Lottare con tenerezza: l'autunno caldo a Torino nel racconto dei suoi artisti - Lucy
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Letizia Muratori

Lottare con tenerezza: l’autunno caldo a Torino nel racconto dei suoi artisti

Cosa rimane dell’utopia degli anni Sessanta? Le foto e i racconti degli artisti che hanno vissuto quel periodo movimentato a Torino raccontano la classe operaia in gesti piccoli, quotidiani e lontani dalle solite narrazioni.

Fino all’autunno del 2011 avevo frequentato Torino da scrittrice, ero stata al Salone, avevo tenuto un paio di lezioni alla Holden, presentato libri al Circolo dei lettori e alla Torre di Abele, firmato copie alla Luxemburg. La città incorniciava il mio paesaggio professionale. 

Le cornici sono inquadrature: elementi essenziali di un racconto in quel caso però prevaleva la loro funzione decorativa. Com’era Torino intorno alla mia vita di trentenne? Egizia, eclettica, horror, il set di Profondo rosso

E anche il suo tratto casermesco mi risultava piuttosto familiare perché a Roma vivevo in Prati, quartiere umbertino nato per accogliere le strutture amministrative del Regno d’Italia. 

La notte tra il 12 e il 13 settembre del 2011 ha segnato uno spartiacque esistenziale e affettivo. All’ospedale Sant’Anna di Torino è nato mio nipote, sono diventata zia e in qualche modo mi sono imparentata alla città. 

Nel frattempo andavo per i quaranta, mi ero trasferita a Milano e quasi tutte le settimane prendevo un treno, destinazione: Porta Nuova. Essendomi avvicinata a Torino e molto compresa nel ruolo di zia, davo una mano a mia sorella che in città lavorava da tempo e a tempo pieno. Con suo marito, un avvocato americano, avevano affittato un appartamento in via Giacosa. Aveva un suo fascino, parlo sempre per gli estimatori del genere parapsicologico, e il canone mensile ci sembrava basso. Proprio all’inizio della loro parentesi torinese, la giovane coppia si era sistemata in un sottotetto, sempre a San Salvario. Mio cognato che proviene da una famiglia italiana di New York, a Torino si sentiva, diceva, un po’ come i suoi bisnonni nel Queens: un emigrante. Con la differenza che il mondo in cui era sbarcato non era nuovo, a lui doveva apparire decrepito, eppure si era adattato bene a quel viaggio nel tempo, con entusiasmo. E anche noi romane lo eravamo: entusiaste di Torino, che sembra uno scherzo considerata la nomea della città così poco incline agli slanci. 

Nell’appartamento spiritista di via Giacosa c’era bovindo preraffaelita, pavimenti policromi, soffitti alti e stuccati. Dal punto di vista acustico quell’affare era un inferno. Il passaggio del tram faceva tremare i vetri sottili delle finestre che affacciavano su via Madama Cristina. E proprio sotto casa c’era un semaforo dotato di un dispositivo per non vedenti che emetteva continui simili a richiami ornitologici. Verso sera il traffico si allentava, soppiantato dagli schiamazzi, e alle quattro del mattino capitava che uno schianto di carrozzerie all’incrocio ti facesse spalancare gli occhi prima della coscienza. 

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Macchine e motori, tram e rotaie, a Torino non davano tregua. Non che Milano o Roma fossero più silenziose, ma ogni città promuove la sua storia. 

Durante il giorno avevo preso a frequentare parchi, asili nido e mercati, spingevo un passeggino su marciapiedi di viali e controviali di cui era impossibile immaginare la fine: linee in fuga che sembrava traforassero un orizzonte di montagne terso e opprimente. Queste allucinazioni ottiche me le faceva notare Dario Voltolini. Del resto io avevo occhi solo per il mio nipotino e orecchie assordate da rumorose memorie automobilistiche, così Dario era la mia guida in città. 

