Martina Lodi
26 Marzo 2025
L'arresto di Hamdan Ballal è solo l’ultimo capitolo delle atrocità compiute ogni giorno in Cisgiordania, di cui abbiamo parlato con Luisa Morgantini, che presiede Assopacepalestina.
Badel Adra è il regista palestinese che, assieme agli israeliani Rachel Szor e Yuval Abraham e all’attivista, anch’esso palestinese, Hamdan Ballal, ha girato il documentario No Other Land, vincitore agli Oscar di quest’anno (eppure introvabile negli Stati Uniti, dove nessun distributore l’ha comprato). Il 24 marzo, peraltro, è stata resa pubblica la notizia che Ballal, rientrato a Masafer Yatta, è stato linciato da un gruppo di coloni e arrestato: nel pomeriggio di martedì 25 marzo è stato rilasciato, dopo essere stato picchiato da soldati e coloni ed essere stato lasciato ammanettato e bendato in prigione per tutta la notte.
Anche Badel Adra è di Masafer Yatta, in Palestina. È lì che si svolgono in gran parte le riprese di No Other Land. Adra si è laureato nel 2018 in giurisprudenza grazie al sostegno di Assopacepalestina, un’organizzazione di volontariato impegnata in vari progetti umanitari e in favore della liberazione dei territori palestinesi, occupati illegittimamente da Israele. Con uno di questi progetti, l’associazione si impegna a pagare le tasse universitarie di giovani donne e uomini cresciuti ad At-Tuwani, un piccolo villaggio che conta poche centinaia di abitanti, nella zona sud di Hebron, area C della Palestina. Così è stato anche per Adra.
Alla cerimonia di premiazione negli Stati Uniti erano presenti tutti e quattro i creatori del documentario, anche Adra e Ballal, nonostante le difficoltà per chi vive nei territori occupati di ottenere un visto. L’asimmetria tra le due coppie di documentaristi, quella israeliana e quella palestinese, è un buon punto da cui partire per provare a mettere ordine nell’orrore nelle storie di chi abita quei luoghi. La raccontano i registi in un’intervista al «New York Times» ed è resa ancor più evidente dalla necessità di spostarsi per partecipare alla premiazione, tra chi ha documenti israeliani e chi ha documenti palestinesi – pur non avendo, allo stesso tempo, il diritto di vivere in uno Stato indipendente. Nel film, Basel si rivolge a Yuval con sconforto, dicendogli che la speranza è qualcosa che può avere solo chi ha la possibilità di tornare a casa propria la sera, lasciandosi alle spalle l’orrore.
Dopo aver visto il documentario, all’inizio di marzo abbiamo intervistato per telefono Luisa Morgantini, che di Assopacepalestina è la direttrice, e che al momento della nostra conversazione si trovava ancora in Cisgiordania.
L’escalation di violenza è rapida: al momento dell’intervista, il fragile accordo per un cessate il fuoco a Gaza era ancora in atto; da allora, in seguito a dei bombardamenti israeliani a sorpresa nella striscia, sono state uccise 673 persone. Su «La Lettura» del 23 marzo, la giornalista Marta Serafini si domandava se l’attenzione internazionale nei confronti del film avrebbe aiutato la causa palestinese, o se invece non avrebbe fatto che intensificare la violenza delle aggressioni. Il giorno successivo, come detto, si è saputo dell’arresto di Ballal. L’aggressione a Hamdan Ballal avviene nel quadro di un’operazione sistematica, agita di concerto dai coloni e dall’esercito israeliano, che mira al silenziamento dei giornalisti e degli attivisti palestinesi. Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ), un’organizzazione nonprofit indipendente che promuove la libertà di stampa in tutto il mondo, nel corso dell’ultima guerra – vale a dire dal mese di ottobre 2023 a marzo 2025 – gli attacchi israeliani in Palestina hanno ucciso 163 giornalisti e operatori dei media, un attacco senza precedenti alla libertà di stampa e di informazione.
I volti e le voci di Abraham e di Adra sono al centro del racconto di No Other Land, che raccoglie materiale filmato da Basel per cinque anni, dal 2019 al 2023. Il film è stato chiuso prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre del 2023, in seguito al quale sono morti 1500 israeliani. L’attacco ha provocato una reazione cruenta da parte del governo israeliano: negli ultimi quindici mesi sono stati uccisi 50 mila palestinesi, secondo le stime del Ministero della Salute palestinese (uno studio pubblicato dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine e pubblicato a gennaio su «The Lancet» calcolava invece che le morti tra palestinesi fossero sottostimate del 41%, portando il numero di vittime a Gaza – il 59% dei quali tra i civili: donne, bambini e anziani – a più di 70mila).
