Perché i Latinos della Florida hanno votato Trump - Lucy
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Davide Piacenza

Perché i Latinos della Florida hanno votato Trump

25 Febbraio 2025

La comunità venezuelana in Florida ha votato per Trump sperando che ricacciasse indietro quelli che loro considerano "mala gente". Non si aspettavano che la definizione li includesse.

A Miami nessuno parla inglese. È un’iperbole, ma solo in parte: in città vivono 500mila persone, di cui il 70% di origine ispanica o latino-americana e l’enorme contea di Miami-Dade, che si estende dal sobborgo di Aventura a nord fino alle estreme propaggini acquitrinose delle Everglades a sud, è la contea a maggioranza ispanica più popolosa degli Stati Uniti.

Per le strade di Brickell e Coral Gables non è affatto raro sentire di sfuggita una conversazione che comprende interiezioni come “pero like”, “dale” o “entonces then”. Anice, l’autista venezuelana dell’Uber che mi porta a Key Biscayne – l’isoletta residenziale e naturalistica che nel secolo scorso è stata sede della più grande piantagione di palme da cocco del Paese – non sa se rallegrarsi o lamentarsi di questo stato di cose: “È da cinque anni che vivo qui, debería practicar ingles, ma tutti quelli che conosco parlano spagnolo”. Quando dice “qui”, Anice intende a Doral, un sobborgo appena a ovest dell’aeroporto internazionale di Miami dove il numero di suoi connazionali è così ingente da essere stato ribattezzato “Doralzuela“.  Anice lo ripete divertita. A Doral, secondo una notizia che dice di aver letto online, Donald Trump – che nella cittadina è peraltro proprietario di un noto e lussuoso campo da golf – a novembre avrebbe conquistato il 95% delle preferenze dei venezuelani (non sono riuscito a verificare la notizia, forse per limiti del mio spagnolo). Prima delle elezioni, nei quartieri a maggioranza venezuelana della città – e anche nelle case abitate da chi ancora non avrebbe potuto votare – erano tappezzati di yard sign pro-Trump, manifesti, incoraggiamenti in spagnolo di supporto al leader che più di tutti aveva promesso di usare il cosiddetto pugno duro nei confronti del presidente del Venezuela Nicolas Maduro, verso cui invece l’amministrazione di Joe Biden si era mostrata tutto sommato conciliante. Quando Anice inizia a parlare del suo Paese, le prima cose che le vengono in mente, le più scottanti, sono le ore passate in coda davanti ai negozi di generi alimentari, per comprare una confezione di riso che spesso era già finito, la malnutrizione dei suoi figli, la criminalità dilagante per le strade. “Il Venezuela non è sempre stato così”, aggiunge guardando oltre il guardrail della Rickenbacker Causeway, ma cinque anni fa la misura di Anice era colma: ha preso un aereo “da turista” per Miami – dove aveva già una sorella – e ci è restata richiedendo un permesso di soggiorno temporaneo umanitario. Poi l’hanno raggiunta i suoi figli, che oggi hanno 19 e 15 anni, studiano all’università e al college, lavorano, parlano anche l’inglese. 

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Il sentimento che sembra prevalere negli esuli di questa grande diaspora caraibica, nel popolo sempre in marcia dell’America Latina che ha messo radici nelle terre basse dell’ex colonia spagnola della Florida, è il rimpianto, la più cruenta forma di nostalgia. Torna in mente una frase celebre della Peste di Albert Camus: “Tutti avevano sofferto insieme, sia nella carne che nell’anima, d’una difficile vacanza, d’un esilio senza rimedio e di una sete mai appagata”. Anice, che attende il suo visto permanente da cinque anni e ha un’altra sorella che lo aspetta da otto, dice che nella comunità venezuelana il motivo del supporto a Trump va ricercato nella diplomazia e nelle politiche sull’immigrazione dell’amministrazione Biden, ritenute troppo indulgenti verso Maduro e la mala gente che ha attraversato la frontiera per delinquere (non come lei, che ha una famiglia, che lavora e che paga le tasse).

