Perché non riusciamo a guarire dalla guerra? - Lucy
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Nicola Lagioia

Perché non riusciamo a guarire dalla guerra?

Sebbene il progresso tecnologico abbia da tempo eliminato la violenza dalle nostre vite, c'è un retaggio che sopravvive nella nostra specie e che ci impedisce di smettere di reiterarla. La letteratura, però, può aiutarci a fare i conti con questa assurda eredità.

L’umanità ha consegnato un’altra volta il proprio cuore alla guerra. Siamo costretti a constatarlo in questo terzo decennio del XXI secolo. Eravamo certi che il Novecento ci avesse impartito una lezione memorabile, ma abbiamo già dimenticato tutto. Finita la Guerra fredda, caduto il mondo diviso in due blocchi, ci siamo illusi (come si disse allora con una locuzione di dubbio gusto) che l’umanità stesse entrando nell’Età dell’Acquario – un’epoca di pacificazione e concordia universale –, che addirittura la Storia intesa come atrocità e prevaricazione (“uno scandalo che dura da diecimila anni”, scriveva Elsa Morante. L’incubo da cui Stephen Dedalus non riusciva a risvegliarsi) fosse finita. Non ho idea come lo “sciopero degli eventi” (così, invece, venne da alcuni battezzato, con una giusta punta d’ironia, il periodo più illusorio degli anni Novanta) potesse averci persuaso di questo memorabile cambiamento. La guerra civile nella ex Jugoslavia e un numero impressionante di conflitti locali sarebbero stati già allora sufficienti a confermare per l’umanità la persistenza di un cuore barbarico, assetato di sangue, “rapido alla guerra”. Ancora bombardamenti, devastazioni, saccheggi, pulizie etniche, genocidi, occupazioni, stragi di soldati, civili, bambini…

Oggi, che la “guerra mondiale a pezzi” rischia di rivelarsi il puzzle di un’apocalisse in via di svolgimento, torniamo a ragionare con angoscia sull’evidenza di essere ancora incastrati nell’Età di Marte. I giornali faticano a salvare l’informazione dalla propaganda. Le trasmissioni televisive si riempiono di esperti. La geopolitica vorrebbe diventare la griglia interpretati va per capire che cosa sta accadendo. Ma la geopolitica, da sola, non basta. Sarebbe come limitarsi alla meteorologia per comprendere i cambiamenti climatici. Per questo motivo gli autori e le autrici di questa antologia sono preziosi, ancora più oggi che abbiamo la pretesa di spiegare tutto in termini di congiunture storiche, disequilibri economici, indici demografici, confini territoriali. La guerra è certamente anche il frutto avvelenato di una contingenza, di una serie più o meno disordinata di nessi causali. Ma, grattando la superficie degli eventi, dovremmo intenderla anche come qualcosa di più profondo e oscuro: una malattia della specie. Anzi, la più terribile delle nostre patologie. Perché non siamo ancora guariti? Tra i tanti capolavori del modernismo che hanno cercato di gettare luce sul nostro cuore di tenebra – da Mann a Proust, da Woolf a Céline, da Joyce a Musil – ce n’è uno, ingiustamente reputato secondario, che su questi temi è stato forse il più audace di tutti. Ricordiamo piuttosto bene (“l’ultima sigaretta”) le prime pagine de La coscienza di Zeno. Ci è più difficile tornare con la memoria alla conclusione del ro manzo, che invece è davvero formidabile per i temi di cui qui stiamo parlando. Dopo pagine di enorme pregio in cui Svevo ripercorre in forma nuova miti e motivi del romanzo borghese – i padri e i figli, il matrimonio e l’adulterio, la sanità e la malattia –, nell’ultimo capitolo accade qualcosa di assolutamente eccezionale, di quasi impensato fino ad allora. Così come Joyce termina l’Ulisse annullando il tempo grazie a una caduta onirica nel mito classico (Molly Bloom e il suo monologo), Svevo racconta la fine di tutti i tempi scaraventandoci in avanti, dentro un incubo futuro, una distopia, dove il dramma umano viene letto in termini evoluzionistici, antropologici, etologici. Di specie, appunto.

