Fabio Stassi
30 Ottobre 2024
Nel centenario della nascita del primo e più famoso conduttore italiano, una serie tv a lui dedicata costringe a mettere in discussione le critiche che gli sono state rivolte negli anni – in primis da Umberto Eco
Sarebbe un errore rubricare la miniserie mandata in onda nel mese di ottobre su Mike Bongiorno come una delle tradizionali produzioni Rai per famiglie in prima serata. Sarebbe un errore di semplificazione, di pregiudizio e forse anche di supponenza. È molto di più, e apre diverse, e alcune lancinanti, questioni, come il rapporto con la televisione, con la categoria del nazional-popolare, con la storia politica italiana recente, ma soprattutto ci rivolge una domanda contundente. Nella vita di Mike Bongiorno c’è infatti tutta l’Italia nata dal dopoguerra, e nata, appunto, attraverso la televisione. Sua la prima trasmissione andata in onda, Arrivi e partenze, suo il primo volto di un conduttore apparso su uno schermo.
Nei decenni passati se ne è discusso tanto. Umberto Eco nel 1961 dedicò a Bongiorno un brillante saggio che voleva essere anche una spietata radiografia antropologica di come era cambiato, e stava cambiando, il nostro paese, e della mediocrità a cui si consegnava. Ma a rileggere tutta la faccenda a ritroso, ora, l’intera questione mi sembra assuma degli aspetti inediti di grande e spinosa complessità. Il primo sforzo è fare la tara ai processi in corso – a volte manifesti, a volte più sottili – di beatificazione retorica e reclutamento della destra italiana di certi personaggi del passato, nel tentativo, questo sì maldestro, di crearsi un proprio pantheon, avendolo avuto sempre piuttosto deserto. Una pratica in cui, all’opposto, però, la sinistra ha difettato a tal punto da farsi sfilare sotto al naso da Berlusconi negli anni Novanta persino la parola “libertà”, oltre a Bongiorno stesso. Si sa, dal lato mancino del marciapiede si sarebbe capaci di continuare a discutere all’infinito su Garibaldi e su Silone, mentre ti svaligiano la casa. Valeva invece la pena, e vale ancora, interrogarsi, anche soltanto per difesa o coscienza identitaria, su come sono andate realmente le cose.
E questa miniserie, con una buona scrittura da parte degli sceneggiatori e una buona interpretazione da parte degli attori, costringe a farlo in maniera anche scabrosa. Di certo, non molti sapevano che Mike Bongiorno, al secolo Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, era stato partigiano, si era salvato per miracolo, grazie al suo passaporto americano, dalla fucilazione da parte dei nazisti, era stato internato per mesi prima a San Vittore e poi in più campi di concentramento in Germania, aveva vissuto almeno tre emigrazioni dagli Stati Uniti all’Italia, e poi dall’Italia agli Stati Uniti, e poi ancora all’inverso, i suoi genitori si erano separati quando era bambino, aveva ritrovato il padre da adulto.
“Sarebbe un errore rubricare la miniserie mandata in onda nel mese di ottobre su Mike Bongiorno come una delle tradizionali produzioni Rai per famiglie in prima serata”.
Basterebbe già questo curriculum giovanile a contraddire la sentenza di Umberto Eco sull’irredimibile e “assoluta mediocrità” di Bongiorno. Ma qui il discorso si fa più difficile, e nel vedere il trucco narrativo usato dagli sceneggiatori per raccontare la sua storia – una intervista mai girata, e un giornalista fittizio, il dottor Sampieri, i cui tratti sembrano rimandare proprio alla fisionomia di Eco – non ho potuto fare a meno di pensare che quello a cui stavo assistendo non era uno sceneggiato, ma una resa dei conti. È vero, si può essere e restare mediocri anche se si attraversano prove tragiche, se si nasce in un periodo di terribili rivolgimenti storici, se si subiscono dei traumi, ma un mediocre difficilmente sceglie, un mediocre si lascia vivere, o almeno è per me questa la definizione più vera di questa parola. Bongiorno, invece, operò sempre delle scelte, nella sua vita privata e nella sua vita pubblica: scelse la Resistenza, subì isolamento e torture. Quando poi fu trasferito in America, seppe riconoscere la novità assoluta della televisione, e a suo modo fu per l’Italia un innovatore, uno sperimentatore di qualcosa che prima di lui nessuno aveva fatto o tentato. E anche quest’ultima coscienza e coraggio del futuro, che non si può evitare di accreditargli, non riesco a coniugarla con l’aggettivo “mediocre”. Ma forse è proprio il termine “coraggio” che fa saltare il banco, perché non viene così naturale accostarlo al suo nome. Abbiamo un’idea letteraria e retorica di coraggio e di uomo coraggioso, un’idea che rinvia agli eroi e ai cavalieri, e Bongiorno era l’esatto contrario, un antieroe, che però appunto per questo incarnava il coraggio degli uomini semplici, senza tratti straordinari. Un coraggio, si badi bene, del tutto reale, non simbolico, non metafisico o metaforico né teleromanzato. E vorrei capire perché, se uso questa parola, per lui, sento come un corto circuito nella testa, se per una somma di pregiudizi, per un errore ottico o di prospettiva, se per mia disinformazione. Per di più, la sua parabola professionale, che comincia da Vittorio Veltroni, il padre di Walter, dirigente RAI, che fu per Bongiorno una sorta di padre adottivo, e termina con Silvio Berlusconi e con l’affermarsi delle televisioni private, è una esatta parabola politica che racchiude per intero la nostra storia.
