“Il padre Rentería si sarebbe ricordato molti anni più tardi della notte in cui la durezza del suo letto l’aveva tenuto sveglio e poi l’aveva obbligato a uscire. Fu la notte in cui morì Miguel Páramo”.
Se pensate che questo passo – nella traduzione di Paolo Collo – ricordi l’incipit di Cent’anni di solitudine avete ragione, ma avete torto, dal momento che fu Gabriel García Márquez a rubarlo per il suo romanzo più famoso. (In arte il furto è lecito). Siamo nel 1961. Dopo i primi libri pubblicati, García Márquez si sente in un vicolo cieco, è alla ricerca di una via d’uscita. “Conoscevo bene gli autori buoni e quelli cattivi che avrebbero potuto mostrarmi il cammino e, nonostante ciò, avevo l’impressione di girare a vuoto. Non mi consideravo finito. Al contrario: sentivo di avere in sospeso ancora molti libri, ma non focalizzavo un modo convincente e poetico in cui scriverli. Mi trovavo in tali frangenti, quando Álvaro Mutis salì a grandi falcate i sette piani di casa mia con in mano un pacchetto di libri, separò dal mucchio il più piccolo e breve, e mi disse morendo dal ridere: ‘Leggi questa roba, cazzo, e impara!’ Era Pedro Páramo. Quella sera non ho dormito finché non finii di leggerlo per la seconda volta”.
Juan Rulfo
Diversi anni prima che il futuro Nobel decidesse di ambientare nel paese immaginario di Macondo molte delle sue storie, questo scrittore messicano, Juan Rulfo, aveva pubblicato un romanzo piuttosto smilzo che si sarebbe rivelato determinante per la futura letteratura ispano-americana. Molti lo considerano l’atto fondativo del realismo magico. Naturalmente Rulfo non ne aveva l’intenzione.
“Pedro Páramo è un’opera al meno”, scrive Ernesto Franco, “è il lavoro della sottrazione continua. Una narrazione senza le astuzie del romanzo. Un brano di Storia senza date e senza eroi. Un tempo immobile. Una metafisica senza mondo. Non solo un libro di poche pagine, ma un libro con meno pagine”.
Verrebbe da dire che è persino un libro senza pagine, tanta è la sensazione di rarefazione universale, di sparizione, via via che lo si affronta. Pur essendo lo stile di Rulfo essenziale come forse solo Samuel Beckett in quel periodo riusciva a essere sul diverso fronte della letteratura anglofona (dovrei dire francofona) – c’è un avvicendamento di date significativo: Molloy, Malone muore e L’innominabile vengono scritti tra il 1951 e il 1953; Rulfo cominciò a scrivere Pedro Páramo nel 1953, lo pubblicò nel 1955 – si tratta di un libro densissimo, un universo in un guscio di noce. È un romanzo che si legge come un’allucinazione, ma è anche un’opera capace di costruire, attraverso il suo linguaggio scarno e la sua struttura frammentata, l’architettura invisibile di una tradizione letteraria. Dovrei dire: lo scheletro.
Se consideriamo l’unico altro libro pubblicato da Rulfo, La pianura in fiamme (1953), una raccolta di racconti, l’intera opera di questo scrittore germoglia tra due silenzi. Il primo ha a che fare con Il figlio della desolazione, un libro che Rulfo cominciò a scrivere nel 1938 e poi distrusse insoddisfatto. Il secondo durerà trent’anni, fino alla morte del suo autore nel 1986. Non solo Rulfo è dunque uno dei pochi scrittori di cui si può dire che hanno cambiato la storia della letteratura (oltre a generare centinaia di epigoni, e non pochi allievi di genio come García Márquez) ma, caso più raro, è riuscito a farlo con un solo libro di neanche centocinquanta pagine.
Beckett reagì alla prosa scatenata del suo maestro James Joyce riducendo la propria lingua all’osso. In modo uguale ma contrario, molti esponenti del “boom latinoamericano” si troveranno a far esplodere la propria lingua per differenziarsi dalla misteriosa secchezza di Rulfo. Anche perché quel particolare tipo di magia non è riproducibile.
Di cosa parla Pedro Páramo?
La storia inizia con Juan Preciado, un giovane che promette alla madre morente, Dolores, di recarsi a Comala, un remoto villaggio messicano, per incontrare il padre che non ha mai conosciuto. Si tratta di Pedro Páramo, un uomo potente e crudele. Così almeno fa intendere la donna. “Non chiedergli nulla”, dice, “pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a darmi e non mi diede mai”.
Cosa deve riscattare Juan? Stiamo parlando di onore? Di rispettabilità? Di denaro? Di vendetta?
Ci sono molti letti di morte nella storia della letteratura. Con Rulfo siamo nel tardo modernismo ed è difficile non pensare a Stephen Dedalus che in Ulisse (si tratta forse del primo flashback di quel romanzo, un episodio richiamato sin dal primo capitolo) rifiuta di inginocchiarsi davanti alla madre morente che gli chiede di pregare per lei. Stephen è un giovane irlandese arrabbiato che sente l’oppressione della Chiesa cattolica. Fa proprio il motto di Lucifero – Non serviam! – ma si condanna in questo modo a venire perseguitato dallo spettro di una madre verso la quale ha dimostrato così poca pietà.