Qual è la peculiarità degli umani rispetto agli altri viventi?, si chiede Svevo. Oltre all’uso del linguaggio e a una certa predisposizione alla malattia dello spiri to (ci torneremo), l’uomo è la creatura che costruisce protesi. Gli altri animali conoscono un solo progresso, quello del loro corpo. “Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo”, scrive Svevo. Al contrario, l’occhia luto uomo, attanagliato dalla consapevolezza della morte, costruisce in continuazione strumenti “fuori da se stesso”, per aumentare la sua potenza, o (a seconda di come vogliamo vederla) per sottrarsi alla sua più grande paura. Inventa la ruota, la bicicletta, l’automobile, la turbina, il pistone, il cucchiaio, il coltello, il bastone, il cannone, l’aeroplano. E poi inventa la bomba. Qui Svevo anticipa di decenni il contenuto di una delle prime scene di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, quando un ominide, nel cuore della preistoria, intuisce che l’osso di un animale morto può essere utilizzato per una funzione diversa da quella originaria (da sostegno ad arma), e allora, inebriato da questa incredibile scoperta, scaglia l’os so-utensile-arma verso l’alto e, in un flash-forward di centinaia di migliaia di anni, l’oggetto originario (co me una conseguenza) si trasforma in astronave. Il problema, continua Svevo, è che l’uomo costruisce protesi sempre più potenti, di conseguenza anche ordigni sempre più distruttivi. Di generazione in gene razione, di secolo in secolo. Fino a quando un uomo, fatto come tutti gli altri, leggiamo nelle ultime pagine del romanzo, “ma degli altri un po’ più ammalato”, ruberà un esplosivo di terrificante potenza e si arrampicherà “nel centro della Terra” dove l’effetto dell’arma potrà essere massimo. A quel punto “ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

La coscienza di Zeno fu pubblicato la prima volta nel 1923, quando il Progetto Manhattan non era an cora concepibile. Dunque Svevo non solo anticipa di oltre quarant’anni un altro classico di Kubrick – Il dottor Stranamore –, ma con il suo romanzo mette in scena (tra i primi in assoluto) la distruzione del pianeta non più ad opera di un dio, ma dell’uomo. Non siamo più dalle parti di San Giovanni dell’Apocalisse e forse non ci saremo mai più, verrebbe da dire.

“L’umanità ha consegnato un’altra volta il proprio cuore alla guerra. Siamo costretti a constatarlo in questo terzo decennio del XXI secolo. Eravamo certi che il Novecento ci avesse impartito una lezione memorabile, ma abbiamo già dimenticato tutto”.

C’è un prima e un dopo la bomba, nella storia dell’umanità. Se prima del 1945 una guerra poteva comportare immani sofferenze, sconvolgimento di equilibri internazionali, addirittura crolli di civiltà, dopo Hiroshima e Nagasaki è in ballo la sopravvivenza della specie. Il salto, come si capisce, è radicale. “Eccomi a Hiroshima”, scrive Alberto Moravia nel 1982 dalla città giapponese, “ed ecco l’ultima novità: non sono più quel tale individuo a nome Alberto Moravia, non sono più italiano, europeo, ma soltanto membro della specie. E per giunta membro di una specie destinata, a quanto pare, ad estinguersi al più presto”. La circostanza che l’uomo sia riuscito a mettere al servizio delle sue guerre “un furore indifferente e illimitato”, scrive lo scrittore romano, ci obbliga a interpretare la guerra non più solo come un problema geopolitico, congiunturale, legato allo scontro di ideologie, culture, civiltà, bensì un dilemma della specie, una lugubre promessa di estinzione e, ancora una volta, una malattia.

