Gianni Forte
19 Dicembre 2024
Artista e coreografa rivoluzionaria, Pina Bausch ha liberato la danza dagli schemi classici, risignificando i movimenti dei suoi ballerini perché le sue opere rivelassero agli spettatori la ferocia e la grazia della vita.
Il Biondo di Palermo non è mai stato per me solo un teatro. È il luogo dove ho mosso i primi passi importanti da attore. Nel 1989, proprio lì, è avvenuto un incontro che ha plasmato il mio modo di vivere l’arte. Per caso ho incrociato lo sguardo di Pina Bausch. Una donna riservata, con i capelli raccolti e gli occhi enigmatici. Fu un attimo. Mi catturò all’istante.
La rivedo nitida, seduta al bar del teatro. Sorseggia un caffè, assorta. Ogni gesto, anche il più semplice, contiene una coreografia segreta. Perfino il modo in cui stringe la tazzina sembra parte di un rito. La sua presenza non è solo fisica. Una forza sottile, che non si può ignorare, attraversa l’intera sala. Si guarda intorno con l’espressione di chi scorge un significato più profondo in tutto ciò che accade. Senza pensarci troppo, mi avvicino. Scambiamo poche parole. Le dico che ho iniziato da poco la mia carriera. Lei ascolta con attenzione. C’è un momento sospeso in cui sorride. Un sorriso discreto, pieno di benevolenza, che tuttora mi accompagna.
Pochi giorni dopo, al Teatro Biondo vidi Palermo Palermo. Muri che crollavano (profetici in quel momento storico), donne e uomini che lottavano e si rialzavano, silenzi carichi di senso, sguardi obliqui, mi rivelarono un linguaggio che non avevo ancora imparato a decifrare. Ho visto lì per la prima volta come l’affondo di un passo, o il minimo fremito, potesse rimbombare: i danzatori non erano solo corpi in azione ma anime, essenze di qualcosa di più grande. A sua volta la città di Palermo – aspra e luminosa, con le sue strade affollate e i suoi contrasti violenti – non era più un fondale, ma un personaggio vivo che si muoveva con i performer. Nell’ombra di quel palcoscenico, capii che lei non si limitava a creare spettacoli: trasformava la realtà.
“La rivedo nitida, seduta al bar del teatro. Sorseggia un caffè, assorta. Ogni gesto, anche il più semplice, contiene una coreografia segreta. Perfino il modo in cui stringe la tazzina sembra parte di un rito”.
Pina Bausch nasce nel 1940 a Solingen, in una Germania devastata dalla guerra. Cresciuta nell’atmosfera vivace del bar gestito dalla sua famiglia, un microcosmo brulicante di umanità, assorbe fin da bambina il linguaggio universale dei gesti, delle emozioni non dette. Forse è quella vicinanza alla distruzione e alla ricostruzione, quel legame con la precarietà della vita, a nutrire la sua arte, a modellare il suo linguaggio, sempre in cerca della grazia tra le rovine. A quindici anni decide di seguire la sua passione, iscrivendosi alla scuola di Essen, sotto la guida di Kurt Joos, un pioniere dell’espressionismo nella danza. Inizia a investigare il confine tra movimento e narrazione. Nel 1959, senza conoscere una parola d’inglese, Pina affronta una sfida audace, si trasferisce negli Stati Uniti. A New York si esibisce con diverse compagnie, entrando infine nel prestigioso corpo di ballo del Metropolitan Opera. Tuttavia, nonostante le prospettive di una brillante carriera da solista, nel 1962 torna in Germania, dove il legame con Kurt Joos si rinsalda.
Nel 1973 l’Opera di Wuppertal la accoglie nel proprio organico e, in quella città industriale della Germania occidentale, Pina Bausch dà forma alle sue prime creazioni coreografiche. La danza comincia a cambiare volto. L’ambiente della compagnia, segnato da agitazioni e incertezze, riflette l’audacia e la portata innovativa delle sue visioni artistiche. Quando nel 1974 debutta a Wuppertal, il suo stile è scioccante. Le sue opere suscitano reazioni contrastanti, sono accolte con diffidenza: molti spettatori, disorientati, abbandonano la sala e lanciano insulti. Ma per chi resta, è una rivelazione.
I lavori di Pina Bausch vengono inizialmente etichettati eccessivi, provocatori, abrasivi. Eppure, dietro quella facciata di apparente irriverenza, emerge una rappresentazione del mondo priva di filtri, di spiazzante sincerità: una realtà nuda e cruda, dove predominano la ferocia, il cinismo, la brutalità, ma che non rinuncia a offrire spiragli di ironia, leggerezza, delicatezza, fiducia nelle possibilità umane. Wuppertal, tra verdi pendii e fabbriche storiche, con il suo paesaggio urbano e i suoi abitanti entra nell’immaginario bauschiano, divenendo non solo sede della compagnia ma ispirazione costante per le sue opere, fonte energetica del suo ecosistema espressivo, punto di riferimento planetario, ambito di un’incessante sperimentazione. È la culla del Tanztheater: quel “teatro danzato” (non solamente danza, né solamente teatro) che Pina Bausch ha rivoluzionato, intrecciandolo con la parola, i lunghi silenzi, la musica, l’evocatività delle scenografie e dei costumi, creando in questo modo un’inedita grammatica teatrale.
