PIACERI SCONOSCIUTI 5 - Lucy
articolo

Nicola Lagioia

PIACERI SCONOSCIUTI 5

26 Ottobre 2024

Qualche tempo fa mi è capitato di assistere a un seminario sull’arte di fare teatro tenuto da Ermanna Montanari. Chiamarlo seminario non è corretto, tenendo conto di quel che è accaduto. Ermanna Montanari, con Marco Martinelli fondatrice a Ravenna del Teatro delle Albe, si può considerare un’attrice quanto Roger Federer (nella definizione di David Foster Wallace) è circoscrivibile al tennis. “Il tennis come esperienza religiosa”. “Il teatro come esperienza sacra”. Non sono definizioni del tutto calzanti. Non sono neanche del tutto sbagliate. 

Il seminario in questione si teneva a Lecce, nei Cantieri Teatrali Koreja, un presidio che esiste dal 1985. Dal 1998 i Cantieri Koreja hanno spostato la loro sede a Borgo Pace, nella periferia della città. Si tratta di una grande struttura moderna, ben attrezzata, con tanto di foresteria per gli artisti che vanno in scena o che arrivano lì a tenere seminari e laboratori. Di fronte alla struttura c’è un grande campo di terra rossa e ulivi. Non esagero nel dire che c’è un continuo scambio di energie tra la campagna e il teatro. È un aspetto indimostrabile, ma vi assicuro che questa cosa si sente.

A Lecce c’è Koreja. A Bari c’è il Teatro Kismet Opera. Anche quest’ultimo è nato negli anni Ottanta (1981), e anche in questo caso la sede si trova nella periferia della città. Non la campagna, per il Kismet si tratta della periferia della periferia industriale (una variazione, per la terra di Bari, del Salento come “Sud del Sud dei santi” secondo la celebre definizione di Carmelo Bene), in un posto dove non c’è nulla. Per meglio dire: un tempo il teatro sorgeva tra discariche e prostitute, oggi sorge tra prostitute e capannoni e depositi e l’eco di un centro commerciale.

Non siamo al San Carlo di Napoli. Non siamo al Piccolo di Milano. E nemmeno al Petruzzelli di Bari. Ciò nonostante, ogni sera (in certi casi ogni mattina, ogni pomeriggio) le sale dei Cantieri Koreja e quelle del Kismet Opera traboccano di gente. Sale da quattrocento posti completamente esaurite. Sempre. Cittadini che si vestono, escono di casa, attraversano i campi (o il nulla urbano) e si dirigono a teatro.
Dopo il Covid, finita l’emergenza, abbiamo assistito alla desertificazione delle sale cinematografiche. Al teatro questo non è successo. Mi sono ritrovato uno tra cinque spettatori a guardare film che avevano appena vinto l’Oscar, avevano appena vinto Cannes (l’atmosfera era deprimente, da cinema porno senza porno). Molti teatri, a quella stessa ora, in quegli stessi giorni, erano pieni. Del resto, una parte dell’esperienza cinematografica (la visione del film) è replicabile a casa. Il teatro o è dal vivo o non esiste.

Ai festival cinematografici la gente ci va ancora. Come si capisce, l’aspetto rituale è importante. A teatro l’elemento rituale non è però una parte dell’esperienza, è tutto. Prima ancora dei cinema (intesi come luoghi fisici), e prima ancora delle biblioteche, il teatro è sul piano artistico e culturale il garante per la tenuta della polis almeno quanto il tribunale lo è sul piano giuridico e i cimiteri, più delle chiese, su quello religioso.

Dirò che non sono un esperto di teatro. Ho amici che vanno a tutti gli spettacoli, conoscono le tendenze, le compagnie da tenere d’occhio, i nuovi attori e le nuove attrici. Sono informatissimi, ai limiti dello specialismo accademico, e com’è ovvio sono molto appassionati. Io sono un semplice spettatore, piuttosto incostante. In certi casi, diciamo negli ultimi 25 anni, mi è capitato tuttavia di assistere a spettacoli teatrali (o era il “teatro senza spettacolo”? Ancora CB) che hanno esercitato su di me un reale potere (a volte un pesante potere) trasformativo. Sono entrato nella “zona” (la chiamerò così) che ero una persona, ne sono uscito diverso.