In Non ricominciamo la guerra di Troia, uno scritto presente in questa antologia, Simone Weil mette in rilievo un’evidenza al tempo stesso elementare e sconvolgente. Osservate a distanza, con il senno del poi, a fronte dei disastri e della sofferenza che hanno provocato, tutte le guerre nascono da motivi assolutamente futili. Il rapimento di Elena scatena una serie di scontri e atrocità sempre più sfrenate, sganciate via via dalla loro causa scatenante. Tanto che, scrive sempre Weil, a un certo punto quella causa più che un fantasma (il fantasma di Elena tra le mura di Troia) diventa un dato di irrealtà, un episodio dimenticato dagli stessi belligeranti, i quali continuano a distruggersi a vicenda senza più ricordare perché. E del resto lo stesso scontro con cui si apre L’Iliade – la lite tra Agamennone e Achille per il possesso di Criseide e Briseide – è più futile di una rissa da bar, come fa notare con macabro compiacimento il professor Silk Coleman al principio de La macchia umana di Philip Roth.

Se dalla guerra con cui si apre la storia della letteratura occidentale ci spostiamo al primo omicidio – se dalla violenza collettiva ci muoviamo, vale a dire, su quella individuale, dall’Iliade al mito di Caino e Abele descritto in Genesi –, il nocciolo della questione rimane tragicamente identico. Così come achei e troiani si scannano per qualcosa che non ha lontana mente a che fare con la sopravvivenza dei rispettivi popoli, Caino non uccide Abele per una questione di vita o di morte. A muoverlo non è la necessità, ma l’orgoglio ferito. Dio, senza ragione apparente, ha preferito ai doni di Caino quelli di suo fratello, gettando il primo nella frustrazione e nel risentimento.

Sempre Weil identifica nella dismisura delle ideologie (compresa la democrazia quando diventa un feticcio), nella mostruosità dei sentimenti assoluti una delle micce da cui divampa con più frequenza la follia collettiva della guerra. Elsa Morante, che di Weil era una grande ammiratrice, in Pro e contro la bomba atomica (presente in questo libro) indica nell’astrazione la malattia che rischia, a ogni generazione, di farci ripiombare nella barbarie. E che cos’è l’astrazione, se non il dissennato scassinamento del concetto (e del congegno) di limite? Il limite è umano, concreto, naturale. La dismisura è un fantasma, un’astrazione, un’aberrazione mentale in nome della quale si può sacrificare ogni cosa.
Ma ancora una volta: di che cosa saremmo malati, di preciso?

Siamo troppo stupidi per sopravvivere, sembra di re lo Stanley Kubrick del Dottor Stranamore (nonché il suo più recente glossatore, l’Adam McKay di Don’t Look Up). Depressione cronica e spirito saturnino so no tutt’uno con il nostro segreto desiderio che il mon do finisca, sembra ribattere il Lars von Trier di Me lancholia, che del Dottor Stranamore (concentrato sui tragicomici indizi esteriori della nostra dissennatezza) può sembrare uno struggente controcanto interiore. D’accordo, sembrano ribattere Simone Weil e Elsa Morante, l’Iliade come la Genesi, ma questa stu pidità, questa frustrazione e questo orgoglio perenni, questa depressione e questa malinconia, questa di sperazione, questa incapacità di stare al mondo nella pace nascono da un delirio, da una progressiva fanta smizzazione della realtà, dalla nostra tendenza a tra sformare il concreto in astratto, il tangibile in fetic cio, il sacro limite in basfemia dell’assoluto. Più che semplicemente ammalati, saremmo posseduti da un demone.