Bausch scardina i codici della danza. In scena non ci sono più i consueti elementi del balletto classico o i virtuosismi tecnici, ma frammenti di vita ordinaria, interpretati da corpi non conformi, non standard, scelti per la loro forte personalità, lontani dai canoni estetici tradizionali. I suoi performer, liberi di esplorare il movimento, conquistano una forza espressiva straordinaria, tanto travolgente da scuotere chi li guarda. Ciascun componente dell’ensemble apre una finestra sul cosmo. La pelle, i muscoli, diventano scrigni. Da quei corpi, testimoni di una memoria collettiva, depositari di un dolore autentico, emergono, come dall’oblio, storie che parlano di noi.
Pina Bausch ha costruito un nuovo modo di guardare il mondo. Collaborando con danzatori eterogenei di diversa nazionalità (americani, italiani, francesi, australiani, giapponesi, greci, etc.), ha incarnato un’idea di universalità che va oltre le barriere culturali e linguistiche. Ma l’ambizione di Pina non si limita a quell’apertura. Il suo lavoro spinge sempre più i suoi collaboratori a confrontarsi con sfide inusuali: in scena fa cadere la pioggia, la inonda di terra o di fiori, e il mondo naturale si fonde con i corpi. Non sono solo espedienti scenografici, né impedimenti gratuiti, bensì strumenti per riportare i danzatori a essere più consapevoli della realtà e, con loro, il pubblico. Come affermava la stessa Bausch: “La vita non è mai come una pista da ballo, liscia e rassicurante”.
Pina Bausch non crea spettacoli tradizionali, offre esperienze sensoriali totali, immersioni negli universi nascosti sotto la superficie delle cose. Un esempio iconico è Nelken (1982), dove il palcoscenico viene letteralmente ricoperto da un tappeto di migliaia di garofani che creano un mare di colore e accarezzano la vista mentre, sotto la sua delicatezza, si celano inquietudini esplosive. In questo scenario, Bausch mette a nudo le dinamiche sociali e i rapporti di potere, portando alla luce il contrasto tra la magnificenza della natura e la violenza oppressiva dell’autorità. Elementi come l’acqua, la terra, il vento, sono partner non indifferenti delle sue coreografie. Invece, nell’opera Le Sacre du printemps (1975), il suolo, ricolmo di terra umida, diventa il terreno in cui i danzatori, a piedi nudi, affondano immergendosi in una materia che li riconnette a una selvatichezza ancestrale. La danza si muta così in rituale arcaico, una comunione con forze antiche e primigenie.
Foto: Monika Rittershaus, © Pina Bausch Foundation
Foto: Rolf Borzik, © Pina Bausch Foundation
Foto: Ulli Weiss, © Pina Bausch Foundation
Diversamente, in Kontakthof (1978), i danzatori, vestiti con abiti formali, si muovono in un’area d’attesa, una sala da ballo, sospesi tra il desiderio di contatto e la paura di avvicinarsi. Attraverso interazioni e gesti ripetitivi, rivelano la fragilità nascosta dietro le convenzioni sociali. Qui emerge la ricchezza del linguaggio artistico di Bausch. In un mondo dominato da tensioni, tra dolore e tenerezza, estasi e crollo, lei introduce momenti inaspettati di comicità. Scoppia una risata, salta fuori un’assurdità. Quei lampi di ironia rompono il rigore e l’intensità dominanti, spiazzando il pubblico, facendogli assorbire le bellezza e le brutture della società, restituendole senza cercare di controllarle, danzando con esse.
Oppure pensiamo a Café Müller (1978), tra le opere più emblematiche di Pina Bausch, in cui lei stessa ritorna a danzare. Le sedie sembrano creature vive, ostacoli e compagne di uomini e donne che, simili a sonnambuli persi in un luogo chiuso, urtano, inciampano persistentemente, si sfiorano senza mai incontrarsi. È una danza dell’assenza, del non detto, al tempo stesso frenetica e immobile, dove i silenzi urlano più dell’infrangersi dei suoni, del fragore di vocali e consonanti, e la ripetizione ossessiva si tramuta in invocazione, in preghiera. Non c’è un inizio o una fine. Sulla scena, specchio dell’inconscio, dove oggetti e corpi sembrano fluttuare come in un sogno che si spezza continuamente, Pina reinventa le leggi della gravità, come se la pesantezza non fosse altro che un ricordo lontano.