Per inciso Voltolini è uno scrittore apprezzato e riconosciuto, incredibilmente ostinato, caldo nella vita e chirurgico nelle opere. Non somiglia a ciò che scrive, ma è ciò che scrive. Un amico essenziale. Infatti è a lui che mi sono rivolta per avvicinarmi a una meta torinese che oggi appare lontana e inaccessibile quanto la fine di quei viali: l’Autunno caldo del ‘69. 

“Tanto per cominciare io lo snobbavo, perché nel ‘69 ero sulla Luna. I miei seguivano i notiziari, certo, ma io ero con Aldrin che scende dalla scaletta. Hai presente la fotografia, quel gesto?”. 

Tanto per cominciare Dario mi aveva dato una chiave: su quella Luna che era l’Autunno caldo, la fine e l’inizio di un altro mondo, potevo arrivarci nel modo più ovvio: selezionando alcune immagini significative e soprattutto raccontando i gesti, la mimica di quegli anni movimentati.  

“Spingevo un passeggino su marciapiedi di viali e controviali di cui era impossibile immaginare la fine: linee in fuga che sembrava traforassero un orizzonte di montagne terso e opprimente”.

I Voltolini non erano gente di fabbrica, ma di mercato. Il padre di Dario era macellaio come suo nonno e gli zii. Venivano dal Trentino dunque appartenevano alla prima ondata di immigrati a Torino, genericamente definiti veneti. I Voltolini avevano un banco a Porta Palazzo, forse più di uno, se la passavano bene ma non era affatto scontato. Come sempre con Dario, grande appassionato di esperimenti, all’origine di tutto c’era stato un errore: “Mio padre aveva richiesto la licenza per esercitare il mestiere e non si era accorto che gli avevano rifilato quella per gli agnelli. Sono diverse, sono due: c’è quella per agnelli, polli e conigli e quella per le carni bovine. Gli agnelli a Torino… che c’è da ridere? Gli agnelli veri, a Torino, si mangiavano solo a Pasqua. Per un agnellaio Porta Palazzo non era una buona piazza. La mia famiglia è stata salvata dall’arrivo dei meridionali che mangiavano agnello non dico tutti i giorni, ma spesso. C’erano tanti piatti, ricette, ricordo il budello arrotolato…”.

La famiglia trentina dei Voltolini era stata fregata dagli agnelli e salvata dai meridionali: una parabola, una favola, l’ennesima scheggia paradossale di una storia complicata, ognuno può leggerla a modo suo, tant’è che siamo arrivati al nodo cruciale dell’immigrazione: “Queste persone erano state chiamate a Torino per lavorare, servivano alla fabbrica, dunque alla città, e tutti glielo riconoscevano. Mia madre, che era piemontese, quando parlavo in dialetto e sbagliavo un accento mi diceva che ero un napule. Non dico che non ci fossero pregiudizi: io ero un napule perché mio padre non era piemontese, figurati. Ma, ripeto, nessuno metteva in discussione la presenza degli immigrati a Torino, era un tema che proprio non esisteva. Porta Palazzo era una babele di dialetti langaroli, calabri, pugliesi, l’italiano era l’inglese oggi, un inglese comunale. A proposito dei pugliesi, senti, a Barriera di Milano, c’è piazza Foroni, una piazza inventata, perché la città ha un po’ questo vizio di vedere piazze dove non esistono, non so se te ne sei accorta…  Piazza Foroni, ti dicevo, era diventata piazza Cerignola: in mano ai cerignolesi, nemmeno ai pugliesi. A scuola, nel periodo di massima emigrazione dal Sud, i miei compagni d’origine torinese saranno stati quattro. Era un mondo così, si conviveva in un regime di turni continui, eravamo in sovrannumero e così si andava a scuola anche il pomeriggio. In anni più recenti gli stranieri sono arrivati in Italia per lavorare, e lavorano, ma per tante ragioni sono stati percepiti come invasori, usurpatori”. 

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Questioni di propaganda, certo. Ma la politica agita e l’informazione terrorizza quando mancano gli strumenti di intermediazione e il lavoratore, immigrato o meno, è isolato.  

