Ivan Carozzi
10 Settembre 2024
ll confine tra fisica quantistica, spiritualità e filosofia, quello di Federico Faggin – padre dei microprocessori – è un percorso intellettuale unico.
Per chi non conosce la storia di Federico Faggin, il mio consiglio è di partire dalle foto. Sul sito della fondazione omonima troviamo i ritratti di famiglia, ma anche il dettaglio dei microprocessori progettati da Faggin, così irti di linee rette e intersezioni, così impersonali ed ermetici, da mettere perfino un po’ di soggezione.
La mia foto preferita è quella scattata nel 1969, dove Faggin e la moglie Elvia posano di fronte a una Chevrolet Impala bianca. Si trovano in un luogo della Terra ancora poco conosciuto, Cupertino, in quella che era la “Santa Clara Valley”, non ancora “Silicon”. Un’altra foto mostra Faggin adolescente, mentre esibisce con orgoglio una sua creazione: un modellino di aeroplano, sottile ed elegante come un airone. Siamo a Vicenza (si intravede sullo sfondo un manifesto dell’acqua Recoaro), tra il dopoguerra e il boom. E poi un’ultima immagine, a colori: Faggin e Barack Obama, nel 2010, durante la cerimonia alla Casa Bianca per l’assegnazione della National Medal of Technology and Innovation.
Federico Faggin è un fisico, un inventore e un imprenditore di quasi 83 anni, molto ben portati. La sua fama internazionale è dovuta allo sviluppo della tecnologia “silicon gate” e alla progettazione nel 1971 di quello che è considerato il primo microprocessore della storia, l’Intel 4040 (su un angolo, come nel piedistallo di una scultura, sono incise le iniziali FF). Nel 1986 Faggin fu tra i fondatori della Synaptics, azienda pioniera nello studio della tecnologia touch screen. Pare che Bill Gates abbia dichiarato che senza Faggin la Silicon Valley sarebbe rimasta una semplice valley.
“I libri di Faggin si distinguono per l’uso di un lessico di nuovo conio e dal sapore fantascientifico (si parla di qualia, nousym, seity, CIF, UC, spazio-C, spazio-I), infarcito da uno spezzatino di citazioni che vanno da Erwin Schrödinger a Papa Francesco”.
L’intervista a Faggin che seguirà fra qualche paragrafo è solo un piccolo assaggio di una biografia e di un percorso intellettuale molto particolari, che possiamo dividere in due parti (per approfondire ci sono le tante conferenze di Faggin su YouTube e i tre libri che ha scritto negli ultimi anni: l’autobiografia Silicio nel 2019 e i due saggi Irriducibile, del 2022, e Oltre l’invisibile, del 2024). Della prima abbiamo appena accennato i momenti salienti. La seconda metà inizia invece nel 1990. Durante una vacanza invernale con la famiglia sulle sponde del Lake Tahoe, sulla Sierra Nevada, Faggin vive un’esperienza di carattere trascendentale.
“Mi svegliai verso mezzanotte perché avevo sete. Tornato a letto, mentre mi accingevo a addormentarmi, di punto in bianco sentii un fascio di energia potente sgorgare con forza dal mio petto. Era una luce bianca, scintillante, fatta di amore, gioia e pace […] Quel giorno sperimentai me stesso come il mondo che osserva se stesso con il mio punto di vista. Ero sia l’osservatore sia l’osservato. Non ero più un corpo separato dal mondo, come avevo sempre pensato. Ero invece un punto di vista del Tutto con cui il Tutto può conoscere se stesso. L’essenza della realtà mi si rivelò come un’energia che conosce se stessa nella sua autoriflessione, e il suo autoconoscersi ha il sapore di un amore irreprimibile e dinamico”. (Oltre l’invisibile, pag. 56).
A partire da questo episodio, Faggin inizia a interrogarsi sulla natura della coscienza e della materia come non aveva mai fatto in vita sua. Vent’anni più tardi, nel 2011, crea insieme alla moglie la Fondazione Faggin, organizzazione senza scopo di lucro dedicata allo studio scientifico della coscienza.
Che cos’è la coscienza? Non è certamente un’estensione misurabile, come avrebbe ritenuto il Faggin pre-Lake Tahoe, riduzionista e materialista. È semmai un mezzo attraverso il quale l’universo osserva sé stesso. Faggin chiama l’universo “Uno”. La domanda sulla coscienza e i fondamenti dell’universo diventa il centro dei suoi libri e delle conferenze, dove prende corpo una riflessione avvincente, al confine tra fisica quantistica, spiritualità e filosofia.