PIACERI SCONOSCIUTI
La newsletter di Nicola


Una pagina su un quotidiano dell’epoca, dall’archivio de La Stampa.
Ermanna Montanari.
 

Torniamo al seminario di Ermanna Montanari.
 
Come scrivevo, Koreja aveva organizzato questo laboratorio, nell’ambito di un progetto chiamato Suole di vento. Il titolo omaggiava un precedente lavoro di Goffredo Fofi che a propria volta omaggiava il modo con cui Paul Verlaine chiamava Arthur Rimbaud. Per tre giorni attori di teatro, scrittori, disegnatori, pittori, scenografi, musicisti, giornalisti si sarebbero alternati in spazi molto belli della struttura e qui avrebbero provato a raccontare i segreti della propria professione, la storia del proprio percorso. Si sarebbero rivolti a un pubblico di seminaristi provenienti da tutta Italia, e (mi sono subito reso conto) appartenenti a ogni fascia anagrafica. Ventenni, trentenni, sessantenni, settantenni sarebbero arrivati a Lecce per seguire questi che, come scrivevo, sarebbe improprio chiamare seminari o corsi. Pratiche, ecco la parola giusta.

Pratica di scrittura letteraria. Pratica di scena poetica. Pratica di magia sonora. Pratica visionaria. Pratica di scrittura in scena. Pratica di narrazione politica. Pratica del segno. Pratica di resistenza. Pratica di narrazione sociale. Pratica corale.

Questi, i titoli di alcuni incontri. A me era stato chiesto di tenere una Pratica di scrittura letteraria. A Pippo Del Bono una Pratica di scena poetica. A Ermanna Montanari una Pratica di magia sonora. E così via. Alla fine delle tre giornate – passando dal “racconto della pratica” alla effettiva “messa in pratica” – Ermanna Montanari sarebbe poi salita sul campanile del Duomo, nel centro del capoluogo salentino e, da lassù, avrebbe letto per la cittadinanza (che durante l’estate, a Lecce, è composta oltre che da normali cittadini da migliaia di turisti) il XXXIII Canto del Paradiso. Dal laboratorio di periferia al cuore della città.
Bisogna immaginare così questa struttura messa di fronte alle campagne che si riempie di persone venute ad ascoltare una decina di individui impegnati da anni in varie discipline, ora dopo ora, giorno dopo giorno, sera dopo sera (ogni sera, come una sorta di anticipazione del finale, sarebbe andato in scena un piccolo spettacolo in una delle sale dei Cantieri), pranzando insieme, chiacchierando, allentando la tensione tra una Pratica e l’altra, in attesa di una lectura Dantis la quale, piano piano, si sarebbe rivelata per ciò che davvero poi sarebbe stata. Non una performance, non un’esibizione, non una lettura virtuosa, non dell’intrattenimento alto, non uno sfoggio di bravura, o di cultura, e nemmeno naturalmente uno spettacolo teatrale. Ci torno dopo.

A Ermanna Montanari era stata affidata una sala ampia, luminosa, molto bella, una sorta di palafitta in vetro e legno, tipo casa sull’albero di forma ellittica, capace di contenere un centinaio di persone. O almeno io la ricordo così. Una sala che sarebbe stata inaugurata proprio quel giorno, dedicata ad Alessandro Leogrande, che a Koreja è stato vicino.

“Troppa luce!”, ha detto Ermanna Montanari non appena è arrivata. E il primo istinto è stato per lei quello di spostare sedie, tavoli, soprammobili, togliere certi oggetti e aggiungerne degli altri, in modo da creare, pian piano, un’atmosfera diversa da quella che aveva trovato. Inaugurare uno spazio mai usato è più complicato che parlare in un luogo già carico di storie, esperienze, energie. Per quanto Ermanna Montanari non avesse quel giorno né il tempo né la possibilità di ribaltare la sala (avrebbe molto volentieri fatto prevalere l’ombra sulla luce, per esempio; e se ci fossero stati meno iscritti – si erano iscritte un’ottantina di persone – li avrebbe preparati uno a uno, da quel che ho capito forse con delle tecniche di respirazione), era chiaro il suo intento: riallestire “lo spazio” che la avrebbe vista non in scena ma impegnata a parlare a un folto gruppo di persone desiderose di ascoltarla. Avrebbe voluto insomma la possibilità di modificare l’atmosfera intorno, trasformare un bellissimo ambiente ancora inerte – o se vogliamo, per quanto bella, una semplice stanza – nella “zona”.

