Per amare non è necessario soffrire - Lucy
articolo

Carolina Bandinelli

Per amare non è necessario soffrire

27 Novembre 2024

Per secoli abbiamo vissuto le relazioni seguendo le istruzioni dell'amore romantico che ci sono state tramandate da poeti, cantori, scrittori e infine registi figli di una cultura patriarcale che oggi si attaglia poco alle nostre vite. Non crediamo più che l'amore implichi la sofferenza, che la passione corrisponda a un sentimento profondo, che un uomo possa salvarci. E allora, in cosa crediamo?

“Messeri, vi garba ascoltare una bella storia d’amore e di morte?…”
Non sapremmo cosa altro al mondo potrebbe piacerci di più.

Denis de Rougemount , L’Amore e l’Occidente

Elogio della sofferenza

È il giorno di Pasqua, il 6 Aprile – una Pasqua perfetta: né troppo alta, né troppo bassa, probabilmente c’è il sole, un sole gentile, leggermente velato che spande una luce fresca. L’uomo, poco più che ventenne, entra in chiesa. Tutto il paese è in chiesa, non esiste che non si vada in chiesa il giorno di Pasqua. Per certi cristiani è la ricorrenza più importante, anche più del natale, perché a nascere sono bravi tutti, ma a resuscitare solo uno. L’uomo, conoscitore della botanica e alpinista amatoriale, prende posto nei banchi di legno della cattedrale di Avignone cercando di connettersi con la sofferenza del Cristo in croce, chiude gli occhi e immagina i chiodi nelle mani, come dev’essere avere i palmi trafitti dai chiodi? Pensa al dolore di chi è risorto per salvare le anime peccatrici come la sua, si inginocchia sulle panche di legno e incrocia le dita in preghiera. Inizia la messa: “Sono risorto e sempre sarò con te”. Francesco alza lo sguardo ma prima di inquadrare il prete incontra il volto di una ragazza e viene trafitto dalla freccia di Amore che, come si sa, passa dagli occhi per arrivare dritta al cuore.

La ragazza è Laura. L’amore per lei lo terrà ‘anni ventuno ardendo’, e ispirerà la prima raccolta di componimenti in lingua volgare della letteratura italiana, i Rerum Vulgarium Fragmenta, meglio conosciuti come Il Canzoniere. Quando Petrarca scrive il Canzoniere tra il 1373 ed il 1374, l’amore romantico era una tendenza nuova, che in pochi anni dalla Francia si stava diffondendo in tutta Europa. Vi si trova una prima versione della fortunatissima sceneggiatura romantica occidentale: una storia eroica, in cui si ama e si combatte – con le armi o con l’anima – una storia tragica, in cui si soffre tanto e continuamente.  

La poetica romantica persiste attraverso i secoli e, pur attraversando declinazioni diverse, mantiene pressoché inalterato il suo nucleo etico ed estetico: dai poemi cavallereschi fino ai romanzi dell’ottocento e ai blockbusters hollywoodiani, l’amore romantico è descritto  come un evento che stravolge e dà nuovo significato a tutto ciò  che è avvenuto prima e che avverrà dopo. Che sia per mano di Cupido, del destino o del caso, in amore si cade come prede, e il controllo si perde. L’io degli amanti, scriveva Marsilio Ficino nel 1496, si dissolve: li abbandona e trasmigra verso un’ alterità ancora e sempre sconosciuta. Innamorarsi è un’avventura rischiosa e esaltante: una festa sull’abisso della catastrofe. 

Per questo soffriamo. 

Così Denis de Rougemont nel saggio L’amore e l’Occidente: “Ciò che esalta il lirismo occidentale non è il piacere dei sensi, né la pace feconda della coppia. È meno l’amare soddisfatto che la passione d’amore. E passione significa sofferenza. Ecco il fatto fondamentale […]”1

Ecco il fatto fondamentale: senza sofferenza non c’è  pathos, senza pathos non c’è amore. 

Dall’impossibilità, all’impotenza

Quando ho cominciato a relazionarmi all’amore, nella mia cameretta con i poster di Beverly Hills e degli Articolo 31, la pensavo più o meno come De Rougemont. L’assunto per cui più si soffre più il sentimento è autentico, mi pareva un principio eziologico indiscutibile. Non c’era scampo, soffrivano tutti, nelle poesie, nei libri, nei film e alla TV: soffrivano Brenda, Dylan e Kelly, impigliati in un triangolo senza risoluzione, si dannava Carrie Bradshaw perché Big era inafferrabile, si erano uccise Anna Karenina ed Emma Bovary,  annegava Leo di Caprio nei grandi schermi di tutto il mondo, mentre Laura Pausini invocava Marco, che se n’era andato e non sarebbe tornato più.

