenderci all’idea che quello che vediamo online non corrisponda con precisione a quello che succede nella vita materiale, il pubblico ha reagito alle abluzioni mancate come si reagisce di fronte a un agghiacciante mistero. Per mesi, i post della creator hanno ospitato quasi esclusivamente commenti nello spettro tra il preoccupato e l’indignato lasciati dai follower allo scopo di far luce su quell’imperdonabile lacuna nella routine: ”Dov’è la doccia?”, ”Che fai non ti lavi?”, ”Ma tu i capelli non li lavi mai?”. Alla fine la creator ha dovuto pubblicare una comunicazione ufficiale per chiarire l’ovvio: i capelli se li lava, semplicemente preferisce non riprendere quel momento della sua giornata. Il caso viene dichiarato risolto, ma alcune risposte sotto il post lasciano trasparire una sottile insoddisfazione. Se alle influencer non è neanche più richiesto  di rappresentare status irraggiungibili e alimentare sogni di agio perpetuo, si degnassero almeno di farci sapere quando si lavano.

La scorsa settimana ero al centro commerciale. Cercavo quei pantaloni simil-pigiama da regalare a un’amica per il suo compleanno. Entro in un negozio fast-fashion in cui so di trovarli. Il locale è nuovo, la multinazionale ha ripensato di recente l’immagine dell’intera catena per aggiornare l’esperienza estetica offerta alle clienti, quindi ora invece di avere l’impressione di entrare in una discoteca per adolescenti arrapati sembra di essere nell’aldilà. Le pareti e le luci al neon bianche sono accecanti, è come fluttuare nell’etere circondate da capi athleisure sospesi a mezz’aria. È così che voglio immaginare la fine del mondo, o quantomeno la mia morte.

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C’è vita oltre il trionfo dell’abulia? Esiste la possibilità di riscatto creativo? Di un ritorno delle passioni, un rinascimento ideologico? Baudrillard sosteneva che la società dei consumi dirotta i desideri dell’individuo canalizzandoli attraverso oggetti e tempo libero, con la promessa di colmare un vuoto, sostituire una mancanza che la vita moderna ha certamente contribuito a creare. Ma il risultato non è mai appagante, lascia sempre un residuo a margine, che piano piano si tramuta in una nuova ricerca di tempo improduttivo da trasformare in svago, in vuoto occupato. La realtà è che oggi abbiamo riempito tutto lo spazio temporale che potevamo prenderci, non è rimasto un secondo libero  da routine e mansioni, da compiti e regimi. Siamo riusciti ad annullare il desiderio? Forse sì. Siamo avatar che simulano una vita assolvendo a bisogni primari e cercando di rimandare il più possibile il disfacimento organico. Sarà colpa del consumo, del capitalismo, dell’occidente. Intanto quella di yoga è l’unica classe che ci è rimasta e la vita altro non è che un lungo anno senza stagioni: la quotidianità è uno scroll infinito e tutto ciò che ci resta da fare è preservare il nostro guscio vuoto. A distinguere i giorni che ci separano dalla morte resta solo lo scarto tra il siero idratante del lunedì e quello rimpolpante del venerdì, la scheda di allenamento infrasettimanale e quella del weekend.

Priscilla De Pace

Priscilla De Pace scrive di cultura digitale e società. È autrice della newsletter “Una goccia” e del saggio Al centro dei desideri. Nostalgia, consumo ed estetiche digitali pubblicato per la collana Quanti (Einaudi, 2023). 

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