(“Pensa che quando ci vediamo con Goffredo”, mi dirà Ermanna alla fine della sua Pratica, alludendo a Fofi, “anche se dobbiamo solo cenare nella casa di uno dei due, o ancor più se ci troviamo a cenare in casa di altre persone, non riusciamo a resistere, così ci mettiamo a spostare mobili, tavoli, piatti, fino a quando non si crea l’atmosfera giusta per la conversazione”).

Ora. Nonostante Ermanna Montanari (cosa che ripeterà diverse volte nelle ore del suo intervento) non abbia avuto, quella mattina, la possibilità di ridisporre a piacimento il proprio spazio d’azione, non appena si è seduta dinanzi ai seminaristi, e ha cominciato a parlare, l’ambiente intorno a noi si è subito, magicamente, modificato. Si è creata un’atmosfera di grande attenzione, di raccoglimento. A poche file da Montanari c’era Marco Martinelli, l’altro cuore del Teatro delle Albe (lui scrive gran parte degli spettacoli e ne cura la regia, lei li incarna, o li realizza), il quale svolgeva il ruolo del contraltare silenzioso per il lungo discorso della sodale.
 
Una pagina su un quotidiano dell’epoca, dall’archivio de La Stampa.
Martinelli e Montanari.

Ma di cosa ha parlato Ermanna Montanari nella sua Pratica di magia sonora?
La dimensione in cui eravamo finiti tutti quanti era talmente intima, profonda, delicata, magica, da risultare per molti versi intestimoniabile. Possedeva al tempo stesso uno strano, mai dichiarato, ma altrettanto percepito, attributo di riservatezza (la conseguenza di quella intimità, di quella delicatezza, voglio immaginare), tanto che temo di violare un segreto per il fatto di scriverne. Mi limiterò a restituire allora pochi frammenti del discorso di Ermanna Montanari. (A onore del merito, devo ricordare che Montanari ha condotto la sua Pratica affiancata da Alessandro Toppi, esperto di teatro, giornalista, amante delle arti, un bravissimo sparring partner – per lei e gli altri protagonisti delle Pratiche – che l’ha sollecitata nei momenti salienti del racconto).

Uno. Ermanna Montanari ha raccontato di come lei e Marco Martinelli, quando si conobbero, diversi decenni fa – come conseguenza del loro incontro, dell’interesse e dell’amore che provarono l’uno per l’altra – decisero di mollare tutto per dedicarsi al teatro. Fecero una specie di voto di povertà, si immersero in un lungo apprendistato incuranti dei riconoscimenti (non sapevano se sarebbero arrivati, i riconoscimenti e il successo), della visibilità, della banale sostenibilità di quel tipo di scelta. Imparare, esercitarsi, sperimentare, tentare: non c’era nulla di più importante. “Messa alle strette, mi è capitato anche di rubare”, ha detto Ermanna Montanari. Mentre raccontava, era palpabile l’ammirazione di noi ascoltatori. Ammirazione per chi ha la forza di inseguire i propri desideri (per chi risponde a un’oscura chiamata) in modo così totalizzante, con pervicacia, pazienza, umiltà, senza aspettarsi nulla, confidando in un prodigio che potrebbe non arrivare. La disciplina artistica come ultima pratica religiosa consentita in questa parte di mondo.

Due. Ermanna Montanari ha detto che, anche dopo tutti questi anni, dopo decine di spettacoli (“spettacolo” non è la definizione giusta) e migliaia di palchi calcati in tutto il mondo, ancora oggi, prima di andare in scena, il suo più grande desiderio è che il teatro bruci.