Per tutto questo, mentre vedevo Claudio Gioè nei panni del conduttore, e sentivo la sua voce mimetica riprodurre quella di Bongiorno, sepolta negli archivi della mia infanzia, ma ancora indelebile, ho sentito una urgente necessità di provare a sbrogliare la matassa. Umberto Eco lo aveva in qualche modo recintato in un campo semantico dove dominano l’”ottusità”, il “conformismo”, la “goffaggine”. Il maggiore capo d’accusa che gli imputa è l’avere elevato la gaffe “a dignità di figura retorica”, l’avere esaltato l’uomo comune. Nel mirino c’è anche questa sua ebete e pusillanime letizia: “Ride perché è contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà”. Ma sono altre contraddizioni, perché Bongiorno, quando era più giovane di Eco al tempo del suo saggio, era salito in montagna, aveva fatto parte delle prime formazioni partigiane, era stato una staffetta: aveva cioè cercato di deformare la realtà, e proprio dal lato stesso in cui anche Eco scriveva. E pure il verbo “elevare”, che Eco usa riguardo le sue gaffe, mal si coniuga alla mediocrità, che non eleva e non si eleva mai. In letteratura, inoltre, in molti avevano elogiato l’errore, da Tristram Shandy a Eduardo Galeano, derivandone una poetica. E sull’uomo comune un altro emigrato siciliano negli USA, Frank Capra, aveva fondato tutto il suo cinema, sostenendo che lo spettatore non voleva altro che vedere riprodotto sullo schermo se stesso, con i suoi travagli, le sue aspirazioni, e anche i suoi limiti.
È a questa idea, forse assai più lucida e radicata negli Stati Uniti che alle nostre latitudini, dove la medietà – in letteratura, nel cinema, nella vita quotidiana – è considerata un disvalore, si allacciava forse idealmente, o istintivamente, Mike Bongiorno. E tornano a galla altre, e antiche, polemiche: già ai primi del Novecento, Renato Serra denunciava in chiave antidannunziana la mancanza da noi di una letteratura di intrattenimento di qualità, presente invece nel mondo anglosassone Ma nessuno, almeno da noi, avrebbe mai accusato Galeano o Capra di mediocrità. A modificare tutto c’è il mezzo, la televisione. E tutto quello che il mezzo comporta: il corpo, la voce, un certo modo di stare in piedi, di salutare, di sorridere. E tutto ciò che il mezzo è per sé stesso: nessun altro personaggio pubblico si può identificare con la televisione più di Mike Bongiorno. Potremmo dire che quasi per mezzo secolo Mike Bongiorno è stato la televisione.
È dunque la televisione il vero obiettivo di Eco, e da qui nasce la sua rabbiosa protesta e il suo allarme: attenti, è questo il luogo del conformismo e dell’idiozia, è questo il luogo dove perderemo la partita. Il suo è anche un moto di ribellione di un giovane contro l’icona del padre paternalistico e di clamoroso successo che vedeva in Bongiorno. Ma il tono gli uscì comunque pesante, feroce e personale. Pensavo confusamente alle sue parole sin dalle prime immagini, e non so che cosa mi aveva provocato questa catena di riflessioni e di domande, forse la struttura stessa della serie, che la rende anomala e singolare nel panorama dei nostri odierni palinsesti, forse i miei stessi ricordi di bambino, quando a metà di quell’intervista inventata ho sentito un brivido. Come quando si rivede una finale dove si sa che si è stati sconfitti, ma nel riesaminarla da questa distanza improvvisamente si nota un episodio di gioco, un’azione, una decisione, che avrebbe potuto modificarne le sorti. E un’altra rabbia ci sorprende, quella delle occasioni perse. Dove abbiamo sbagliato? O meglio, dove abbiamo cominciato a sbagliare e perché? E ancora: sarebbe potuta andare diversamente?