Sull’amore filiale di Juan Preciado sembrerebbero non esserci dubbi. “Lei era pronta a morire e io a prometterle qualsiasi cosa”, gli fa raccontare Rulfo, “non potei far altra cosa che dirle che l’avrei fatto, glielo assicurai e continuai a dirglielo anche dopo che alle mie mani costò fatica liberarsi dalle sue mani morte”.
Juan Preciado parte dunque alla volta di Comala. Il paese sembra prendere forma da un miraggio. Juan avanza nella canicola, nell’aria bollente di agosto, attraversa una pianura verde e gialla per il mais maturo, ma non è chiaro se stia avanzando nei ricordi di sua madre. Man mano che si avvicina alla meta, la sensazione di straniamento aumenta. Juan incontra un mulattiere. Gli chiede indicazioni per Comala. Il mulattiere risponde che sta andando proprio da quelle parti. Possono fare un po’ di strada insieme. Juan chiede se conosce Pedro Páramo. Certo, risponde il mulattiere: quell’uomo è un rancore vivente, dice. Era mio padre, fa Juan. Era anche mio padre, risponde il mulattiere. E frusta gli asini con forza, senza motivo. Il ritratto della madre che Juan ha nascosto nel taschino della camicia inizia a questo punto a scottare, sono vampate strane, come se anche lei stesse sudando.
Arrivato a Comala, Juan chiede informazioni tra gli abitanti del paese. Quasi non ce ne sarebbe bisogno. Tutti parlano di Pedro Páramo. Tutti sembrano aver avuto a che fare con lui. Hanno ruotato intorno al potere che quell’uomo ha incarnato, ne sono stati beneficiati o distrutti, accarezzati o traditi.
Juan Rulfo
Pedro Páramo è (o era) un cacicco. Con questo termine si indicavano i capi di alcune comunità tribali messicane. In epoca più recente erano quei grandi proprietari capaci di soggiogare le comunità locali col denaro e all’occorrenza con le armi, arrivando a controllare la vita economica e sociale di intere regioni. Pedro Páramo, dai racconti raccolti da Juan, sembra avere le peggiori caratteristiche del cacicco: carismatico, violento, donnaiolo, prepotente, egoista ma anche (in certi uomini il potere è una belva che divora dall’interno) devastato dalla propria stessa abitudine alla sopraffazione, irrimediabilmente solo, malinconico, ferito, disilluso, in attesa della morte.
In attesa, o già morto?
All’inizio sono sensazioni ineffabili, poi, grazie a indizi sempre più frequenti, Juan Preciado comincia a sospettare che le persone che incontra nel paese dov’è giunto non sono ciò che sembrano. Non si tratta di esseri umani vivi. Sono le voci di individui morti, e Comala è un paese abitato da fantasmi.
Quello di Juan Preciado non è dunque un viaggio nello spazio ma nel tempo. Forse anche lui è fatto della stessa sostanza in cui il lettore è ormai immerso. Non fa in tempo a domandarselo, ed ecco, è già morto. Era morto prima ancora di partire. Chissà da quando, fa parte anche lui di questo coro di voci senza corpo, del lamento che si leva dal paese esistente e inesistente di Comala.
Vengono in mente Giro di vite di Henry James e l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Ma pur essendo successivo a queste grandi opere, Pedro Páramo sembra venire persino da più lontano. Chi ha mai potuto concepire un libro simile?
Juan Rulfo nacque nel 1917 a Sayula, ma crebbe a San Gabriel, un piccolo villaggio nello stato di Jalisco, dove il paesaggio era fatto di deserto e di campi aridi, saturi di silenzio e di violenza. Il Messico in quegli anni era ancora scosso dalla Rivoluzione e dalla Guerra Cristera, una lotta feroce tra il governo e gruppi di fanatici cattolici che si opponevano alla laicizzazione del paese. Il padre del futuro scrittore, Juan Nepomuceno Rulfo, era un proprietario terriero, fu assassinato in un agguato di criteros quando Juan aveva sei anni. Tre anni dopo, anche sua madre morì. L’infanzia di Juan fu segnata dalla perdita, dal disorientamento. Rimasto orfano, crebbe in un mondo di assenze. Visse in orfanotrofi e collegi cattolici, ambienti rigidi, dominati da un persistente senso di colpa, e da una disciplina oppressiva. Rulfo fu un osservatore silenzioso di questi ambienti, assorbì le storie dei contadini, delle vedove di guerra, degli uomini che vagavano senza pace dopo la rivoluzione.
Diventato adulto, non mostrerà mai un vero rancore verso gli assassini di suo padre, solo un profondo dispiacere, alimentato da un dolore ancora più profondo, misterioso e immedicabile.
È da questa matrice che nascono i personaggi di Pedro Páramo, anime erranti in un purgatorio senza redenzione.