Tre. Ermanna Montanari ha detto che è cresciuta in una famiglia contadina. Da piccola aveva problemi alle anche e alla schiena. Allora certi parenti suggerirono di metterla con i piedi nel terreno, di infilarla cioè proprio in una buca tra i campi come fosse stata una pianta o un giovane albero, suggerimento che gli adulti che badavano a lei seguirono. La piccola Ermanna fu materialmente piantata nel terreno, sotto il sole, iniziativa che a quanto pare risolse alcuni dei suoi problemi alle anche e alla spina dorsale.

Quattro. Ermanna Montanari ha detto che da ragazza era invidiosa di sua sorella, o che comunque i sentimenti che la legavano alla sorella erano molto problematici.

Cinque. Soprattutto, Ermanna Montanari ha detto di non considerarsi un’attrice. Un’attrice entra nel personaggio, si immedesima. Diventa volta per volta Maria Antonietta, Giovanna d’Arco, una santa, una prostituta, una guerrigliera, una contadina, una capa di Stato, una scienziata, un’assassina.
Questo, ha detto Ermanna Montanari, lo fanno gli attori. Io non mi immedesimo, mi faccio da parte. Faccio spazio. Mi tiro via e mi metto in attesa. Aspetto che arrivi qualcos’altro. Ha fatto intendere che la sua Praticaè evocare presenze, la voce che noi sentiamo non è più la sua, lei è il tramite, e qualcos’altro, a un certo punto, entra in scena. L’attore come medium.
“Io non metto in scena, tolgo dalla scena”, diceva CB.

Sei. Verso la fine dell’incontro, uno degli spettatori (seminaristi, praticanti, come chiamarli?) ha chiesto a Ermanna Montanari se tutto questo lavoro, questa fatica, queste trasfigurazioni, questo togliersi di mezzo e di scena, questo auspicare che i teatri prendano fuoco, questa ostinazione, questa devozione, questa umiltà, questo riuscire, ogni tanto, a fare del grande teatro, l’ha poi aiutata a risolvere i problemi con sua sorella. No, ha risposto Ermanna Montanari, per niente. Adesso abbiamo l’età che abbiamo e io la invidio ancora molto.

Sette, otto, nove, venti. Ogni tanto Ermanna Montanari si è fermata. Si è guardata intorno sconsolata. Ha detto: che peccato, non poter dare un’aggiustata a questa stanza.

Dopo circa due ore che Ermanna Montanari stava parlando, nella sala è entrata una ragazza (eravamo tra teatranti, gente esperta di certe cose) e ha bruciato una bacchetta di incenso, quindi ha suonato – un suono leggerissimo – un campanellino, e quello era il segnale che la Pratica di magia sonora si stava concludendo. L’atmosfera magica, anziché crollare di colpo, ha cominciato a disfarsi con lentezza, noi siamo usciti pian piano da qualcosa che non era una trance, ma non rappresentava nemmeno il nostro stato di coscienza ordinario.

Finita la Pratica, sono andato ad abbracciare Ermanna. (Pensavo di aver fatto bene, poche ore prima, con la mia Pratica di scrittura letteraria, anzi sono certo di avere fatto bene, ma quella di Ermanna era un’altra partita). Anche se ci vediamo poco, ho la fortuna di conoscerla personalmente. Ma non la conoscevo, personalmente, la prima volta che l’ho vista sulla scena. Così, mentre la abbracciavo, nei pochi istanti di quella vicinanza fisica, mi sono ricordato (anche qui: “ricordare” non è la parola esatta) di alcune volte in cui, in questi anni, il teatro ha esercitato su di me l’effetto travolgente di cui scrivevo prima. La sensazione è tutto, la scrittura è lenta. Proverò a riassumere male i momenti di quell’abbraccio, i ricordi che sono affiorati.
 
Una pagina su un quotidiano dell’epoca, dall’archivio de La Stampa.
L’Amleto della Socìetas Raffaello Sanzio.