Per il momento torniamo al ’69. La lotta operaia, sindacale e studentesca, forze per la prima volta alleate, hanno portato allo Statuto dei lavoratori: una grande conquista che di fatto è ancora oggi l’ossatura alla base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro. Cosa c’era prima, come ci si muoveva? 

Avendo sempre in testa quell’idea di procedere attraverso alcune immagini, mi sono rivolta a un autorevole testimone oculare: Mauro Vallinotto. Torinese, fotografo di gran classe, attento cronista, photoeditor. Nel corso della sua carriera Vallinotto ha lavorato a «L’Espresso», a «Panorama», al «Venerdì» e a «La Stampa».

A luglio, perché l’autunno caldo è iniziato d’estate, Vallinotto ha documentato i primi scontri in corso Traiano e ha seguito l’intera stagione che è durata almeno un decennio. A chi volesse dare un’occhiata al suo lavoro, consiglio di procurarsi Torino ’69 (Laterza, 2019). Oltre alle fotografie di Vallinotto ci sono i testi di Ettore Boffano e Salvatore Tropea che raccontano i fatti, gli antefatti, le code e le prospettive di quel momento che ha cambiato tutto. Tutto cosa? 

Partiamo da un’immagine del 1971: siamo fuori dallo stabilimento di Rivalta, su una strisciolina di prato che forse andrebbe bene per i cani c’è un uomo seduto che si porta le mani alle tempie, coprendosi il viso. È un operaio in “pausa fisiologica”. Prima del famoso Statuto non esisteva. Vallinotto sintetizza: “Durante l’Autunno caldo hanno ottenuto il permesso di andare in bagno”. 

Prima te lo doveva accordare un caporeparto e dipendeva da che tipo fosse, il caporeparto. Alcuni operai CISL lo ottenevano immediatamente, quelli della FIOM faticavano un po’. Molti non ci provavano nemmeno, e si tenevano accanto un bottiglione in cui facevano la pipì. Ecco, un gesto piuttosto eloquente. 

A parte il bottiglione, il ritmo sulle linee di produzione era selvaggio. Allora –  mi racconta ancora Vallinotto –  si lavorava con le auto sospese e gli operai restavano ore a braccia tese e sollevate o in ginocchio sui telai. La pausa fisiologica era un momento di decompressione in una catena di interventi ripetitivi e automatismi fantasmatici da Tempi moderni

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I turni erano tre: 6.00 – 14.00/ 14.00 – 22.00/ 22.00-6.00. Ho chiesto a Vallinotto quale fosse il più pesante: lo erano tutti, anche per via degli spostamenti. La fabbrica la dovevi raggiungere. Gli operai che venivano, mettiamo, dal cuneese o dall’alessandrino –  nel ‘69 erano la maggioranza –  prendevano il treno. Per essere al lavoro alle 6.00 si svegliavano come minino alle 4.00. Quelli che abitavano in città si spostavano in tram, o in bicicletta. Alla stazione di Lingotto c’erano le navette, fatte per la Fiat e pagate dal comune. Il terreno non era asfaltato, gli operai avanzavano evitando enormi pozzanghere, tutti stringevano la loro decorosa cartella di pelle. Ci tenevano il pranzo, spartito nei piani del barachin e una bottiglia col tappo a molla, perché no, ancora non c’era la mensa. A Mirafiori si mangiava direttamente sulla linea, a Rivalta pare ci fosse uno spazio deputato. Stiamo parlando di venticinque minuti di pausa in cui si doveva mangiare, bere,  fumare.  

Andando e venendo dalla Fiat si dormiva ovunque: sui sedili del tram, sulle panche in stazione, quei tragitti erano preziose riserve di sonno. Vallinotto seguiva gli operai all’ingresso e all’uscita, saliva con loro sui mezzi. Certe immagini di teste abbandonate, spente, sono documenti potenti, soprattutto immediati nel comunicare il senso delle battaglie sulla riduzione delle ore. Una Torino chapliniana, secondo Vallinotto. Voltolini: “Anche un po’ giapponese”. 