E io con loro piangevo per una telefonata che non arrivava, per una dichiarazione mancata. Cercavo nel mal d’amore la via per la trasfigurazione, verso la “beatitudine ardente”. Leggevo i sonetti di Petrarca, leggevo Tolstoji e Flaubert, studiavo Roland Barthes, e sentivo le mie lacrime librarsi al di sopra dei parchetti di quartiere, oltre i pavimenti appiccicaticci delle discoteche e il gusto stucchevole di cocktail azzurri. Speranzosa, trattenevo ogni tormento augurandomi che mi avrebbe portata a una comprensione dell’esistenza più sottile, a uno stato di coscienza superiore. 

Ma non succedeva. 

E in effetti c’era qualcosa che non tornava, qualcosa fuori posto, una falla logica. Per quanto mi impegnassi, mi era preclusa la sofferenza pura e innocente dei poeti, anzi mi sentivo personalmente colpevole per il fallimento pratico dei miei sogni romantici. Perché se Claudio aveva preferito le attenzioni di Irene, e Alessio era rimasto con Anna, non era a causa di un “mondo crudele” che ostracizza il sentimento – non era una situazione à là Montecchi-Capuleti – ma più probabilmente la conseguenza di una mia scelta sbagliata, o del mio non essere abbastanza desiderabile. Spesso mi sentivo scema per aver creduto in qualcosa che era chiaro sin dall’inizio che sarebbe stato un buco nell’acqua – forse era per via dei fianchi troppo larghi, i capelli troppo poco biondi? 

Era la fine degli anni Novanta e la sofferenza tipica dell’eroe romantico che si scaglia contro il mondo in nome dell’amore non era più disponibile. La differenza sostanziale tra me e la soggettività romantica che avevo assorbito, è che nel primo si soffre perché la felicità amorosa è negata da un sistema esterno, sia esso l’ordine sociale o il disegno divino, mentre io da brava donna postmoderna non credevo certo in Dio, e neanche troppo nella “società”. La Thatcher aveva da poco proclamato che “la società non esiste”, che “esistono solo gli individui”, e la cultura dominante incoraggiava a fare tutto quello che volevamo, a desiderare tanto e godere forte. Innamorarsi non era più un’esperienza antagonista rispetto al grande Altro2 della società, ma anzi un modo di soddisfarne le aspettative. Insomma per la prima volta nella storia, l’amore romantico era alla portata di tutti e tutte, la sua utopia finalmente realizzabile non solo nella penna dei poeti, tra donne angelicate e cavalieri valorosi, eroine tragiche e giovani arditi, ma anche dalle persone normali.

“L’assunto per cui più si soffre più il sentimento è autentico, mi pareva un principio eziologico indiscutibile. Non c’era scampo, soffrivano tutti, nelle poesie, nei libri, nei film e alla TV”.

Questo modo di sentire l’amore che Zygmunt Bauman ha definito “liquido”3, cioè privo di strutture condivise che lo sostengono, è il frutto della liberazione del sentimento dalla morsa della morale tradizionale, insieme alla  sussunzione nel paradigma del capitalismo neoliberista. Ne è emersa una nozione di libertà come realizzazione del proprio interesse individuale. Se nel canone romantico l’esperienza amorosa è un’impresa fuori dall’ordinario e quindi per lo più inattingibile, a partire dagli anni ottanta diventa parte di ciò che ci si aspetta da una buona vita. In un certo senso, dobbiamo trasformare l’immaginario romantico in prassi.

Ci sentiamo non solo liberi e libere, ma anche obbligate ad avere una vita amorosa appagante. 

Le industrie mediali, in rapida espansione, producono una versione addomesticata della storia d’amore, trattando “l’utopia romantica” alla stregua di un bene di consumo di massa4. L’immaginario popolare viene colonizzato dal modello della coppia di belli che, dopo tante peripezie e dolori, finalmente si sposano e fanno un figlio (anche Carrie si sposa Big, e Bridget Jones è davvero felice solo quando resta incinta) realizzando il connubio tra passione e stabilità sotto le luci della ribalta. Il modo per emularli è quello di “lavorare su stesse” diventare sempre migliori, così attraenti da essere irrifiutabili. 