Primo attimo dell’abbraccio. Siamo a Bari. È il 17 febbraio del 2001. In uno stanzone ricavato nelle profondità del vecchio Stadio della Vittoria, si tiene una rappresentazione teatrale – dovrei dire un’implosione teatrale – di incredibile forza. 

È molto strano che, anziché in un teatro vero e proprio, questo esperimento venga allestito all’interno di una struttura sportiva, e una struttura di questo tipo: un luogo, se non proprio abbandonato, in dismissione. Sono andato per anni, da ragazzino, a vedere le partite del Bari nel vecchio Stadio della Vittoria (dal 1990 la locale squadra di calcio gioca invece al San Nicola, la moderna struttura progettata da Renzo Piano), un luogo che oggi appare imponente ma spettrale. Si tratta di un impianto costruito tra il 1933 e il 1934, classica architettura del ventennio, collocato in una zona della città piuttosto abbandonata. Abituato a sedermi in curva nord, in curva sud, o sulle gradinate dei distinti, avrei dovuto immaginare, negli anni, che lo stadio ospitasse al suo interno anche ambienti molto diversi. Ad esempio, gli spogliatoi.

Tuttavia, non devo averci mai pensato troppo. Resto di conseguenza spiazzato quando conducono me e altri centocinquanta spettatori in questo stanzone in cemento armato. Sembra un hangar, un bunker, o meglio ancora (sapere di trovarsi in un impianto sportivo non è mai stato meno rassicurante) una di quelle strutture dove, in un’epoca non remota, in qualche paese dell’America Latina venivano ammucchiati gli oppositori di regime prima della liquidazione. Ciò che va in scena oggi è uno spettacolo della Socìetas Raffaello Sanzio. Anche il titolo è straniante (per quanto il teatro di ricerca ci abbia abituati a tutto), vale a dire: Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco. Non ci saranno repliche qui a Bari. Unica rappresentazione. O forse dovrei dire: unica esecuzione. 

È, questo Amleto, uno spettacolo che la Socìetas porta in giro dal 1992. Quella di stasera è una delle ultime volte che verrà rappresentato. Da una parte è vicino il momento in cui la Socìetas esploderà in tutta Europa, e inizierà con gli spettacoli giganteschi, gli allestimenti ricchissimi e sontuosi, e apocalittici, e anche molto costosi.

(Mi viene da pensare al passaggio dai Pink Floyd di Syd Barrett nei piccoli club ai Pink Floyd delle adunate di massa tra i raggi laser). 

Dall’altra, tutto l’Amleto-mollusco della Socìetas si regge su un solo attore, Paolo Tonti, che con la Socìetas non lavorerà in futuro, e che qui viene intrappolato in una scenografia claustrofobica e terrorizzante, tutta ferro ed esplosioni elettriche. L’Amleto della Socìetas è una creatura che è e non è (“essere o non essere” diventa “essere e non essere”), la osserviamo in preda a spasmi, comportamenti autistici, la vediamo regredire, da adulto a bambino, da bambino a feto, da feto a mollusco. Lo spettacolo è insieme una tortura e un esorcismo. Difficile da sostenere nei momenti più disturbanti (a un certo punto l’Amleto-feto-mollusco comincia a scrivere sui muri usando i propri escrementi), tanto che ogni dieci minuti almeno uno spettatore si alza e fugge via in preda all’angoscia, o alla nausea. Siamo in un gorgo orrorifico. Non ero pronto a un’esperienza simile. Resto inchiodato alla sedia. E, come dire, mi succedono delle cose. Qualcosa, dentro di me, si sposta in maniera violenta, non so quanto salvifica. 

Non so se posso dire di aver ricevuto del bene, perlomeno nell’immediato. In un’intervista di anni dopo a Romeo Castellucci, alcuni aspetti di quello che è successo mi si sono chiariti. L’intervistatore chiede: “In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?” Romeo Castellucci risponde: “In teatro si coglie ancora il rapporto al sacro là dove vi è un corpo di attore. L’attore infatti ritorna sulla scena, ma solo come riflesso abissale dell’animale sacrificale. La violenza rimane, ma è trasfigurata da un nuovo coltello, quello dello sguardo dello spettatore”.
Ho assistito dunque a un sacrificio? Sono stato costretto, o perlomeno spinto, a compiere un sacrificio?
 