I libri di Faggin si distinguono per l’uso di un lessico di nuovo conio e dal sapore fantascientifico (si parla di qualia, nousym, seity, CIF, UC, spazio-C, spazio-I), infarcito da uno spezzatino di citazioni che vanno da Erwin Schrödinger a Papa Francesco e da Sant’Agostino a Jawaharlal Nehru.
C’è poi un fatto sorprendente, che si colloca, per così dire, alle spalle di Faggin. Il padre del padre del microprocessore, infatti, era Giuseppe Faggin, filosofo, storico della filosofia, studioso del neoplatonismo, di mistica e tradizioni occulte, noto per aver tradotto per la prima volta dal greco in italiano le Enneadi, opera del neoplatonico Plotino.
Al contrario del padre, Federico Faggin non si è mai occupato di filosofia. Quando era un ragazzo era attratto più dai transistor che da Parmenide e anche da adulto la filosofia non è mai diventata l’oggetto esclusivo del suo interesse. Eppure nei libri che Faggin ha iniziato a scrivere nell’ultima parte della sua esistenza, riecheggiano spesso la concezione dell’universo di Plotino e la riflessione di alcuni filosofi amati dal padre, come se un po’ di quella sapienza, chissà, si fosse in qualche modo travasata nel figlio, durante l’infanzia e l’adolescenza.
Lei è cresciuto a Isola Vicentina in un’epoca che ha definito ancora preindustriale e agricola…
Sono nato in città, a Vicenza, poi nel 1943, con lo sbarco degli alleati in Sicilia, i miei genitori decisero di tornare nella casa dei nonni paterni, a Isola Vicentina, dove la quotidianità era ancora quella della civiltà contadina e preindustriale. Gli aratri erano trainati dai buoi e molte case coloniche non avevano acqua corrente né luce elettrica. Si viveva come duecento anni prima. Ricordo i filò, le veglie invernali che si tenevano nelle stalle alla luce delle lampade a petrolio, e poi la prima schiacciasassi arrivata per asfaltare la strada provinciale che da Vicenza portava a Schio e poi su verso il massiccio del Pasubio. Si parlava ancora in dialetto, compresi i miei genitori, nonostante mio padre fosse insegnante di storia e filosofia al liceo classico di Vicenza. Ho iniziato a sentire parlare l’italiano solo andando a scuola.
Come accadde che si appassionò allo studio della fisica?
Fin da bambino nutrivo una grande amore per gli aeromodelli e per le macchine in generale. Già a cinque anni, volevo capire come funzionavano le macchine. Sono nato meccanicista. Con un certo dispiacere da parte di mio padre, che avrebbe preferito un liceo classico o scientifico, mi sono iscritto all’Istituto Rossi di Vicenza, dove ho studiato radiotecnica. Mi sono appassionato all’elettronica e soprattutto ai transistor, che erano in commercio fin dai primi anni Cinquanta. I transistor e i computer erano la grande novità del tempo.
E poi inizia la sua vita adulta, con il primo lavoro in azienda…
Sono entrato in Olivetti subito dopo il diploma, un anno dopo la morte di Adriano. Ho lavorato alla divisione elettronica Olivetti di Borgolombardo, che si trovava vicino a San Donato Milanese. Sono stato assunto dal celebre Mario Tchou, l’ingegnere e informatico di origine cinese. Per tutto il 1961 ho lavorato al progetto e alla costruzione di un piccolo computer con memoria magnetica, dove a ogni toroide corrispondeva un bit di memoria. Era una sorta di potente calcolatrice elettronica programmabile, un oggetto molto, molto ingombrante, certo non qualcosa che si potesse appoggiare sulla scrivania di un ufficio. In seguito ho studiato fisica a Padova, dove mi sono laureato nel 1965 “summa cum laude”. Infine, grazie al lavoro con un’azienda americana, SGS Fairchild, sono finito a lavorare per sei mesi in California.
Com’era la California che ha conosciuto lei, nel 1968? Che tipo di ambiente e società aveva trovato?
La maggior parte del fermento era concentrato a Berkeley, ma io ero all’oscuro di quel che accadeva lì. Ero impegnato a imparare l’inglese ed ero completamente assorbito dal mio lavoro e dal mio progetto. Inoltre mi ero appena sposato. Praticamente ero in luna di miele.
Lei ha aperto la sua prima azienda a cavallo della grande crisi energetica del 1973. Che cosa ha significato fare l’imprenditore nel settore elettronico e informatico nell’America dei primi anni Settanta?