Foto di Juan Rulfo (via Pinterest).
Scrive sempre Ernesto Franco: “A Comala, che vuol dire luogo sulle braci, non c’è davvero più nessuno, sono tutti morti, l’unica cosa di vivo sembra fino a un certo punto proprio il racconto di Juan Preciado che percepisce il coro di quelle voci senza suono. Ma è Juan Preciado stesso ad annunciare la propria fine e a diventare da quel momento in poi solo un mormorio tra gli altri”.
Da lì in poi il racconto procede ancora più frammentato, rarefatto, sembra entrare nei territori sottili che l’animo umano percepisce in momenti molto rari (è quando abbiamo l’impressione di sfiorare i grandi misteri dell’esistenza), sensazioni a stento riferibili e di cui forse solo la poesia, la scrittura letteraria al suo apice, possono offrire testimonianza.
Con Pedro Páramo “l’America latina viene liberata dai suoi colori e dal suo folklore, dalla gabbia della sua cronologia e dal sangue dei suoi orrori per essere raccontata come un mito universale che arriva all’immaginario di tutti gli uomini”, scrive Ernesto Franco.
Al tempo stesso Pedro Páramo deve molto a quella tradizione, a quel folklore. Le anime mormoranti di Comala richiamano il Día de los muertos, quando i defunti tornano per un breve periodo e riprendono contatto con i vivi. Se il Día de los muertos è però colorato, ironico, giocoso, affollato di teschi sorridenti e decorati, Pedro Páramo è un’opera spettrale, dominata dal silenzio e dalla desolazione. Non c’è la vitalità della celebrazione messicana, ma un senso di oppressione e colpa.
Rispetto alla tradizione popolare, Pedro Páramo porta il tema della morte e della transitorietà a un livello universale, uscendo dal contesto squisitamente messicano. Il suo modo di trattare i morti è più affine alla letteratura modernista (persino a quella esistenzialista) che al folclore nazionale. In questo, Pedro Páramo ricorda Sotto il vulcano. Se ciascun fondatore di un movimento letterario paga a propria volta un debito con i maestri precedenti, quelli più immediati di Rulfo riguardano Malcolm Lowry e William Faulkner (“il passato non è morto, non è nemmeno passato”). Ma Lowry e Faulkner scrivevano in inglese. La letteratura messicana, con Rulfo, smette in questo modo di rappresentare solo se stessa e diventa uno strumento di esplorazione di tutti gli uomini.
Juan Rulfo
Uno degli aspetti più straordinari di Pedro Páramo è la sua struttura narrativa non lineare. La storia si snoda in una serie di frammenti, di voci sovrapposte, di ricordi spezzati. Passato e presente si mescolano, le voci dei vivi e dei morti si confondono. Rulfo costruisce un labirinto in cui il lettore si perde, proprio come Juan Preciado.
Questo modo di raccontare è stato spesso paragonato, come ho già scritto, a quello di William Faulkner, in particolare a L’urlo e il furore, a Mentre morivo, ad Assalonne! Assalonne! Ma c’è anche un’eco (e qui torniamo a una certa America Latina) della tradizione orale: i racconti tramandati dai contadini messicani, le storie sussurrate al tramonto, le leggende che si confondono con la realtà e la plasmano verso il futuro.
Quando Rulfo smise di scrivere, si dedicò alla fotografia. Non era un ripiego, ma un altro modo per raccontare la vita. Viaggiò attraverso il Messico rurale, documentò un paese abbandonato e per questo eterno, i volti scavati di chi era rimasto ai margini. Ogni sua immagine sembra un’istantanea di Comala. Nelle fotografie di Rulfo, come nei suoi racconti, il tempo sembra immobile. Aleggia la stessa malinconia, la stessa solitudine. I paesaggi che ritrae sono sterili, spopolati, come le terre su cui si aggirano i fantasmi della più breve opera-mondo della letteratura novecentesca.
Foto di Juan Rulfo (via meer.com).
Scrive Ernesto Franco alla cui cara memoria (1956-2024) questa puntata di Piaceri sconosciuti è dedicata: “Fra le molte fotografie scattate da Juan Rulfo ce n’è una scattata nel 1955, che appartiene alla sequenza intitolata I musicisti. In primo piano, di sbieco, c’è un grande tamburo, poi, sempre con la stessa inclinazione, appoggiati per terra, i piatti di una tromba e, più a destra, quasi a sparir dal quadro, due tromboni. Ancora di taglio, la luce del sole al tramonto. Colline, in fondo, ma più basse. Siamo su un altopiano. Sparsi qua e là, dritti su un treppiedi, diversi leggii molto semplici senza gli spartiti. Sembrano tanti scheletri che si reggano in piedi. Gli uomini appaiono sempre più lontani, di spalle. Se ne stanno andando. È lo sguardo di Juan Rulfo sul mondo. Non del tutto un luogo”.
Strumenti musicali e spettatori a Tlahuitoltepec, Oaxaca, 1955 (foto di Juan Rulfo).
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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