Nel frattempo, solo la coltivazione di un’attitudine resiliente ci può salvare dal rifiuto, dal sentirsi svilite e non riconosciute. Si moltiplicano i divorzi, la hook-up culture organizza gli incontri in un campo reputazionale, più si rimorchia, più si accumula capitale sessuale, più sarà possibile accedere a partner attraenti, e ampliare il ventaglio della scelta, fino al momento in cui arriva “quello giusto” (ma quando?). Una pletora di libri bestseller promette alle donne soluzioni per attrarre e trattenere amanti e mariti: tra i più venduti tra gli anni ‘90 e l’inizio del 2000 ci sono Gli uomini vengono da marte le donne vengono da venere, e I cinque linguaggi dell’amore; mentre agli uomini  dispensano consigli d’oro su come rimorchiare, uno su tutti The Game: la Bibbia dell’artista del rimorchio. 

Nonostante la proliferazione di ipotetiche ricette su come realizzare il proprio sogno d’amore, l’ideale romantico seguita a sfuggire –  gli aspiranti innamorati continuano a soffrire. 

Il connubio amore-dolore individuato da Da Rougemont in un certo senso permane, ma a ben vedere si tratta di una sofferenza del tutto diversa. Se prima si soffriva perché l’amore era “irraggiungibile”, nella società consumistica e neoliberale si soffre perché l’amore è raggiungibile ma non si riesce ad ottenere.  L’angoscia del soggetto innamorato non è più dall’impossibilità ma dall’impotenza, l’avvilente coscienza della propria incapacità. 

A dolere non è più il corpo tragico di un eroe che seppur vinto si consegna a gloria immortale, ma il fisico provato di chi, nonostante dieta, palestra e manuali di auto aiuto, ha perso la gara perché non è stata abbastanza brava, perché altri sono migliori, e senza premio di consolazione si avvia disfatta tra i fischi del pubblico – unico motto disponibile: 

“Ritenta, sarai più fortunata”.

La condizione postromantica

Nei paesi occidentali si registra da anni un calo dei matrimoni, delle nascite, dell’attività sessuale. La cultura giovanile contemporanea rivaluta il celibato, rivendica l’asessualità, e sperimenta forme di intimità meno impegnative, per esempio le situationships. Secondo una ricerca condotta negli Stati Uniti dal New Pluralist Collaborative, solo il 56% degli adulti della Gen Z dichiara di aver avuto una relazione romantica da adolescenti, contro il 69% dei millennials e il 76% della Gen X. In Italia la tendenza è simile: lo studio GenerationShip 2024 riporta che più del 50% degli intervistati considera convivere, sposarsi e fare figli, poco o per niente importante. Questo tipo di dati è spesso accompagnato da una forma di panico morale: “i giovani non vogliono più innamorarsi! Non vogliono più  fare sesso! Ommiodio dove andremo a finire?”. Di solito si additano i social media, il porno online, e una vaga accidia sentimentale; si pronunciano frasi che iniziano con “i giovani d’oggi…” e sono ripiene di nostalgia per i bei tempi in cui si beveva vino ai pranzi di lavoro, si mangiava carne rossa senza colpa, e si toccavano culi femminili in grande allegria. 

Ma c’è davvero così tanto da indignarsi se dopo anni di tentativi falliti le persone oggi decidono di dare meno importanza all’amore romantico? È così strano che si cerchi di rivedere il primato dell’amore-passione? 

Il capitalismo patriarcale ha sfruttato le fantasie romantiche fino ad  averne esaurito il potere e la presa, e non stupisce che emerga un certo (legittimo) sospetto verso l’amore per come ci è stato raccontato: una sorta di imbarazzo e cinismo nei confronti del “colpo di fulmine”, di un “insolito destino che ci travolge”, del “sì lo voglio” all’altare. I personaggi romantici hanno perso di fascino: non crediamo più alle muse dei poeti, tutte evanescenti, inventate o morte, figurine per un gioco letterario fallico; di certo non vogliamo fare la fine di Emma Bovary, e i giovani Werther li spediremmo dritti in terapia (d’urto); ad essere “libere” e “perfette” con pacchi di “capitale sessuale” ci abbiamo provato, ma è servito solo a farci sentire ancora più inadeguate. 

Dalla critica dell’amore romantico, e dal riconoscimento della sua matrice ideologica, sta emergendo una nuova struttura del sentire, che io chiamo post-romantica. La condizione postromantica è il sintomo condiviso5 di chi ha considerato “naturali” relazioni traumatiche, di chi ha creduto inevitabili sofferenze inutili, di chi ha smascherato “l’ottimismo crudele”6 dell’amore romantico: il modo in cui ci ha legato a desideri e aspirazioni che mettono a repentaglio il nostro benessere. Il modello del “vissero felici e contenti” si rivela come dispositivo di oppressione e controllo patriarcale: “sei mia” non assomiglia più tanto a una dichiarazione d’amore, quanto a una minaccia. 