Nel ’74-’75 non c’erano più soldi, file e file di macchine ai distributori, carenze di benzina, insomma un anno molto difficile. I soldi in realtà non erano spariti, ma nessuno aveva più il coraggio d’investire. Io e il mio socio di allora ci eravamo messi a cercare finanziamenti in uno dei passaggi più critici nella storia del venture capital. Nel 1975 l’intero investimento di venture capital, non nella Silicon Valley ma in tutti gli Stati Uniti, ammontò a 10 milioni di dollari. Una somma che corrisponde più o meno al primo investimento per una start up di oggi. La nostra intenzione era di finanziare un nuovo progetto nel campo dei microprocessori. Riuscimmo a trovare 500.000 dollari grazie a un fondo d’investimento e così nacque Zilog, la prima ditta dedicata esclusivamente alla progettazione di microprocessori, dalla quale uscì il famoso microprocessore Z80. Le cose però non andarono del tutto nel verso giusto Il fondo d’investimento, infatti, a nostra insaputa si era servito di noi all’interno di una manovra più ampia di competizione con IBM. Quando arrivò il momento di vendere i microprocessori, probabilmente i migliori al mondo in quel momento, l’IBM preferì comprare quelli prodotti da Intel, piuttosto che foraggiare un proprio avversario.
Leggere i suoi libri, compreso l’ultimo Oltre l’invisibile, è un’esperienza molto interessante, non solo per quello che dicono, ma per come lo dicono. Sono ricchi di termini seducenti, come “qualia”. Che cosa significa e qual è l’origine della parola?
È un termine che ho mutuato da David Chalmers, un filosofo australiano. Indica le sensazioni e i sentimenti con cui noi comprendiamo la realtà, il significato di ciò che esperiamo delle cose. Un quale (plurale, qualia) è il sapore di una ciliegia o il sapore della cioccolata. La realtà dei qualia non può essere ridotta a un puro segnale elettrico. Il sapore della cioccolata non può esclusivamente coincidere con un pugno di segnali elettrici. Così come l’amore, i qualia che provo per un figlio, non possono essere ridotti a un segnale elettrico o a una misura. Non ha senso, a mio avviso. Lo dico a partire da una riflessione che ho fatto molti anni fa, provocata da un’esperienza personale vissuta nel 1990, mentre ero in vacanza con la mia famiglia. Fino ad allora sono stato un materialista, avevo accettato la visione materialista e riduzionista della fisica, che descrive la realtà e la stessa coscienza come semplice meccanismo. Certamente il fenomeno della coscienza passa anche per i segnali elettrici e biochimici del cervello, ma non si esaurisce in quel fenomeno. I bit sono misurabili, sono numeri, ma i qualia non sono numeri. Sono qualcosa di più e di altro e io l’ho scoperto attraverso questa esperienza che mi ha cambiato la vita.
C’è una parola per definire quello che è accaduto quella notte? Epifania? Visione? Rivelazione? Esperienza mistica?
È un’esperienza di conoscenza diretta. Mi ha mostrato innanzitutto la differenza tra una forma di conoscenza diretta e profonda delle cose e forme di conoscenza più mediate, come può essere la lettura di un libro o il significato di un simbolo. L’esperienza diretta è più potente e completa anche di una prova logica.
Che cosa significa invece una parola che lei stesso ha coniato e che ricorre lungo tutto il suo Oltre l’invisibile, cioè “nousym”?
“Nousym” è una crasi tra la parola greca “nous”, intelletto, e l’inglese “symbol”. Indica l’unione tra l’aspetto simbolico e semantico della realtà. Simbolo e significato sono due aspetti di quella energia più profonda e fondamentale che si manifesta come informazione quantistica.
Scritto con la N maiuscola, Nousym è invece la disciplina che unisce scienza e spiritualità, interiorità ed esteriorità. L’interiorità è rappresentata dal nous e l’esteriorità è rappresentata dal simbolo. E questo si connette con una delle conclusioni più profonde della fisica quantistica: le particelle non sono oggetti afferrabili, isolabili, ma stati dei campi quantistici. Sono forme che esistono nello stesso modo in cui esistono le onde del mare.