Una pagina su un quotidiano dell’epoca, dall’archivio de La Stampa.
Un’altra immagina da l’Amleto.

Secondo attimo dell’abbraccio. Da qualche parte, in Italia, in un inverno del 2008, o del 2009. L’esperienza è stata così forte che ho dimenticato il posto in cui l’ho vissuta. Forse un teatro a Roma. Il fatto è che siamo stati scaraventati per più di un’ora in un altrove. Un’isola, lontana nello spazio e nel tempo, eppure conficcata nel nostro panorama interiore da quasi sempre. Va in scena L’isola di Alcina, del Teatro delle Albe. È la prima volta che vedo Ermanna Montanari. Lo spettacolo è scritto da Nevio Spadoni. La regia è di Marco Martinelli. Sulla scena, unica presenza, c’è Ermanna Montanari. Alcina è un personaggio preso dall’Orlando furioso. È una maga, o una strega, che seduce i cavalieri erranti. Nella versione del Teatro delle Albe, uno di questi cavalieri, Ruggiero, si svincola dal sortilegio di Alcina, e la abbandona, lasciandola sola nella sua isola, alle prese con la pazzia amorosa, con la disperazione. 

Per tutto il corso dello spettacolo, Ermanna Montanari-Alcina racconta la sua vicenda. Lo fa in dialetto romagnolo, un idioma per me incomprensibile. Non capisco una sola parola di ciò che dice (o canta), eppure, a livello emotivo, il suo monologo dialoga in maniera evidente con le mie parti profonde, con le emozioni di tutti gli spettatori venuti qui. La sensazione all’inizio è davvero straniante. Immaginate che una persona vi stia di fronte e vi parli in cinese, tedesco, turco, una lingua di cui conoscete due o tre parole al massimo, e nonostante voi non abbiate idea di ciò che questa persona stia dicendo a livello informativo, sul piano emotivo il dialogo al contrario procede in maniera chiarissima.

Una comunicazione non verbale che passa per l’alfabeto. L’equivalente potrebbe essere la musica, le volte in cui ci siamo emozionati, o commossi, ascoltando una canzone di cui non capivamo nulla a livello del testo. Solo che qui tutto è affidato alle parole, le quali dunque – mentre Alcina-Montanari parla, si dispera, urla, sentenzia, maledice, si commisera, chiede pietà, torna a mordere e a mordersi, a divorare e divorarsi raccontando la sua terribile vicenda amorosa – non significano più qualcosa, ma sono il veicolo su cui viaggia qualcos’altro. Queste parole annegano il significato delle cose che dovrebbero indicare (una cosa per ogni parola) nel più vasto oceano delle sonorità emotive. Per dirla con la fisica moderna, cessano di essere corpuscolo e diventano onda. Diventiamo tutt’uno con la furia, la disperazione, la potenza viva e morta, obliata e perennemente rammemorata, di Alcina.
 

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Guarda il video di “L’isola di Alcina” di Ermanna Montanari
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Terzo momento dell’abbraccio. Torino, 9 maggio 2018, Officine Grandi Riparazioni. Senza che potessi prevederlo, in questo terzo prodigio teatrale c’è la mia mano. Una mano del tutto inconsapevole, bisogna dirlo. Ma neanche una mano, un gesto. Una preterintenzionaità. Nel 2018 sono il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino. Da qualche anno, abbiamo ripristinato la preinaugurazione. La sera prima che si apra la fiera, va in scena un concerto, una lettura, uno spettacolo. Per fare tutto bene, bisogna cominciare a lavorare a questa serata quattro o cinque mesi prima. Il 2018 saranno quarant’anni dall’uccisione di Aldo Moro. Mi sembra una buona ricorrenza, anche perché la vicenda di Moro è ancora un nervo scoperto. 
Siamo nei pressi dell’autobiografia della nazione. 