La generosità di Morgantini, nel ripetere ancora una volta quanto la situazione in tutti i territori occupati sia estremamente grave, è stata straordinaria. Persino avere tempo e modo per rilasciare questa intervista è stato complesso: nel pomeriggio in cui avevamo programmato una telefonata, la polizia israeliana ha fatto irruzione nella libreria palestinese The Educational Bookshop, a Gerusalemme Est, arrestando uno dei suoi proprietari, Imad Muna, 61 anni. Questo aneddoto, a propria volta, sarebbe potuto essere un’ottima apertura per questo articolo – la verità, forse, è che non esistono modi migliori di altri per raccontare questo film e questo massacro. Tutto è uguale a tutto nell’orrore, e perciò diventa fondamentale mostrare e ascoltare, ed è la ragione per cui No Other Land è un documento prezioso.
Il film mostra gli aspetti più brutali del colonialismo israeliano in Cisgiordania, dove le violenze e i soprusi sono quotidiani, tanto cruenti quanto spesso non provocati e assolutamente ingiustificati: “Quello che sta succedendo qui è una perfetta pulizia etnica” mi dice Morgantini “che avviene nell’infrazione sistematica del diritto internazionale: la zona C della Cisgiordania, che costituisce quasi il 60% del territorio palestinese, è il territorio dove secondo accordi internazionali dovrebbe trovarsi lo Stato di Palestina, che corrisponderebbe al 22% del territorio della Palestina storica. I territori occupati sono divisi in aree in cui le competenze di Israele sono differenti: nell’area C gli occupanti hanno controllo totale della popolazione, della costruzione delle abitazioni, della coltivazione della terra. I Palestinesi che vivono qui vengono giudicati secondo la legge marziale, gli Israeliani secondo le leggi ordinarie; sotto la legge israeliana, ai Palestinesi viene impedito di costruire nuove abitazioni, mentre l’esercito e i coloni le abbattono con dei bulldozer”. In uno dei momenti più crudeli di No Other Land, vediamo un capo cantiere israeliano che demolisce una scuola elementare – costruita dagli uomini di At-Tuwani lavorando di notte, in segreto – prima ancora che tutti i bambini e gli insegnanti possano evacuare.
“L’escalation di violenza è rapida: al momento dell’intervista, il fragile accordo per un cessate il fuoco a Gaza era ancora in atto; da allora, in seguito a dei bombardamenti israeliani a sorpresa nella striscia, sono state uccise 673 persone”.
La strategia israeliana è semplice: lo scopo è rendere impossibile la vita nei territori occupati, al fine che la popolazione autoctona li abbandoni. Uno degli strumenti legislativi adottati dalla politica coloniale israeliana è la creazione di zone di addestramento militare, che oggi sono disseminate in tutta la Cisgiordania occupata, nelle quali per i Palestinesi diventa di fatto impossibile risiedere. L’area di Masafer Yatta si trova nella Firing Zone 918: migliaia di Palestinesi beduini che abitano in quest’area sono minacciati di espulsione, che è stata confermata da una sentenza del maggio 2022 della Corte Suprema Israeliana. Morgantini, nella nostra conversazione, sottolinea come l’occupazione militare sia uno strumento essenziale per questa operazione, “insieme agli strumenti di apartheid, di genocidio. Hanno distrutto centinaia di villaggi per cancellare le tracce di identità palestinese, per far dimenticare che in quelle terre c’erano, almeno fino alla Dichiarazione di Balfour, Cristiani, Ebrei arabi, Musulmani, che convivevano in maniera del tutto pacifica”. I coloni hanno occupato illegalmente i territori della Cisgiordania: ai tempi degli accordi di Oslo, nel 1993, si trattava di centocinquantamila persone, oggi sono più di settecentomila. “Sono estremamente radicalizzati e sono cresciuti nel fanatismo messianico. E tutto questo non è iniziato il 7 ottobre, accade da decenni, semmai è l’aggressività dei coloni a essere aumentata negli ultimi quindici mesi. Sono aumentati i check-point, i blocchi stradali, oggi sono più di novecento. Una volta si diceva che i Palestinesi stavano in una grande “prigione aperta”: oggi non si può più dire nemmeno questo, chi vive in Cisgiordania è chiuso in piccole celle, all’ingresso e all’uscita di ogni villaggio ci sono sbarre di ferro che vengono aperte e chiuse dall’IDF”.
