Ester Viola
Nell’epoca della visibilità permanente, il rapporto fra reputazione e professione si fa sempre più complesso. E il caso della maestra licenziata per il suo profilo OnlyFans dimostra che nemmeno il diritto ha una risposta chiara.
La storia sarebbe questa. Una maestra di scuola materna gestisce anche un profilo Onlyfans. Uno dei genitori degli alunni invia nella chat di gruppo di classe le foto che ha trovato (comprato?). Queste foto, insieme alle proteste, arrivano alla direzione della scuola (un istituto paritario cattolico), che decide per il licenziamento della maestra.
La maestra, nelle successive dichiarazioni ai giornali, dice che lei in quella scuola non ci torna, probabilmente impugnerà il licenziamento, e siccome è una causa di quelle a esiti molto incerti, su consiglio unanime di tutti gli avvocati la vertenza si chiuderà in brevissimo tempo con un accordo transattivo, come normalmente oggi si definiscono i licenziamenti.
Il valore medio di una discreta transazione è – per le aziende – pagare una intera annualità per la rinuncia al ricorso. È l’accordo che scontenta tutti e quindi è l’accordo buono. Nel frattempo la lavoratrice percepirà la Naspi. Intanto mi auguro bene stia capitalizzando la copertura stampa per accumulare molti abbonamenti di quelli innocui e poco impegnativi, 5 euro per foto mediamente scoperte. Supponiamo abbia ricevuto 20.000 richieste. Se l’imprenditoria digitale farà bene il suo miracolo si tratta di centomila euro in poche settimane, con un moltiplicatore per più mesi. Viene fuori una cifra molto superiore all’intero TFR di un professore. Questi miei conti da terribile serva sono necessari per indignarsi di meno e partecipare poco umanamente alla vicenda. Per dire insomma che si può star tranquilli, nessuno finirà in rovina. Ripulita la vicenda dalle variabili soggettive (il povero lavoratore e quello stronzo del datore) possiamo occuparci con maggiore obiettività del caso di scuola.
Passiamo dunque dal particolare (i personaggi della storia) al generale (la storia) per farci qualche domanda utile per il futuro del lavoro, che sempre più prevederà forme ibride di reddito e arrotondamenti Onlyfans. È questa la nuova economia, arriveranno generazioni per le quali l’uso del corpo come cambio merce (per soldi) è dato neutro e indifferente, abituiamoci.
Quindi: cos’è questo licenziamento? Come si qualifica nella letteratura giuridica? E soprattutto perché è così interessante per chi studia la materia?
La domanda tecnica è la seguente: possibile nel regno del diritto sia sostenibile un licenziamento per atteggiamenti extraprofessionali sgraditi? Cosa c’è da sapere su quello che io pubblico sui miei account? Devo davvero preoccuparmi di conseguenze sul piano professionale?
La prima risposta sbrigativa, vedendosi costretti a un sì o un no, è sì. La magistratura ha deciso che i social network – qualsiasi forma di piattaforma ad accesso potenzialmente illimitato – sono da considerare luogo aperto al pubblico.
È di quindici anni fa la prima sentenza che stabilì il carico di responsabilità: l’autore di post social consideri sé stesso come un direttore di giornale. Tribunale di Monza, Sez. IV, n.770/10: “Coloro che decidono di diventare utenti [di social network] sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono: rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto”.
Anche il settore pubblico scelse la stessa strada. Circolare del Ministero della Giustizia 20.02.2015, n. 110050, un solo articolo: Precisazioni sull’uso dei social network da parte del personale dell’Amministrazione.
“Si ricorda che il diritto di manifestazione del pensiero e di critica in costanza del rapporto di lavoro soggiace a determinati limiti”.
“Allorché il profilo privacy scelto e adottato dal lavoratore consente la visualizzazione dei suoi post, commenti, video e foto, anche ad una cerchia di utenti aperta e sostanzialmente indeterminabile, il dipendente soggiace a valutazioni di ordine deontologico e ad azioni di responsabilità disciplinare quando integri una lesione del rapporto fiduciario che lega il dipendente all’Amministrazione”.
Di lì vennero le social media policy, regolamenti semi-disciplinari per aziende. Dettano i principi generali – etici, perlopiù – agli impiegati per postare tranquilli.
Per la difesa: è assurdo.
Per l’accusa: insomma. Il diritto del lavoro è il più sensibile. È spugnoso, inafferrabile, cambia idea. Invecchia e fa errori. Non si discute mai soltanto di fatti: si discute di intenzioni, di fiducia, di contesti. Non si valuta la colpa, ma la rottura di un’intesa. Il danno all’equilibrio che regge una relazione professionale.
Così, quando arriva la notizia di una maestra licenziata da una scuola cattolica per via di un profilo OnlyFans – foto, video e contenuti esplicitamente sessuali accessibili su abbonamento – il diritto si irrigidisce. Non c’è una norma, in fondo, che dica chiaramente cosa si può o non si può fare nudi online. Quello che c’è, invece, è vincolo fiduciario. La norma non scritta ma valida. Il legame di reciproco interesse a lavorare assieme. Se si spezza, adieu.
Per la difesa: il buon costume? Di questo si parla? E l’articolo 21 della Costituzione? Quello che ostinatamente continua a ripetere il principio inviolabile della libertà, anche di farsi giudicare male?