È la ricerca spasmodica di una nuova identità forte, in grado di fargli abbandonare il limbo degli espatriati, quella che ha portato i Latinos della Florida nelle braccia della destra, e riecheggia in tante loro affermazioni: Raul – nome di fantasia – è una guida del parco nazionale delle Everglades, l’immensa distesa di felci e acqua stagnante che costituisce la punta meridionale della penisola della Florida. Come un altro milione di persone nell’area, Raul è di origine cubana, cioè fa parte della comunità ispanica più numerosa dello Stato. È nato a Cuba ma, anche se sull’isola ha ancora diversi cugini, ci è tornato una volta sola, spiega: “Quando vedono il passaporto americano ci considerano traditori”. Non ci vuole più tornare, dice stringendosi nelle spalle. La sua identità si è infilata in una qualche piega fra la cultura cubana, statunitense e della tribù Miccosukee, la prima ad abitare gli acquitrini infestati da alligatori delle Everglades, ma non si sente del tutto a suo agio in nessuna di esse. A due signore anziane che l’indomani proseguiranno il loro viaggio di piacere verso l’Avana dice senza sorridere, in un inglese spagnoleggiante, “vedrete una carce”. 

“A Miami nessuno parla inglese. È un’iperbole, ma solo in parte: in città vivono 500mila persone, di cui il 70% di origine ispanica o latino-americana”.

In uno spot elettorale del 2020 che ha attirato parecchia attenzione in tutto il mondo, Donald Trump appare mentre si esibisce nel suo imbarazzante balletto robotico su un sottofondo musicale caraibico, mentre un cantante Latino intona le parole “ay, ay, ay por Dios, yo voy a votar por Donald Trump”. Chiunque l’abbia condiviso nei cinque anni trascorsi dalla sua prima messa in onda l’ha fatto col sottotesto di ironia che si deve ai meme più riusciti: come è possibile che una comunità di migranti supporti il politico più anti-immigrazione degli ultimi anni? La domanda è lecita, ma spesso posta con un eccesso di paternalismo e approssimazioni tipicamente occidentali: i latino-americani non sono un blocco unico di persone che si sentono definite dalla loro provenienza, anzi, sono in cerca della loro Terra promessa, in fuga da carestie, corruzione, razionamenti e lunghe file per i beni essenziali. Per paradossale che sia, Trump è l’unico che ha offerto a questa gente un racconto a cui credere, quello di un Paese che torna grande, orientato alla buena vida e all’economia (citando ancora dallo spot) che il primo mandato del miliardario ha saputo garantire a molti, più per congiunture favorevoli che per reali meriti. Fatto sta che il supporto pro-Trump fra i Latinos a livello nazionale è decollato: se al tempo di quel risibile por Dios era al 32%, alle elezioni di novembre si è fermato al 45%, con punte molto più alte fra i giovani uomini.

La migrazione ispanica in Florida – da due anni lo Stato roccaforte della destra americana, come la California lo è della sinistra, in una perfetta simmetria geografica e politica – è un fenomeno complesso, fatto di persone diverse arrivate in tempi diversi: i cubani che si sono stabiliti in massa nella zona attorno all’Ottava Strada di Miami (oggi nota come Calle Ocho) dopo l’invasione della Baia dei Porci, missione fallita i cui partecipanti sono ancora chiamati “eroi” e ricordati da monumenti commemorativi e un museo pieno di cimeli; i portoricani che dagli anni Ottanta e Novanta si sono stabiliti a Orlando; più recentemente i nicaraguensi e gli haitiani, quelli che secondo Trump e il suo vice J. D. Vance qualche mese fa avrebbero mangiato cani e gatti di una cittadina dell’Ohio (non dobbiamo precisare che non è mai successo, no?). Miami è una città di quartieri ulteriormente divisi in blocchi tagliati lungo le linee delle divisioni etniche, razziali e di classe. La Downtown che fino al decennio scorso era un luogo di degrado e povertà oggi ospita grattacieli scintillanti che si specchiano nella baia e nell’acqua limpida delle piscine private: Brickell, Coconut Grove, Bay Point coi loro complessi di lusso in costruzione parlano di una città giovane ed entusiasta, incurante di chi lascia indietro e dei prezzi che sta pagando per il suo rilancio.