Tre turni e, in stazione, due binari. La linea incandescente era la Torino-Genova-Roma: veniva assaltata. Vallinotto ha scattato diverse fotografie che ritraggono operai che si arrampicano sul vagone direttamente dal lato nudo dei binari. Possibile che non ci fosse nemmeno la banchina? C’era. Ma da quel lato la ressa era tale che alcuni uomini sfiniti si facevano coraggio e prendevano una rischiosa scorciatoia pur di conquistare un posto a sedere sicuro. Aggrapparsi, salire, finalmente crollare.  

Qualche anno fa mi è capitato di tenere un paio di lezioni in carcere, all’appello rispondevano molti uomini e poche donne. Mi ero fatta l’idea che fossero più interessati alla lettura, dato in controtendenza con le statistiche nazionali, finché l’operatrice che organizzava quegli incontri non mi ha aperto gli occhi: le donne sono di meno, nelle celle femminili c’è più spazio, dunque non colgono tutte le occasioni per venirne fuori. 

“Andando e venendo dalla Fiat si dormiva ovunque: sui sedili del tram, sulle panche in stazione, quei tragitti erano preziose riserve di sonno”.

Con questo non voglio dire che la Fiat fosse un gigantesco sistema carcerario, ma c’era bisogno di evadere dalla prigione del proprio corpo stanco, e anche qui ogni occasione era buona. Puntando l’obiettivo sulle retrovie delle manifestazioni, ai margini della scena ufficiale, coglievi sempre qualcuno disteso su un fazzoletto di terra con le solite mani sul viso: in decompressione, stato in cui il sollievo ruba la mimica alla disperazione.  

A questo proposito, svetta e commuove uno scatto quasi svagato: durante una riunione sindacale per il rinnovo del contratto, due giovani operaie ne approfittano per farsi i fatti loro, sono sedute su un praticello, perfino fiorito, una stringe una limetta per le unghie e l’altra le tende la mano.   

Vallinotto ha fotografato lavoratori di cui non conosciamo nome e cognome e sono loro i protagonisti della scena di quegli anni, che però non poteva escludere camei divistici. Gianni Agnelli: “Sempre col mento al vento”, mi fa notare il grande fotografo e osservatore pungente e sottile. Agnelli appare sempre e ovunque come fosse al timone della sua barca, tranne in un’occasione dove è spaesato, addirittura goffo. Siamo nel ’69, l’Avvocato sta uscendo dal Salone dell’automobile, seguito da un cugino Nasi, con lo sguardo cerca l’autista incaricato a prelevarlo in un contesto, appunto, caldo. Alle sue spalle c’è un operaio accucciato in un angolo, ha appena finito di mangiare e anche di fumare, non pare molto colpito dall’apparizione di Agnelli, anzi, se ne frega. In quell’istante di confronto ravvicinato con la ciurma, l’Avvocato si trasforma nella sua ridicola controfigura: Giuanin Lamiera, il nomignolo canzonatorio che gli era stato affibbiato dagli operai piemontesi. Eppure in molti si misero in fila nel 2003 per rendergli l’ultimo saluto, forse tra loro c’era anche qualcuno che ai tempi aveva gridato lo slogan: “Agnelli e Pirelli ladri gemelli!”, può darsi. Qualcosa gli andava pure riconosciuto, circostanze in cui l’interesse del padrone aveva coinciso con quello degli operai, ad esempio la mutua aziendale. 

“Svetta e commuove uno scatto quasi svagato: durante una riunione sindacale per il rinnovo del contratto, due giovani operaie ne approfittano per farsi i fatti loro, sono sedute su un praticello, perfino fiorito”.

Certo Agnelli non era la Fiat e nemmeno gli operai erano la Fiat, la Fiat li comprendeva. 