In quel periodo, Fabrizio Gifuni non è ancora diventato l’Aldo Moro di Esterno notte di Marco Bellocchio, dunque mi sto muovendo in tempi poco sospetti. Perché mi viene in mente di chiedere a lui? Me lo domando adesso. All’epoca, quando gli telefonai, questi ragionamenti dovevano essere tutti impliciti, inconsci. Per prima cosa trovavo e trovo Fabrizio Gifuni un attore eccezionale. Nel 2018 l’ho già visto molte volte sulla scena, alle prese con Gadda, con Pasolini, con Camus, rimanendone sempre impressionato. Devo aver pensato anche alle origini di Fabrizio Gifuni, la sua famiglia viene da Lucera, anche Aldo Moro era pugliese. Poi avrò forse pensato al fatto che Gaetano Gifuni, il padre di Fabrizio, era stato segretario generale della Presidenza della Repubblica sotto i settennati di Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi. Dunque all’orecchio di Fabrizio, mi devo essere detto, sarà arrivato almeno qualche eco di mobili spostati tra le stanze del Palazzo.

Su come funziona il potere in Italia, pur essendoci lontano in prima persona, deve essersi fatto diverse domande. Tutto questo lo penso adesso. Allora (sarà stato il dicembre del 2017) mi limito a prendere in mano il telefonino e a chiamare Fabrizio (mille ragionamenti inconsci racchiusi nella pressione del dito indice sul display di uno smartphone). Propongo a Gifuni di “fare qualcosa su Aldo Moro” in occasione della preinaugurazione del Salone del Libro, a quarant’anni dal sequestro e dall’omicidio dello statista di Maglie. Fabrizio Gifuni dice “ci penso”, qualche giorno dopo mi dice “d’accordo, proviamoci”, e a questo punto io lo perdo di vista per dei mesi. Non ci penso più. Il Salone del Libro prevede almeno un migliaio di eventi grandi e meno grandi da organizzare, il direttore può avere qualche idea, concepire pochi progetti, supervisionarne molti altri, dare un indirizzo, non certo seguire (purtroppo) passo dopo passo le cose che gli interessano di più. Tutto questo per dire che io poi Fabrizio Gifuni l’avrò risentito due o tre volte prima della preinaugurazione, e poi l’ho visto direttamente in scena.

Sapevo che nei mesi di preparazione, aveva lavorato ai testi con Christian Raimo, con Miguel Gotor (autore per Einaudi de Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano) e con Francesco Biscione. Lo spettacolo su Moro, ci viene comunicato una ventina di giorni prima, si intitola Con il vostro irridente silenzio. Un titolo che è al tempo stesso una condanna diretta ad altri e la cronaca della propria condanna, una violenza restituita, un’accusa, una recriminazione, un gesto di impotenza, un graffio, un epitaffio.
 
Una pagina su un quotidiano dell’epoca, dall’archivio de La Stampa.
La locandina dello spettacolo di Fabrizio Gifuni.
 
Questo spettacolo di preinaugurazione si terrà alle Officine Grandi Riparazioni, un grandioso edificio in cui un tempo si riparavano treni, recuperato grazie alle risorse di una fondazione bancaria, e oggi versato alla musica (si tengono concerti), all’arte (ci sono stagionalmente delle mostre), alle start up (un’intera ala della struttura).

Aggiungerò che alla preinaugurazione del Salone ci va la gente comune, ma soprattutto vengono invitati i notabili della città, la classe politica e quella dirigente, gli sponsor, gli amministratori, i notai, i presidenti di musei e di altre istituzioni, qualche autorità militare, qualche autorità religiosa. Anche qui, se chiedendo a Gifuni di occuparsi di Aldo Moro in un contesto simile avevo l’idea del cortocircuito che tutto questo avrebbe potuto creare, ancora una volta, questi pensieri non si muovevano nella mia parte conscia. A ogni modo, è arrivata la sera della preinaugurazione, la sala principale delle OGR si è riempita di gente (credo fossero millecinquecento persone), e a un certo punto, su un palco con una scenografia semplice, quasi scarna, si è presentato Fabrizio Gifuni. Ma non era Fabrizio Gifuni. Era Aldo Moro, senza dubbio. 