La tragedia che si è consumata a Gaza avviene ed è stata preparata già, si potrebbe dire, nella Cisgiordania occupata: da quando si sceglie di tollerare e di garantire l’impunità a chi spara e uccide i civili, si mostra il vero volto anti-democratico e genocidario di uno Stato che mira ad attuare un progetto coloniale, si accetta di considerare il colonizzato come un “altro” che perde la propria umanità. Privato di un volto e di qualsiasi possibile compassione ed empatia, se ne accetta il “trasferimento” in altre nazioni, come se le vite umane mostrate in No Other Land fossero semplicemente corpi vuoti, oggetti da spostare per liberare spazio. “Ciò che succede in Cisgiordania mostra qual è il progetto coloniale dello stato di Israele, e si tratta di un progetto genocida. Per proteggere Israele, che è un nostro alleato, siamo disposti a violare diritti e valori che abbiamo per decenni dichiarato di voler difendere, di voler promuovere, addirittura: e oggi Gaza è l’orrore del mondo, ed è responsabilità di tutti noi”. Morgantini ricorda quanto è forte la responsabilità internazionale rispetto a una soluzione reale del conflitto, quanto assordanti sono il silenzio e la politica di laissez-faire adottata all’unanimità dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea nei confronti dell’alleato israeliano. “Nei soldati a Gaza abbiamo visto la crudeltà più immensa, la voglia di uccidere e di umiliare, e lo stesso si vede in Cisgiordania. Il film lo mostra continuamente, quando si vedono le ruspe abbattere la scuola, quando distruggono le case come se entrassero dentro il corpo di una persona per ucciderla”. Il materiale che compone il documentario è uno dei pochi strumenti che i Palestinesi hanno per difendersi, nei tribunali, dai soprusi israeliani, e spesso nemmeno questo è sufficiente.
La narrazione secondo la quale ogni forma di aggressione israeliana – compreso bombardare scuole e ospedali – è legittima, perché Israele ha il diritto di difendersi da Hamas, salta e mostra il suo vero volto in Cisgiordania, dove questo argomento non ha alcuna ragion d’essere. Anche a Gaza, la distruzione messa in atto dai bombardamenti israeliani è sistematica e non casuale, come ha mostrato il report “A Cartography of Genocide” del centro di ricerca Forensic Architecture: i pattern evidenziati nei bombardamenti di IDF indicano, secondo il report, “una campagna sistematica e organizzata con lo scopo di distruggere la vita, le condizioni necessarie alla vita, e le infrastrutture di sostegno alla vita”. Una delle storie raccontate in No Other Land è quella di Harun, ferito da un colpo di un soldato israeliano mentre, disarmato, provava a difendere il generatore di elettricità della sua casa. Il proiettile l’ha lasciato paralizzato dal collo in giù, ed è morto in una delle case-grotta di Masafer Yatta dopo due anni di sofferenze, senza poter ricevere cure ospedaliere.
“La strategia israeliana è semplice: lo scopo è rendere impossibile la vita nei territori occupati, al fine che la popolazione autoctona li abbandoni. Uno degli strumenti legislativi adottati dalla politica coloniale israeliana è la creazione di zone di addestramento militare, che oggi sono disseminate in tutta la Cisgiordania occupata”.
Rispetto alla retorica della “legittima difesa” Morgantini ha una posizione nettissima: “È una narrazione assurda, non ci si difende quando si aggredisce un popolo occupato militarmente. La comunità internazionale dovrebbe dire a Israele ‘Basta occupazione militare. Basta colonizzazione, basta uccidere Palestinesi’. L’unica difesa possibile per Israele dovrebbe essere quella di lasciare i territori occupati, di non occupare più quei territori”. Una politica di sanzioni economiche dovrebbe essere il punto di partenza minimo di una politica umanitaria e che si oppone alla guerra “nel rispetto dell’articolo 2 dell’Accordo di Associazione dell’Unione Europea, che lo subordina al ‘rispetto dei diritti umani e dei principi democratici’. Un Paese che sistematicamente viola i diritti umani non dovrebbe poter avere accordi di associazione economica e sociale con l’Unione Europea”.
Martina Lodi
Martina Lodi è laureata in filosofia morale all’Université Panthéon-Sorbonne di Parigi e scrive per varie testate culturali.
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