Ecco, credo che Mike Bongiorno rappresenti, suo malgrado, un nodo decisivo che non abbiamo sciolto. Due anni prima di Umberto Eco, nel 1959, a riflettere sulla sua aurea mediocrità, ma con un accento diverso, divertito e ironico, più elogiando che denigrando, era stato Luciano Bianciardi sull’«Avanti». “A guardarlo cinicamente poteva anche far ridere” ci dice Bianciardi “con quella faccia più pecorile del solito, ma sarebbe stato ingiusto farsi beffa di un uomo così onestamente mediocre. Bisogna dire che Mike Bongiorno meritava il successo che ha avuto proprio in virtù del suo schietto, lampante grigiore”. Sarebbe stato ingiusto farsi beffa di un uomo così onestamente mediocre: Bianciardi gli riconosce una naturale simpatia umana, proprio perché riassumeva in sé tutti i difetti nazionali, e in un compendio così generale da poter essere stimato, sì, il più mediocre tra i conduttori televisivi, ma anche il più bravo. Quasi senza farsene accorgere, Bianciardi sposta però il soggetto: siamo noi, e lo siamo stati a lungo, a stimarlo in quel modo, come un uomo mediocre. E neppure tutti, per di più. Non è uno spostamento da poco. Il suo pezzo termina con un convegno di gente più o meno politicizzata, in una città della montagna marchigiana: “c’erano dissidenti, profughi, ribelli, eretici di due o tre partiti, ma soprattutto c’erano anarchici. Riuniti in una grande sala d’un palazzo medievale, che dà su di una piazza bellissima e a mezzo luglio intronata dal solleone, uno dopo l’altro si alzavano a dire cose diverse ed estemporanee. ‘Ordine del giorno’, aveva azzardato il presidente, e subito saltò su uno, furibondo: ‘Ordine perdio mai’ fece, ‘ma se proprio deve esserci ordine, facciamo ordine della notte. Del giorno perdio no’. Mi hanno poi detto che questo odiatore dell’ordine combatté in Spagna da valoroso, ma esigeva di sparare soltanto nei giorni di lavoro e di tenersi la moglie in trincea. Eppure anche lui si unì all’applauso generale, quando il presidente, interrompendo l’oratore di turno, annunziò: ‘Entra in aula la delegazione perugina, con alla testa il compagno Bistoni, noto vincitore a Lascia o raddoppia per la storia dei longobardi’”.
“Si può essere e restare mediocri anche se si attraversano prove tragiche, se si nasce in un periodo di terribili rivolgimenti storici, se si subiscono dei traumi, ma un mediocre difficilmente sceglie, un mediocre si lascia vivere, o almeno è per me questa la definizione più vera di questa parola”.
È in questo applauso anarchico, dissolto negli anni che vennero dopo dal miracolo economico, dal suicidio di Tenco, dalla stagione del terrorismo e da tutte le altre acrobazie della politica italiana perché si potesse mantenere o rinnovare il potere in altre forme, con altre sigle, ma sempre con le stesse parole d’ordine, che mi pare che qualcosa sia andata irrimediabilmente perduta. E forse nel mancato riconoscimento di Mike Bongiorno, nella sua demonizzazione – che era anche, e principalmente, una demonizzazione del linguaggio che Bongiorno usava, e questo fa pensare alle tante accuse e critiche che subì persino una scrittrice come Elsa Morante per la scelta, nella penultima fase della sua scrittura, con La Storia, di avere adottato un linguaggio popolare e di essersi avventurata nel territorio del “patetico” –, in questo esercizio senz’altro luminoso di un’intelligenza formidabile qual era quella di Eco che brilla però oggi, in alcuni passaggi della sua Fenomenologia, come di una luce fredda, si può intravedere uno degli errori capitali della sinistra italiana e della nostra cultura, un errore che si ripete inalterato nel tempo.
Non so se si trattò di una condanna sommaria e consapevole fino in fondo delle conseguenze che avrebbe potuto generare, una sorta di onda d’urto che si estendeva a macchia d’olio allo stesso uomo comune rappresentato da Mike Bongiorno, uomo comune che a quel punto avrebbe potuto avere diritto di offendersi, e infatti si offese, più del destinatario stesso di quelle accuse, che invece provò più sofferenza che umiliazione (lo ferì soprattutto quell’accusa di non vergognarsi della propria ignoranza, quando era stato impossibilitato a studiare da motivi storici e familiari ben precisi, e di mancare di autoironia), ma il risultato fu che pian piano entrambi volsero le spalle e si diressero da altre parti. È questa onda d’urto che, al netto di ogni agiografia o biasimo, o di ogni tentativo di accaparramento e riscrittura della memoria, fece approdare Bongiorno a Fininvest. Non sarebbe stato almeno più imbarazzante per Berlusconi, e anche per Bongiorno stesso, se si fosse legata sin dall’inizio la sua vicenda umana, nonostante il suo pudore a raccontarla, o forse a maggior ragione proprio per quello, alle sue scelte politiche, e cioè alla Resistenza? Se ci fosse stato cioè un orgoglio nel sapere che il primo presentatore della nostra televisione è stato un partigiano? Avrebbe evitato, forse, molti malintesi e molti equivoci. Ci resta, invece, l’incomprensibilità di questa rimozione, lo strano fenomeno di un oblio collettivo. E soltanto un’altra, l’ennesima, ragione di una sconfitta su cui congetturare.
Fabio Stassi
Fabio Stassi è scrittore, bibliotecario, paroliere. Il suo ultimo libro è Babelplatz – La notte dei libri bruciati (Sellerio, 2024).
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