Non possiamo disfarci dei miti. Ma per quanto non ci sia mito che non sia seminale, il concetto di “origine”, legato a quello di “mito”, è qualcosa di pericoloso. Ed è pericoloso innanzitutto perché è falso. Il mito comincia dalla seconda volta che accade. La prima è un unicum, non esiste. E comunque saremmo ancora nel regno dell’informe, tra le nebbie, nel fango, nell’indistinto, sotto lo schiaffo del Caso. Avere la pretesa di attribuire a quell’informe un nome, una figura, una volontà e una direzione precisa ha trascinato nel passato l’umanità in disastri epocali.
Il mito delle origini ha a che fare con una malintesa idea di purezza. Non è difficile pensare ai nazisti (i miti norreni, le divinità germaniche, la delirante ricerca del Graal, o della lancia di Longino), e alla tragedia ridicola che in Italia fece da precursore (il modo in cui il fascismo provò a resuscitare il mito della Roma imperiale). Il mito delle origini è fasullo come i Protocolli dei Savi di Sion. Ma i miti invece no, non sono affatto falsi. Provare a sbarazzarsene significa gettare il bambino con il mare d’acqua nera che non gli appartiene. Il problema è che non puoi disfarti del bambino (a proposito di miti legati all’infanzia: il piccolo Mosè salvato dalle acque; Romolo e Remo; Gesù bambino; i fruschi e i frusculicchi della tradizione contadina del Sud Italia…) perché il mito continua comunque a lavorare, nel mondo e dentro di noi, anche quando gli diamo le spalle, con il rischio che ci ripiombi addosso senza che ce ne rendiamo conto.
Il mito è impuro. E, soprattutto, il mito cambia forma di continuo.
Ho parlato di recente di queste cose con Giordano Meacci, in un incontro organizzato da Lucy insieme con le Biblioteche di Roma, in un posto molto bello del quartiere Ostiense, le Industrie Fluviali. La letteratura – in particolare il modernismo, cento anni fa – sa bene quanto i miti siano duttili e cangianti. Non si può non pensare al Joyce di Ulisse, che si propose di riscrivere uno dei miti più importanti e longevi della nostra civiltà. Non dobbiamo dimenticare che l’Odissea di Omero non fu l’atto fondativo di quel mito ma la cristallizzazione (per l’Odissea, e a maggior ragione per l’Iliade) di secoli di narrazioni orali sulla guerra di Troia e sulle peregrinazioni di chi vi scampò. Il racconto orale è anonimo, collettivo, e mobile (cambia nel tempo, non solo da una generazione all’altra, ma da un aedo all’altro, da un rapsodo all’altro), dunque è il delitto perfetto avente ad oggetto qualunque pretesa di un’origine.
La prima edizione de l’Ulisse.
James Joyce, leggiamo nei manuali di letteratura, volse in parodia l’epica (e in farsa l’antica solennità; eppure bisognerebbe leggerlo davvero, Omero, per ricordarsi quanti momenti buffi se non comici ci sono nell’Iliade, che pure racconta una guerra sanguinosa), trasformando le eroiche vicende di Achille, Ettore, Agamennone, Elena, nella tragicomica giornata tra le strade (e le trattorie, e le tipografie, e i cimiteri, e le case di malaffare) di Dublino seguendo il vagabondare e le gesta del giovane-oroglioso-in-miseria Stephen Dedalus (un altro principe spodestato, parodia di Telemaco ma anche di Amleto, i miti si accavallano), dell’uomo-medio-sensuale Leopold Bloom (la definizione è di Ezra Pound), dell’infedele e apparentemente futile Molly Bloom (che assomiglia ben poco a Emma Bovary, qui Flaubert è un falso indizio, poiché alla fine scopriamo che sotto il letto di Molly, cioè dentro di lei, ribollono Demetra e Persefone). L’uso che Joyce fa della parodia non è un sistema per dileggiare l’epica, o peggio per affossare o vilipendere il mito, bensì per trasformarlo, poiché la parodia (come l’epica nel mondo classico) diventò a un certo punto il codice attraverso cui la letteratura moderna decise di leggere – seriamente, a volte persino drammaticamente – il mondo. Ricordiamo che tutto era ricominciato con Cervantes e con Rabelais, e che in Amleto i becchini del cimitero dove il teschio di Yorick viene dissotterrato sono chiamati clown.
Del resto, l’Ulisse di Joyce è prodigo anche di momenti commoventi: bisognerebbe ricordare che per tutto il romanzo Stephen è tormentato dal fantasma di sua madre (la donna, morente, gli aveva scongiurato di inginocchiarsi e di pregare; il giovane figlio orgoglioso non lo aveva fatto – non serviam! –, salvo trascinarsi il senso di colpa per tutte le mille pagine del libro), come Leopold è tormentato dal fantasma Rudy, il figlio suo e di Molly morto undici giorni dopo essere venuto alla luce, il quale, quel 6 giugno del 1904 in cui è ambientato il libro, avrebbe avuto undici anni. Bisognerebbe forse cominciare a pensare a Joyce non come il demiurgo che uccide la letteratura moderna portandola al suo estremo compimento, ma come un nocchiero che riversa il mito da una vasca nell’altra (da un’epoca all’altra) facendogli cambiare forma. Murray Gell-Man, premio Nobel per la fisica nel 1969, saccheggerà a sua volta una frase in apparenza senza senso del Finnegans Wake (“Three quarks for Muster Mark”) per battezzare la più celebre tra e particelle subatomiche.