Li comprendeva a Torino, la città delle piazze inventate, ma, sottolinea Vallinotto, anche dei santi sociali, alla don Bosco. Uno di loro era il sindaco Diego Novelli. Dopo anni di amministrazioni democristiane, di destra e di sinistra, immediatamente a ridosso del massimo sviluppo demografico della città, nel ’75 vince Novelli, un comunista. L’autunno caldo sembrava una primavera, forse un po’ freddina. Novelli era- è, oggi ha novantadue anni – persona profondamente perbene di cui si è perso lo stampo. Sorrideva poco, e qualcuno lo chiamava crisantemo. Abitava a Borgo San Paolo, il quartiere operaio per eccellenza, ti accoglieva in maniche di camicia, misurato e pragmatico. L’elezione di Novelli certo dava speranze a chi aveva una visione operaista che non poteva non affondare anche nelle maglie dell’amministrazione cittadina. 

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In seguito, alcuni gli rimprovereranno una visione troppo conservativa e torinocentrica;si oppose alla costruzione della nuova linea metropolitana, di cui si discute ancora, affermando: “Non serve, c’è il tram”. Il solito, immortale, tram. Forse Novelli non pensava in grande, ma è difficile farlo quando ci sono danni da riparare,  buchi da tappare. Il dilemma tra uno slancio urbanistico rinnovatore e la realtà delle risorse in campo, i rischi di corruzione, è ancora molto attuale, su scala nazionale. Anche qui, c’è una fotografia, un bel ritratto del sindaco, assorto e a mento basso. Spavalderia e pragmatismo controllato: Agnelli e Novelli, due volti torinesi del dopoguerra.     

Di nuovo sulla Luna, quella in cui viviamo, avvinghiati a un satellite più o meno virtuale in cui pare che certi traguardi, tipo andare in bagno, siano scontati o superati, è utile spendere due parole sul processo di intermediazione. 

Se a Mirafiori servivano tre uomini su una linea interveniva l’addetto del sindacato che faceva il suo: mediava. Nel contesto della grande industria questo processo c’è ancora, non è smantellabile.  

Se è vero che i padroni odierni non sappiamo come si muovano, non sappiamo nemmeno chi siano, e ci regalano scatti opachi e sfuggenti, è certo che se li lasci fare pezzo dopo pezzo spostano tutto, però c’è ancora una legge che rende le procedure di dismissione di uno stabilimento molto onerose. 

A Mirafiori erano in tanti ora sono gli esemplari di una specie protetta. Ma la tutela dei diritti per cui si lotta da prima del ‘69 ha ancora valore, il doppio del valore in un contesto produttivo frammentato di finti lavoratori autonomi che non hanno rappresentanza. 

Non mi pare che in giro siano scomparsi i segni della fatica, della pressione, tanto meno i divismi, le paralisi amministrative, i debiti ereditati, le imprese in perdita,  gli spacconi. La classe operaia non esiste più, è ovvio. C’è altro, e le persone non saltano più sui treni dal lato dei binari, ma sui gommoni. I gesti quotidiani sono sempre più estremi. 

“Se è vero che i padroni odierni non sappiamo come si muovano, non sappiamo nemmeno chi siano, e ci regalano scatti opachi e sfuggenti, è certo che se li lasci fare pezzo dopo pezzo spostano tutto”.

L’ultima immagine su cui vorrei soffermarmi è di Tano D’Amico. Con Letizia Battaglia e Uliano Lucas è uno dei più importanti fotoreporter italiani. Non ho selezionato la migliore delle sue foto, nemmeno la più emblematica e meglio composta dalla serie sull’occupazione del 1980. Ma è una foto unica: due operai seduti, leggermente sfalsati, da dietro il più giovane abbraccia il meno giovane, gli cinge il collo con le braccia, l’altro gli si rivolge sorridente dal basso. A quel sorriso manca un incisivo. 

Anche l’affetto segue le sue mode, e questa mimica disarmata da sciopero, da prato, da concerto rock, forse non esiste più. Però ci ricorda che si può resistere e lottare con tenerezza.    

Letizia Muratori

Letizia Muratori è scrittrice e giornalista. Il suo ultimo libro è Una vita da donna (La Nave di Teseo, 2022).

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