Per amare non è necessario soffrire -

Si cercano i codici di un amore finalmente sano, buono e giusto, un amore epurato dalle scorie ideologiche, un amore che non fa male. 

Nell’orizzonte di senso post-romantico il dolore non è un di-più di verità, ma l’indice di “qualcosa che non va”: una red flag.  Non c’è afflato lirico che tenga: sentirsi vulnerabili al cospetto dell’amato non è letto come manifestazione dell’intensità del sentimento, piuttosto come indizio di una possibile dinamica di manipolazione. Per evitare l’insorgere di potenziali traumi si fanno diagnosi, anche affrettate, appropriandosi del vocabolario terapeutico: su Tik Tok ogni settimana c’è un video virale su come sgamare un principio di love-bombing, gas-lighting, o qualsiasi altro segno di una unhealthy relationship. Non ci si “butta a capofitto”, non si vuole “perdere la testa”, piuttosto si valuta, si esamina, si prendono precauzioni. 

Se il romanticismo “classico” si è espresso nella letteratura, e la sua declinazione consumistica è stata promossa dal cinema e dalla televisione, l’immaginario post romantico trova nelle tecnologie digitali i suoi strumenti  più rappresentativi, e da essi mutua la fantasia di una vita produttiva, controllabile ed efficace, una vita in cui anche l’amore possa essere tradotto in una procedura lineare da un algoritmo di ultima generazione. Le dating apps promettono proprio questo: metodi efficaci per incontri sicuri, che in alcuni casi somigliano più a colloqui di lavoro che ad appuntamenti romantici. Per evitare perdite di tempo e incontri sbagliati, alcuni utenti (specialmente donne eterosessuali) sottopongono potenziali partner a una specie di questionario preventivo, dal quale evincono la percentuale di compatibilità. Nella logica dell’efficienza, l’errore, l’inciampo, l’eccesso sono tutte risorse sprecate – qualsiasi sistema per ridurne l’incidenza è benvenuto. Gli ultimi aggiornamenti delle dating apps fanno un ulteriore passo in questa direzione, con un IA chat bot che si occupa del primo approccio, e solleva dallo sbattimento di scrivere un messaggio che, nove volte su dieci, verrà ignorato. 

C’è chi va ancora oltre, a quanto pare un’azienda statunitense sta mettendo a punto un’app con un IA avatar che, previo opportuno training, potrebbe andare a una serie (potenzialmente infinita) di appuntamenti con altri avatar, consegnando poi fedeli report con tanto di trascrizione dei dialoghi. Se l’elemento umano è una variabile troppo volatile si possono intessere  relazioni direttamente con un avatar, che in effetti è parecchio più gestibile e meno minaccioso di un uomo. Per esempio, la mia studentessa cinese Chen Yu è fidanzata con il personaggio di un Otome game, un genere di videogiochi molto popolare tra le giovani donne asiatiche (specialmente Cinesi e Sud Coreane). Chen Yu mi ha spiegato che questa è l’unica maniera di vivere una storia d’amore davvero equa, con un compagno maschio che la rispetti e la incoraggi.

La distopia di un mondo in cui l’IA sostituirà partner in carne ed ossa non mi spaventa più di tanto, probabilmente in futuro vivremo affettività sia umane che artificiali (e comunque già abbiamo un rapporto molto intimo con i nostri dispositivi tecnologici). Però, da un punto di vista culturale, l’immaginario associato alle  intimità artificiali è significativo, poiché rappresenta una soluzione, estrema e pragmatica, al problema della “caduta” in amore: eliminando il corpo – il corpo che piange, che soffre, che eccede e soccombe, che contamina e protesta – garantiscono davvero un amore “sicuro”, apparente privo di qualsiasi rischio. 

*

Quando parlo di queste idee in pubblico, con i miei studenti e le studentesse, con giornalisti e giornaliste, o con le mie amiche a cena, c’è sempre qualcuno che mi chiede: ma quindi è possibile amare senza soffrire? 

Io rispondo di no, ma che non importa: gli ideali sono più simili a mappe per orientare il percorso che a traguardi concreti, e la mappa postromantica disegna tracciati interessanti: potrebbe essere la prima volta, nella storia culturale delle emozioni, che il nesso amore-sofferenza viene messo collettivamente in discussione7. Non è cosa da poco.