Il mito si lascia derubare, ma i veri furti con destrezza sono il fertilizzante per nuovi miti.
Il Palazzo dell’Acquedotto Pugliese, Bari.
A questo punto, durante la conversazione con Meacci, ho cercato di avvicinarmi un po’ di più alla mia esperienza biografica. Dall’Irlanda sono passato alla Puglia. Pochi tra i miei lettori, credo, sono mai stati nel Palazzo dell’Acquedotto Pugliese a Bari. Si tratta di un edificio splendido. Si cominciò a costruirlo nel 1927, lo si finì nel 1932, e nonostante l’epoca l’architettura di questa costruzione è all’antitesi di quella del ventennio.
Dedicato all’acqua, il Palazzo dell’Acquedotto è più femminile che maschile, le sue architetture intrecciano diversi stili, dal neoromanico al liberty all’art déco, fuori e dentro si mescolano occidente e oriente, calcolo e sogno. Il risultato è un inno alla metamorfosi, alla fecondità, alla cedevolezza che racchiude dentro sé una sapienza più solida di centro pilastri conficcati nella terra. È un palazzo dedicato all’acqua, e l’acqua (quale origine più affidabile, se mai può essercene una?) è fonte di vita ma cambia di continuo di forma e di colore. All’interno del Palazzo (pieno di meraviglie architettoniche e arredi strabilianti), c’è un dipinto di Duilio Cambellotti a cui sono affezionato. La tela rappresenta la Puglia percorsa dai canali dell’acquedotto. Sopra la regione volano i tre santi protettori delle provincie allora esistenti: San Michele Arcangelo per la Capitanata, San Nicola per la terra di Bari, Sant’Oronzo per il Salento. Più in basso, in uno stupefacente sincretismo, ci sono le divinità cosiddette pagane: Poseidone, dio dei mari e delle correnti, il quale riceve le acque da una ninfa secondo alcuni, da una dea così più vasta e antica da inglobare ogni altra presenza, compreso lo stesso Poseidone, secondo altri.
Affresco di Duilio Cambellotti presente nel Palazzo dell’Acquedotto.
I miti di san Michele Arcangelo, di san Nicola, di sant’Oronzo ce li ho ben presenti. Ho trascorso l’infanzia tra i contadini, e quella tradizione era fortissima. In particolare, nel passaggio dalla terra di Bari al Salento, si avverte una trasfigurazione, un cambiamento che non passa inosservato. Nicola è ancora un santo d’azione. La bianca severità delle chiese romaniche contro l’azzurro del cielo canonizza questo spirito concreto. E tuttavia, nel vento e nella luce dello spettro levantino, già si indovina un movimento di segno opposto. Via via che si procede verso sud ci si sente più leggeri. I pensieri, da densi che erano, iniziano a disfarsi in virtù di un movimento elicoidale che si apre alla visione. Il romanico impazzisce nel barocco, i santi consapevoli (Nicola, uomo d’azione, campione di solidità) cedono il passo ai santi che volano (Desa Da Copertino, frate Asino, che si staccava da terra dimentico di sé). Siamo in Salento, il luogo più a oriente d’Italia. Accendendo l’autoradio, tra i tornanti a strapiombo sul mare si sentono discorsi in lingue sconosciute. Albanese. Greco. Arabo. Russo. Tutto si mescola, la vita trova senso perdendo il proprio bandolo. A Leuca l’Adriatico si confonde nello Ionio.
Tutto questo, quando ero un bambino e poi un ragazzo, lo sapevo in modo irrevocabile ma confuso. Lo sentivo, non lo capivo. Non sapevo tradurre la sensazione in parole. Poi vidi Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene, tratto dal suo romanzo omonimo. Ciò che dormiva implicito dentro di me si risvegliò, divenne leggibile (per quanto Bene si sarebbe offeso a sentirsi decifrato), poi si riaddormentò ma io iniziai credo da quel momento a capire in quali posti fossi nato e avessi trascorso l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza. Diceva Ennio Flaiano, uno degli scopritori di Bene, che non sopportava chi faceva i baffi la Gioconda ma amava chi la pugnalava al cuore. In realtà però Carmelo Bene (si trattasse del mito salentino o di quello shakespeariano) non era un profanatore di miti – “togliendoli di scena”, come diceva lui, gli dava nuova vita. Li strappava alla morte.
Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene.