Per l’accusa: non si può essere tutto. C’è una linea, sottile ma di ferro, tra la libertà e il ruolo. La maestra ha un profilo su OnlyFans. Non un inciampo notturno, ma un’attività strutturata: set fotografici, piano editoriale, abbonamenti mensili. Un secondo lavoro, insomma. Dunque: si può licenziare per “lesione del vincolo fiduciario”? Certo che sì. Chi firma un contratto, firma anche un patto implicito: che la propria condotta, anche fuori orario, non saboterà la reputazione del datore.
Per la difesa: ma il corpo è suo. L’identità digitale pure. E l’algoritmo non è un datore di lavoro. La maestra non ha violato leggi. I contenuti erano visibili solo a chi pagava – e quindi, se vogliamo essere più precisi di così, il genitore indignato non era un osservatore accidentale, ma un abbonato.
L’art. 21 della Costituzione garantisce la libertà d’espressione. E se un contratto deve essere subordinato al rispetto di un catechismo morale implicito, che cosa resta della democrazia nei luoghi di lavoro?
Persino la Cassazione riconosce che la libertà d’espressione va protetta, anche quando è dissacrante. E qui nessuno ha provato che la maestra abbia gettato fango sulla scuola, danneggiato gli alunni, turbato l’ordine costituito. Ha solo fatto ciò che molti fanno: mostrarsi. In un contesto erotico. Dove peraltro si esibiscono tutti, parimenti ignudi, basta aprire instagram che è zozzo uguale. Si chiama internet, è il nuovo ordine mondiale.
Per l’accusa: ma la scuola è una istituzione educativa. Chi insegna – gli piaccia o no – è anche modello. Chi rappresenta l’autorità scolastica è tenuto a preservarne la dignità. Le foto porno sono foto porno, chiamiamole col loro nome. Non si tratta di censura, ma di coerenza. Un docente che affida la propria immagine a un mercato sessuale, inevitabilmente disorienta.
Le decisioni della Cassazione confermano: “il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario” 31 luglio 2015, n. 16268. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 1252 del 6 giugno 2024, ha chiarito che il comportamento extralavorativo può essere motivo di licenziamento se viola i principi di correttezza e buona fede, compromettendo l’immagine dell’istituzione scolastica.
Per la difesa: la maestra ha un contratto per l’insegnamento, non per la rassicurazione simbolica dei genitori.
E non ha compiuto illeciti, la maestra. La prima sentenza, 16268/2015, si riferisce ad illeciti con ricadute penali. Maltrattamenti in famiglia, spaccio di sostanze stupefacenti, reati. Reati. Fotografarsi in costume adesso è reato, quindi?
Domandiamoci meglio: che cos’è la reputazione? Un bene reale o un riflesso condizionato? Una costruzione collettiva? Dipende dall’attività, se garba o non garba?
Se la maestra avesse avuto un profilo chiuso, nessuno avrebbe saputo nulla. È la scoperta – e la successiva indignazione – ad aver trasformato un fatto irrilevante in un problema giuridico. È la reazione collettiva ad aver generato la frattura.
Non si può essere licenziati per moral panic. Altrimenti basta una condivisione involontaria per compromettere anni di lavoro. Basta uno screenshot, un algoritmo sbagliato. Se il lavoro diventa incompatibile con la libertà privata, allora siamo già oltre il patto di lealtà: siamo al patto di obbedienza.
E torniamo al punto: che cos’è la reputazione? Una convenzione. Una narrazione pubblica.
E cosa accade quando il danno di immagine è provocato non dalla condotta in sé, ma dalla reazione sproporzionata che ne segue? È la gogna, non la collezione di foto nude, ad aver rotto il vincolo fiduciario. Se si ritiene possibile licenziare perché si è oggetto di scandalo bisogna esplicitarlo, si chiamano clausole morali. Hollywood anni ’50.
La verità, come sempre, non sta da nessuna parte.
C’è una questione giuridica che per decenni è stata tenuta sotto vago silenzio e il legislatore, a ragione, ha preferito non tradurre in nessuna norma. Cos’è questo minimo etico di cui tanto si parla nei libri di dottrina e che tiene in piedi il vincolo fiduciario del rapporto di lavoro?
Nessuno sa dirlo. Produrre contenuti pornografici e venderli rientra in quale diritto? Libera espressione. E quanto dev’essere libera, la libera espressione? Come si fa se un’azienda rischia una facile sovrapposizione e quindi un danno difficilmente evitabile con un semplice “ci dissociamo”?
Ha le carte, questo, per diventare uno dei problemi non troppo minori del diritto del lavoro dei prossimi anni. Allo stato attuale, nessuno ha deciso bene da che parte stare e i giudici raccomandano conciliazioni della vertenza, anzi quasi costringono le parti all’accordo economico in prima udienza, che evita ogni presa di posizione. Perché alla fine chi la vuole scrivere, una sentenza su questi tempi sbandati? Chi la riconosce la verità, ma pure soltanto il modo giusto di vedere le cose?
Ester Viola
Ester Viola è avvocata, giornalista di costume, scrittrice. Il suo ultimo libro si intitola Voltare pagina. Dieci libri per sopravvivere all’amore (Einaudi, 2023).
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