L’onda del mare è uno stato del mare e non si può separare dal mare. È una struttura integrata, che fa parte del mare. Quindi le proprietà dell’onda derivano dalle proprietà del mare. Lo stesso si può dire di un elettrone: un elettrone è uno stato del campo degli elettroni. Non può essere separato dal campo. Non esiste indipendentemente dal campo. L’ontologia è nel campo, non nell’elettrone. La fisica quantistica ci mostra che tutto è interconnesso. I campi dipendono da un campo unificato che però i fisici non hanno ancora scoperto e che io chiamo “Uno”. A queste considerazioni dei fisici quantistici, io aggiungo come postulato che il campo è cosciente e ha libero arbitrio, visto che coscienza e libero arbitrio non si possono spiegare con nulla che sia privo di queste proprietà.
Nel suo libro ho incontrato un’espressione, poetica e paradossale, che ho cerchiato a matita e che nel testo è scritta in corsivo: “l’interiorità dell’universo”.
La fisica quantistica rappresenta l’interiorità dell’universo, rappresenta i qualia e il loro significato, ma la rappresentazione dei qualia non è la conoscenza dei qualia, dall’interno dei campi coscienti. I qualia possono essere conosciuti solo nell’esperienza diretta, che il loro simbolo può solo evocare.
Mi ha molto colpito scoprire che suo padre Giuseppe è stato uno studioso di filosofia molto amato ed è stato in particolare il primo traduttore in italiano delle Enneadi di Plotino. Anche Plotino chiamava “Uno” il principio fondamentale della vita. Non posso non chiederle che ruolo hanno giocato suo padre e il neoplatonico Plotino nel suo lavoro di ricerca.
Mio padre ha scritto una quarantina di libri, compreso un corso di filosofia per i licei. Tre volumi per i tre anni. Oltre che di Plotino, è stato un appassionato studioso di Meister Eckhart, di Pierre Teilhard de Chardin e di Schopenhauer. Ha scritto anche volumi di storia romanzata, come il libro Le streghe. Era un libero docente dell’Università di Padova. Da ragazzo non avevo la minima curiosità per questo genere di argomenti. Ero la pecora nera della famiglia, da questo punto di vista. M’interessavano il funzionamento delle macchine e dei computer. È curioso che nella mia più tarda età sia tornato all’ovile e che nelle ricerche condotte in questi ultimi venti, trent’anni, risuonino i concetti di molti pensatori amati da mio padre, come per esempio Meister Eckhart, nonostante io non lo avessi mai letto. Anche Meister Eckhart ha vissuto esperienze straordinarie di coscienza. Così come Parmenide e San Paolo. Sono episodi trasformativi, di risveglio, che capitano forse in misura più frequente nella nostra epoca, solo che non se ne parla molto.
Lei ha detto di aver vissuto altre esperienze simili a quella di Lake Tahoe. È capitato per caso o si serve di qualche tecnica, come per esempio la meditazione?
È accaduto sempre spontaneamente, anche se in risposta a domande che mi stavo ponendo sulla natura della coscienza. L’obiettivo è quello del risveglio, cioè dell’esperienza diretta di essere inseparabili dal tutto. È un processo di conoscenza di sé, che si riconnette anche alle tradizioni esoteriche e soprattutto a quella che chiamiamo la filosofia perenne, cioè la filosofia/spiritualità che comincia dai Veda. Filosofia barra spiritualità. L’aspetto esperienziale, non l’aspetto dogmatico, della nostra unione con il tutto.
Quanto è presente nella Silicon Valley di oggi la mentalità riduzionista e determinista?
Il riduzionismo classico, per il quale l’essere umano è una macchina e la realtà è il puro spazio-tempo descrivibile matematicamente, dove gli oggetti separati interagiscono, ebbene questo tipo di ethos è largamente maggioritario, non solo nella Silicon Valley, ma nel mondo scientifico e tecnologico in generale. Anche la coscienza, i qualia, l’esperienza dei qualia, vengono classificati come un semplice epifenomeno di una realtà sempre misurabile e descrivibile matematicamente. È una visione del mondo oggi egemonica, che abbiamo accettato un po’ tutti.
Questo è il suo terzo libro. Il primo è del 2019. Insomma, ha iniziato molto tardi a scrivere, ma sembra averci preso gusto. Le piace scrivere? Come vive questa possibilità espressiva e comunicativa?
Mi piace moltissimo, soprattutto scrivere libri come gli ultimi due, cioè libri fatti di pensiero e riflessione, più che del racconto della mia storia. Scrivere è uno dei più grandi piaceri della mia vita di oggi. Mi permette di entrare in un mondo più profondo. È una forma di meditazione.
Ivan Carozzi
Ivan Carozzi è giornalista, scrittore e autore tv. Ha curato la raccolta Che traccia hai scelto? (Utet, 2023).
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