C’è una battuta, contenuta in una scena di Patton, generale d’acciaio diretto da Franklin J. Schaffner, che risulta piuttosto emblematica nell’economia del di scorso che stiamo facendo. Patton sta ispezionando il campo dopo una battaglia. Intorno a lui ci sono deva stazione, fiamme, carri armati distrutti, cadaveri, sol dati agonizzanti. A un certo punto il generale solleva tra le braccia un suo ufficiale morente. Lo bacia, si guarda intorno e dice: “come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita!”
A ricordare questo formidabile frammento cinematografico è James Hillman in uno dei suoi ultimi lavori, Un terribile amore per la guerra. In quanto psicologo, qui Hillman sembrerebbe poter evocare il Freud di Al di là del principio del piacere, dove il padre della psicanalisi affrontava con audacia la “pulsione di morte” che muoverebbe i nostri passi, in continua antitesi con lo slancio vitale da cui pure siamo animati. Ma Hillman era uno junghiano, dunque nel suo caso è forse meglio parlare di grandi archetipi, Eros e Thanatos. La guerra è un mito che ci sovrasta, che contribuisce a rappresentarci, che ci possiede, e i mi
ti (“l’averlo riconosciuto è la più grande di tutte le conquiste della mente greca”) sono la normazione dell’irragionevole. Così come a volte agiamo sotto il segno di Venere, in altrettanti casi è Marte a guidare le nostre azioni. È questo dio che avanza armato di lancia e scudo a possederci.
La guerra come malattia, la malattia come possessione demònica?

Tornando all’Iliade, sono gli dèi a intromettersi continuamente nelle menti di achei e troiani, a spin gerli a combattere anche quando i guerrieri hanno la tentazione di deporre le armi, a scaraventarli gli uni contro gli altri fino a che l’entità della distruzione prodotta, il reciproco sfinimento, l’esaurimento delle rispettive energie non li obblighi a fermarsi. (La guerra simile a un disastro naturale, dunque). E nel Macbeth di Shakespeare, le tre streghe con cui inizia la tragedia (“ave a te Macbeth, che sarai re!”) non possono essere interpretate come l’allegoria (l’antropomorfizzazione) di quello stesso tipo di possessione?
Per millenni, dovrei dire per almeno due centina ia di millenni, la violenza è stata per la nostra specie una garanzia di sopravvivenza. Dovevamo uccidere per non essere uccisi. Dovevamo trasformarci in cacciatori per non essere prede. Dovevamo esercitare la violenza per non subirla. Distruggere per non essere distrutti. Ed è stata, questa – a differenza degli altri viventi – una violenza sempre più “mediata” dalla consapevolezza della nostra morte e sempre meno “immediata” (il pericolo improvviso, la necessità pre sente, l’hic et nunc che scatena la violenza negli altri viventi, la questione istantanea di vita e di morte), e dunque sempre più “astratta”.

Perché non riusciamo a guarire dalla guerra? -

Il progresso dovrebbe essere l’emancipazione da questa violenza originaria. Ed in effetti i nostri progressi nel campo filosofico, scientifico, tecnico, così come l’evoluzione dei nostri sistemi sociali, giuridici, economici, hanno reso via via la violenza sempre me no una necessità. Tanto che oggi viviamo in un mondo in cui la violenza non è più indispensabile alla sopravvivenza della specie. Ma il progresso tecnico, scientifico, filosofico, giuridico, economico e politico viaggia in modo infinitamente più veloce rispetto ai cambiamenti nella nostra memoria genetica, nell’antropologia, nella biologia. In una parte della nostra mente, nel nostro cervello, e in una parte nemmeno trascurabile – che lo vogliamo o meno – siamo ancora quelle creature spaventate e ipersensibili, immerse nella notte dei tempi, che si vedono costrette a usare la violenza per scampare alla morte. È questa, direbbe Jung, la nostra ombra. (O il nostro fantasma, la nostra astrazione). La portiamo sempre con noi. La cosa peggiore che può capitarci è fingere che l’ombra non esista, arrivare a credere di non vederla per pacificarsi la coscienza. Certo, possiamo dimenticare l’ombra. Ma tutto ciò che rimuoviamo promette di tornare in forme sempre più terrificanti a fare danni (a seminare morte e distruzione in questo caso) di cui torniamo consapevoli solo quando è tardi, cioè al momento di contemplare un cumulo concreto di rovine. Dare un nome all’ombra che siamo, accettarla, farci i conti, è l’unica speranza per provare a domar la, a convogliarne la sua innegabile energia verso qualcosa di meno dannoso possibile.