A questo punto della discussione Giordano Meacci ha tirato fuori Sandro Penna. Ecco un altro artista che riportava in vita ciò che altrimenti sarebbe stato semplice ricordo, polvere, stasi, occhi vitrei. Nel caso di Penna era l’antica Grecia a riaprire il proprio occhio su di noi, e viceversa. “Grava sulla città, colma l’estate / Nell’orto di una villa c’è un ragazzo / brutto, che guarda trasognato il suo / sesso innalzato. Indi sospira e prende / di nuovo un suo poeta. E l’ora scende”. Nelle poesie di Sandro Penna c’è la Roma del Novecento come se all’improvviso ci fosse finito dentro un presocratico, e la cantasse mostrando a chi è in ascolto una città diversa, segreta. Nel traffico di mezzogiorno, tra le auto sferraglianti e i semafori e i taxi e i mezzi pubblici, le strade e i giardinetti si popolano di ninfe, di semidei, di mostri. Sono quelli di allora, nei vestiti di ora, ma sono diversi.
Qualche anno dopo, pensiamo a come Bob Dylan parodizza e rinnova il mito biblico. Il procedimento sembra analogo. “Oh God said to Abraham, ‘Kill me a son’ / Abe says, ‘Man, you must be puttin’ me on’ / God say, ‘No’. Abe say, ‘What?’ / God say, ‘You can do what you want Abe, but / The next time you see me comin’ you better run’ / ‘Well’ Abe says, ‘Where do you want this killin’ done?’ / God says, ‘Out on Highway 61’ (“Oh, Dio disse ad Abramo ‘Sacrificami un figlio’ / Abe disse ‘Amico, mi prendi in giro?’ / Dio disse ‘No’, Abe disse ‘Cosa?’ / Dio disse ‘Puoi fare come vuoi Abe ma / la prossima volta che mi vedi arrivare sarà meglio che teli’ / ‘Va bene’, Abe disse ‘Dove vuoi che avvenga questo omicidio?’ / Dio disse ‘Sulla Highway 61’”).
Sarei tentato di parlare de L’uomo senza qualità, ma lì la questione è talmente complessa (e bella) che sarebbe doveroso dedicare al romanzo di Robert Musil un’intera puntata di questa newsletter, e naturalmente sarebbe sempre poco. Prima o poi proverò a farlo. Quello che qui mi limito a dire è che molti ricordano le prime due parti di questo grandioso romanzo, lì dove si parla dello stato di Cacania, dell’Azione Parallela, di Ulrich, di Diotima, di Walter, di Gerda, di Clarisse, di Arnheim (quest’ultimo potrebbe essere visto come una nobile prefigurazione di Elon Musk; o il prototipo insuperato dell’Alexander Veidt-Ozymandias di Watchmen), del serial killer Mossbrugger visto come possibile specchio dentro cui si rivela il non detto della raffinata macchina celibe che è la società viennese lanciata verso il baratro (la I guerra mondiale), ritratta così brillantemente da Musil.
Dopo questo, però, che è il corpo principale del romanzo, comincia l’ultima parte, la meno frequentata, forse la più bella, sicuramente per me la più enigmatica e affascinante. Quest’ultima parte vede Ulrich e sua sorella Agathe impegnati nel tentativo di un’unione mistica (lontani finalmente dall’Azione Parallela, dall’erudita noia secolarizzata fatta di cerimoniali, cenacoli e burocrazia di Cacania), e ha un titolo significativo, quasi profetico, Verso il regno millenario. È per me impossibile non leggerlo in contrapposizione al tentativo di Reich millenario che di lì a poco avrebbe devastato l’Europa, e travolto – in questo caso senza colpo ferire – tra i primi paesi proprio l’Austria. Sia Ulrich e Agathe, che i nazisti, giocano con il mito. Ma mentre per i due fratelli di Musil il mito è una fonte di vita eternamente giovane, viva (per questo è insidiosa per dei borghesi europei), così duttile, cangiante, mutante, per i secondi si tratta del falso mito delle origini, dunque di un feticcio, di un cadavere in nome e a somiglianza del quale (in nome e a somiglianza di questa vitrea fissità, di questa morte) si cercò di uniformare un intero continente, spingendolo segretamente verso l’informe.
La chiacchierata è finita con un gioco improvvisato, che però è significativo, considerati i risultati. Io e Giordano Meacci ci siamo sfidati. Che mito avremmo voluto incarnare? Meacci ha scelto subito Prometeo, che rubò il fuoco agli dèi. Simbolo di ribellione, di sfida all’autorità divina, antenato di Faust, a Prometeo non è aliena l’astuzia di Odisseo, l’audacia di Icaro, la febbre che porta a strappare dall’universo delle possibilità scoperte come il computer, ma anche come la bomba. Io ho scelto Calipso, divinità marina, ninfa, oceanina, nereide, maestra di seduzioni, la quale tenne con sé Odisseo per sette anni. Avreste dovuto vederci battagliare. Prometeo e Calipso si sono inseguiti, hanno cambiato forma, hanno cercato di sedursi, di prevalere l’uno contro l’altra, la carne diventava acqua, il fuoco diventava fumo, eravamo talmente nella parte che abbiamo iniziato a gloriarcene un po’ troppo. Eccoci dunque trasformati in Narciso. Sulla cui vita e sul cui annegamento, come è noto, non c’è un’unica versione, non esiste un inizio sicuro.
Eco e Narciso di John William Waterhouse.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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