Un’altra cubana di nascita, Lucia, mostra con orgoglio la decalcomania che ha attaccato poco al di sopra del paraurti della sua Honda CR-V. È una scritta contornata da cuoricini rosa che recita: My son is in the U.S. Army”, mio figlio e nell’esercito. Ancora una volta penso che questa gente voglia anzitutto una patria, dopo aver perso la propria. Anche se gli effetti di questo bisogno, sì, possono confinare col grottesco: gli stessi venezuelani che hanno votato – forse, magari, chi lo sa – al 95% per Trump nel sobborgo di Doral, oggi sono sul piede di guerra perché il loro beniamino ha… fatto esattamente ciò che aveva promesso, firmando un ordine esecutivo per terminare con effetto immediato i permessi di soggiorno temporanei per motivi umanitari, di cui i venezuelani sono tra i primi beneficiari. E ora si sentono traditi.

Jorge Duany, accademico nato a Cuba, cresciuto a Porto Rico e da dodici anni abitante a Miami, è un importante teorico del trans-nazionalismo caraibico, cioè studia quei  fili invisibili che uniscono le popolazioni che cercano fortuna negli States con la loro madrepatria. Approfittando del suo recentissimo pensionamento dalla Florida International University, gli ho chiesto di vederci e mi ha dato appuntamento in un ristorante cubano a gestione familiare a Coral Gables. Non potevo trovare una persona più indicata a cui porre la domanda: insomma, questa gente – la sua gente, volendo – perché vota contro i suoi interessi

Perché i Latinos della Florida hanno votato Trump -
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“Beh, ci sono differenze”, mi ha spiegato di fronte a un sontuoso piatto di ropa vieja – “è vero che Trump ha sfondato in Florida e in particolare a Miami, ma ad esempio, i portoricani hanno votato in maggioranza per Kamala Harris a Orlando, mentre i cubani di fatto hanno consegnato la metropoli alla destra. Chi ha premiato Trump sull’immigrazione, in generale pensava che le sue promesse di pugno duro si rivolgessero a qualcun altro, alla bad people: non certo a loro stessi”.

Il problema, mi fa capire il professor Duany, è che ancora oggi, a valle di anni di discorsi sull’inclusione, il politicamente corretto e la rappresentazione delle minoranze, “i media tendono a parlare del ‘voto Latino’, come se fosse un blocco univoco”. A forza di parlare di diversity ci siamo dimenticati del significato vero e proprio della parola diversità, della varietà delle persone e delle loro traiettorie di vita. Per esempio: come ci si sente a scoprire che la candidatura di Harris ha incontrato resistenze razziste all’interno della comunità cubana, che a Miami si considera perlopiù di appartenenza bianca? “Qui intorno l’ho sentita io stesso chiamare la negrita, che è un modo terribile di riferirsi a una donna nera”, spiega l’accademico. 

Nella diaspora Latina c’è una varietà di storie, di provenienze, di appartenenze etniche e sociali che il grande pubblico non conosce, né dà mostra di voler conoscere. “Molte persone non ispaniche non lo capiscono: tutti i Latinos sono considerati brown; io, per esempio, non lo sono: e non sono certo l’unico che conosco” sorride Duany, che in effetti è così bianco che potrebbe essere preso per un anziano frequentatore di una bocciofila del Nord Italia. Quando è arrivato a Miami, racconta, all’inizio si trovava disorientato di fronte agli identikit dei sospettati diffusi dal dipartimento di polizia della città: “Dicevano ‘ispanico’, e io mi guardavo intorno chiedendomi: che aspetto ha un ispanico? Ne ho mai visto uno?”. Non c’è cosa più aliena del sé, specie dopo aver dovuto dire addio al luogo in cui si è formato. Eppure, oltre gli esodi e le repressioni, a Little Havana consola sapere che le cose non potranno che migliorare: un vecchio detto cubano dice No hay mal que por bien no venga, non esiste male da cui non venga bene. E di questi tempi è più o meno tutto ciò di cui c’è bisogno.

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Davide Piacenza

Davide Piacenza è giornalista e collabora a diverse testate. Il suo ultimo ultimo libro, che riprende temi della sua newsletter settimanale “Culture Wars”, si intitola La correzione del mondo (Einaudi, 2023).

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