Ma se in Café Müller il vuoto si traduce in un paesaggio interiore e rarefatto, in Viktor (1986) il vuoto diventa più fisico. Lo spettatore viene immerso per tre ore in un mondo fatto di desideri e paure, nelle crepe e nell’energia vitale dell’essere umano. Ambientato in una cava circondata da alte scogliere di terriccio, lo spettacolo è scandito dal gesto di un uomo che getta incessantemente palate di terra. In questo spazio vuoto, Bausch mette in scena la violenza legata ai ruoli imposti a ciascun sesso, alla brutalità delle loro relazioni, intrappolate in rigidi schemi di genere, alternando sentimenti contrastanti di disperazione e gioia.
Nel breve dialogo che ho avuto con lei, ho cercato di cogliere il senso della sua indagine, quell’alchimia che trasforma il quotidiano in straordinario. Gli abiti a fiori, le magnifiche acconciature e i movimenti ipnotici delle braccia delle donne, la traboccante abbondanza di gesti degli uomini che avanzano a comporre, in un ritmo preciso, una sinfonia visiva; oppure l’atto di accarezzare una guancia, di prendere una mano, il guardarsi negli occhi, il piangere in silenzio: sono tutte espressioni fisiche comuni che, sotto la sua direzione, si fanno poesia. Non si limitano a incantare o sedurre. Toccano le nostre corde più personali. Le sue creazioni sono meditazioni sul paradosso dell’esistenza, e non risultano mai disperate perché, dietro la complessità dei temi indagati — la solitudine, la sessualità, l’angoscia, la disforia corporea, la perdita, la violenza delle relazioni —, ci ricordano, con una schiettezza disarmante, la caducità della vita, l’imperfezione goffa dell’amore, la bellezza dell’irregolarità. Soprattutto, ci mostrano che anche nei momenti più oscuri c’è una luce di speranza, una leggerezza inattesa che affiora.
Per Pina ogni movimento deve essere chiaro, avere una ragione di esistere. Se il gesto è fine a se stesso non ha più significato, diventa puro intrattenimento. Il suo immaginario scenico, onirico eppure fortemente radicato nel quotidiano, è un’investigazione continua che trasforma prove e improvvisazioni in una sorta di rito sacro. Instancabile nella ricerca dell’autenticità, in un processo aperto e flessibile, Pina non formatta i suoi performer, non li mette in uno stampo. Non dà mai risposte immediate, pone domande. Interroga i danzatori, chiede loro chi sono, cosa provano, cosa li muove; li incoraggia a confrontarsi con se stessi, a scandagliare debolezze e contraddizioni; non vuole che si limitino a danzare, vuole che vivano; li invita a esprimersi liberamente, ad attingere dalle proprie storie, non per esporle o per farne un’autorappresentazione, ma per accedere a quella verità che li rende unici e che, una volta rivelata, si converte in patrimonio universale.
Non c’è distanza tra chi osserva e chi danza: il palcoscenico diventa una metafora del vivere. Bausch trascende le categorie, cattura l’essenza del momento. È la demiurga di un teatro dove la vulnerabilità si fa potenza, diventa principio di bellezza e coesione; un teatro come terreno di ricerca, cammino intimo condiviso con lo spettatore, dove il gesto è un messaggio da decifrare, un enigma che si rinnova senza tregua.
Anche oggi, la sua eredità supera di gran lunga le frontiere internazionali della danza contemporanea, irradiandosi in ogni forma d’arte. Federico Fellini nel 1983 la volle nel ruolo di una principessa cieca in viaggio su una nave da crociera nel suo E la nave va. La definì “una presenza magnetica, impossibile da tradurre a parole”. Chantal Ackerman, nel documentario Un jour Pina a demandé (1983), e Wim Wenders, nel suo film Pina (2011), le hanno dedicato un omaggio toccante, catturando l’essenza di un’opera che ha il sapore del miracolo.
“Pina Bausch non crea spettacoli tradizionali, offre esperienze sensoriali totali, immersioni negli universi nascosti sotto la superficie delle cose”.
Pina Bausch è scomparsa a Wuppertal nel 2009, ma il suo respiro creativo rimane onnipresente, un’eco potente che risuona. È una stella fissa del firmamento dell’arte, una sorgente inesauribile di intuizioni e riflessioni. Danzare, per lei, era un atto di redenzione.
Quando chiudo gli occhi e torno con la mente a quel bar del Teatro Biondo, sento che il calore del suo sorriso, quello scambio di parole, sono lì, vividi. Pina Bausch ha cambiato la percezione del mondo di molti di noi, spettatori e artisti, ridefinendo il modo in cui vediamo il teatro e la vita.
Per le foto nella cover di questo articolo ringraziamo: Rolf Borzik, © Pina Bausch Foundation e
Ulli Weiss, © Pina Bausch Foundation.
Gianni Forte
Gianni Forte è drammaturgo, traduttore, regista e attore. Co-direttore artistico 2021/2024 del settore Teatro della Biennale di Venezia, è dal 2023 membro del consiglio di amministrazione del GIFT International Festival di Tbilisi, in Georgia. Inoltre è co-fondatore, nel 2006, e attuale direttore artistico dell’ensemble Ricci/Forte performing arts. Il suo ultimo lavoro di traduzione è La morte difficile di René Crevel (Ventanas Edizioni, 2024).
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