Aldo Moro si è tirato fuori dal cimitero dove riposa, ed è venuto ad accusare i presenti di connivenza con le Brigate Rosse. Con il Fabrizio Gifuni di Con il vostro irridente silenzio è successo qualcosa di uguale e opposto a ciò che era accaduto con l’Ermanna Montanari de L’isola di Alcina. Una spaventosa trasfigurazione (la trasformazione di Gifuni in Aldo Moro; la conseguente trasformazione del pubblico nella classe dirigente della DC messa sotto accusa da Moro, rinchiuso nella prigione del popolo delle BR) consumata tutta attraverso la fisicità (la presenza corporea di Gifuni sulla scena) e attraverso le parole, tantissime parole, questa volta assolutamente comprensibili, pronunciate in perfetto italiano, le quali volevano sì aderire ciascuna al proprio corretto significato (l’opposto, come si diceva, rispetto all’operazione linguistica di Ermanna Montanari e del Teatro delle Albe), con l’incredibile risultato di provocare invece un fragoroso crollo: di Aldo Moro, della Democrazia Cristiana, del Partito Comunista Italiano, della Prima Repubblica, dell’Italia, del pubblico in sala, e infine dello stesso significato di tutto quel discorso. 

Più di due ore di monologo. Bellissimo. Con il pubblico turbato, ma al tempo stesso sollevato per il fatto di essere finalmente messo sotto accusa con chiarezza, e finalmente punito! I politici torinesi, gli amministratori delegati, i notai, i primari, i colonnelli, gli assessori, i sottosegretari, gli ereditieri, i direttori di fiere editoriali, i giornalisti, gli uffici stampa lì presenti, se erano riusciti a farla franca per tutto quel tempo, finalmente venivano inchiodati (seppure sul piano simbolico, e in modo temporaneo) alle loro responsabilità, venivano puniti e (in maniera altrettanto simbolica, e crudelmente temporanea) ritornavano innocenti, una condizione che tutte e tutti i presenti non sperimentavano da chissà quanto tempo.

Un paio di anni dopo, chiacchierando a casa sua, Fabrizio Gifuni mi avrebbe raccontato una cosa molto interessante sulla nascita del teatro. Secondo alcuni studiosi, nell’antichità, un’antichità imparentata con la notte dei tempi, dalla rappresentazione sacra a un certo punto si dipartono, come per gemmazione, due rappresentazioni, che di là in poi si muoveranno per direzioni opposte, e saranno entrambe tra i fondamenti della Città, dello Stato, del consesso civile. Una è il teatro e l’altra è il processo. In entrambe le rappresentazioni ci sono un rituale, un pubblico, dei costumi di scena, una ripartizione in atti. Il processo amministra la giustizia, o meglio (la giustizia è un concetto che rischia di ripiombare nel sacro) regola e fa applicare la legge. Il teatro è il luogo della catarsi.

Che cosa fanno allora (quale funzione svolgono davvero) gli spettacoli teatrali di cui ho scritto, e i tanti altri di grande forza che si continuano a rappresentare nel nostro paese, in Europa, nel mondo? Che senso ha la lectura Dantis di Ermanna Montanari sul campanile del Duomo di Lecce? Che cosa accade al Kismet, a Koreja, e in tanti altri teatri sparsi in giro per l’Italia, votati non alla vetrina ma alla ricerca? In tutti questi casi, sono arrivato a intuire, pur non essendo un esperto della materia, che si consumano dei riti di purificazione dello spazio pubblico. Il teatro è il luogo della limpia, di una bonifica emotiva, esistenziale e spiritualeche non riguarda solo le persone, ma tutto lo spazio condiviso, lo spazio pubblico, la “zona”. E che cos’è la “zona”? 

È il luogo risacralizzato e sconsacrato, il territorio all’improvviso libero della sua mappa. Secondo la lezione di Bene, e di Genet, e prima ancora secondo la lezione di Antonin Artaud, il doppio vertiginoso dentro cui, per riconoscerci, non siamo più noi stessi.
 
Una pagina su un quotidiano dell’epoca, dall’archivio de La Stampa.
Fabrizio Gifuni nella parte di Aldo Moro.

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).

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