Tra gli autori qui antologizzati c’è anche Nelson Mandela. Dopo la fine dell’apartheid, Mandela e i suoi istituirono in Sud Africa “La Commissione per la verità e la riconciliazione”. Si trattava di un tribunale straordinario il cui scopo era raccogliere le testimonianze di oppressi e oppressori, vittime e carnefici, per consentire alle parti di incontrarsi, parlarsi, confrontarsi. Questo serviva innanzitutto per portare gli uni a riconoscere l’esistenza degli altri trasformando i fantasmi in persone, l’astrazione in realtà e, quindi, in un momento successivo, per chiedere e (nel caso) ot tenere il perdono. Si cercò di avviare il paese verso un vero processo di pacificazione. Fu un percorso lungo, difficile, per certi versi “impossibile”, un esperimento di giustizia riparativa che tuttavia, alla fine, diede il risultato eccezionale di non far precipitare il Sud Africa verso un’altrimenti non improbabile guerra civile“,

Sapevo che l’oppressore è schiavo quanto l’oppresso”, scrive Mandela, “perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati del la propria umanità. Da quando sono uscito dal carcere è stata questa la mia missione: affrancare gli op pressi e gli oppressori”. Con quell’esperimento si cercò, insomma, non so lo di emancipare le vittime da un più che comprensibile risentimento, ma gli oppressori dal proprio stesso odio. Si cercò di “spossessarli”, di “liberarli” dai demoni.

Tra le istituzioni giuridiche, il processo è quella che possiede più elementi rituali, dall’uso dei costumi a tutta una serie di formalità cerimoniali, dall’allestimento dello spazio fisico alla determinazione dei ruoli degli attori “in gioco”. Secondo alcuni studiosi, dal la matrice delle cerimonie religiose si biforcano due tipi di pratiche umane, diverse e speculari, fonda mentali entrambe per la tenuta della civitas: il processo da una parte e il teatro dall’altra. Quest’ultimo, nel mondo greco antico, svolgeva al suo momento apicale una formidabile funzione catartica. Gli esperimenti più audaci e riusciti di giustizia riparativa co me quello descritto sono sì istituzioni giuridiche, ma possono svolgere al tempo stesso una funzione catartica, liberatoria.

Non ci riflettiamo mai abbastanza. L’umanità sta consegnando di nuovo il proprio cuore alla guerra. Saranno necessarie le opere di mediazione, le strategie politiche e quelle militari, la diplomazia, le pratiche di dissuasione e quelle di deterrenza, lo scambio di ostaggi, le conferenze internazionali, l’accortezza dei militari, la saggezza dei capi di stato, l’intelligenza della società civile, persino la geopolitica. Ma tutto questo servirà nel migliore dei casi a circoscrivere l’orrore, a rimandare il disastro definitivo, non a guarire il nostro cuore. Il mondo lai co non ha ancora elaborato delle forme rituali capaci di liberarci ciclicamente dalle ombre che ci opprimo no. Servirà anche questo, l’elaborazione di una pratica di tipo nuovo. Avremo bisogno di un’azione di spossessamento, di un esorcismo, di un rito collettivo di liberazione e guarigione, per evitare di far finire anzitempo l’avventura di noi umani sulla terra.

Questo testo è l’introduzione a Profezie bianche. Antologia del pacifismo: da Erasmo da Rotterdam a Gino Strada pubblicato da Feltrinelli. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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