“Ma c’è davvero così tanto da indignarsi se dopo anni di tentativi falliti le persone oggi decidono di dare meno importanza all’amore romantico?”

Nei momenti di passaggio come questo, molte strade sono ancora aperte. Da una parte il postromantico racchiude la distopia di relazioni senza corpo, sanificate ed efficienti. Allo stesso tempo, articola la possibilità di emanciparci dall’eroticizzazione della sofferenza e da codici eteronormativi esausti: risignifica l’amore in una rete di relazioni affettive più vaste, riporta al centro l’amicizia, rielaborando il rapporto gerarchico tra eros e filia, tra l’amore che infiamma e quello amicale, che può generare nuove sorellanze e parentele.  

Sarebbe contento De Rougemont di sapere che, forse, finalmente ce l’abbiamo fatta a risalire all’etimo di “passione”, e che siamo pronte a sperimentare nuovi modi di amare senza stare (troppo) male. 

La riflessione presentata in questo articolo è tratta da una ricerca sulla cultura dell’amore contemporanea che porto avanti da circa sette anni, tramite il metodo etnografico e l’analisi testuale e dei media. 

Molte letture sono state essenziali alla formazione del mio pensiero, ne suggerisco qui alcune. 

Katherine Angel Donne e desiderio nell’era del consenso. Blackie (2022);

Roland Barthes Frammenti di un Discorso Amoroso. Einaudi (2014) [1st ed. 1977];

Zigmunt BaumannL’amore Liquido Laterza (2006) [1st ed. 2003];

Ulrich Beck e Elisabeth Beck­Gernsheim Il Normale Caos Dell’Amore. Bollati Boringhieri (1996) [1srt ed. 1995];

Lauren Berlant Ottimismo Crudele, Timeo 2024 [1st ed. 2011];

Eva Illouz Perché L’Amore fa Soffrire. Codice Edizioni (2015) [1st ed. 2011];

Eva Illouz La Fine dell’Amore. Il Mulino (2020) [1st ed. 2019];

Eva Illouz Consuming the Romantic Utopia . University of California Press.(1997);

Silvia Lippi e Patrice Maniglier Sorellanze: per una psicanalisi femminista, DeriveApprodi (2024);

Denis de Rougemont, L’amore e l’Occidente, Rizzoli (1982) [prima ed. 1939];

Asa Seresin ‘On Heteropessimism Heterosexuality is nobody’s personal problem’, in The New Inquiry (2019);

Amia Srinivasan Il Diritto al Sesso Rizzoli (2022) [1st ed 2021];

Slavoj Zizek Il grande Altro: nazionalismo, godimento, cultura di massa. Feltrinelli, (1999).

1

 

Denis DeRougemont, L’amore e l’Occidente, Rizzoli (1982) [prima ed. 1939]

2

 

Il ‘grande Altro’ è un concetto della teoria Lacaniana che si riferisce all’ordine costituito, la società, il sistema. Vedi, per esempio, Slavoj Zizek Il grande Altro: nazionalismo, godimento, cultura di massa. Feltrinelli, (1999).

3

Zigmunt Baumann L’amore Liquido Laterza (2006) [prima ed. 2003],

4

 

Mi riferisco all’analisi di Eva Illouz nel saggio Consuming the Romantic Utopia, University of California Press (1997),

5

 

Prendo questo termine dal saggio di Silvia Lippi e Patrice Maniglier Sorellanze: per una psicanalisi femminista, DeriveApprodi (2024).

6

 

Mi riferisco al concetto di Lauren Berlant: vedi Laurent Berlant Ottimismo Crudele, Timeo 2024 [1st ed. 2011].

7

 

Qui io non intendo dire che tutti e tutte mettano sempre in discussione il nesso amore-sofferenza, e neanche che la maggior parte delle persone lo stia facendo. Il postromantico non è dominante a livello statistico, né è destinato a diventare l’unico modo di pensare e agire l’amore. Le sceneggiature sociali e i codici si intrecciano, convivono e si mischiano. Però il postromantico è particolarmente interessante per una critica culturale perché è una struttura del sentire emergente, e come tale ci permette di cogliere qualcosa dello spirito del tempo.

Carolina Bandinelli

Carolina Bandinelli è Associate Professor in “Media and Creative Industries” all’Università di Warwick. Ha scritto diversi saggi e articoli per riviste nazionali e internazionali. Il suo ultimo libro è La più brava (Nutrimenti, 2024).

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