Lorenzo Gramatica e Irene Graziosi
I limiti della realtà e le possibilità della letteratura, il senso di colpa e il suicidio: una conversazione con la scrittrice Clara Usón.
Perché leggiamo romanzi storici quando esistono così tante fonti per conoscere un evento e ricordare date, nomi, alleanze e guerre?
Forse perché, per fissare davvero qualcosa nella memoria, abbiamo bisogno di storie e soprattutto di personaggi capaci di emozionarci. È anche attraverso le emozioni che riusciamo a rielaborare il passato e ad accrescere la nostra identità.
Clara Usón è una delle scrittrici più stimate in Spagna – e in Europa – e da oltre vent’anni riesce, nei suoi romanzi, a tenere assieme indagine storica e talento narrativo.
In quella che è forse la sua opera più riuscita, La figlia, racconta la storia dolorosa di Ana Mladić, figlia di Ratko Mladić, comandante dei serbo-bosniaci durante la guerra di Bosnia e responsabile dell’eccidio di Srebrenica. Il romanzo è una riflessione su memoria, nazionalismo, eroismo, follia, idealizzazione dei padri e conseguente disillusione.
Quel libro spiega anche perché questa intervista la si fa in coppia; l’ammirazione per Usón è infatti nata per entrambi da lì e si è poi si rinsaldata con L’assassino timido e Valori.
Le opere di Clara Usón sono pubblicate in Italia da Sellerio – e i nostri ringraziamenti vanno ad Alessandro Grazioli che ha fatto da tramite tra Lucy e Usón – e tradotte magnificamente da Silvia Sichel, che è anche colei che ha tradotto questa intervista.
La figlia è un libro che abbiamo spacciato ad amici e parenti, fondando praticamente un fan club di Clara Usón. Tu pensi mai a chi sarà il tuo lettore o a che vita avrà il tuo libro?
Grazie di cuore per aver fondato il mio fan club, mi fa un enorme piacere. Me ne sono vantata con mio nipote quattordicenne e lui mi ha detto: come fai ad avere un fan club, zia, se non sai ballare, cantare, recitare, cucinare e non sei nemmeno su Instagram?
Per chi scrivo? Per chiunque voglia leggermi, è la prima risposta che mi viene in mente. Agli esordi, il mio circolo di lettori era molto esclusivo e ristretto, gli happy few di Stendhal; nel mio caso, mia madre e i miei fratelli, se riuscivo a convincerli a fare uno sforzo e a leggere i miei esperimenti. Ero pronta a tutto pur di avere dei lettori, cercavo persino di corromperli (“Se leggi il racconto che ho appena finito metterò in ordine la mia cameretta/pulirò il bagno/andrò a comprarti le sigarette”), così i primi destinatari dei miei testi avevano un volto, un nome e un cognome, ma con il passare del tempo e dei libri pubblicati, ho avuto la gradita sorpresa di vedere il circolo allargarsi. D’ora in avanti, però, scriverò pensando al mio fan club italiano: è mia precisa responsabilità di presidente onoraria.
L’unica posterità a cui aspiro per i miei romanzi è quella immediata: che una volta pubblicati trovino dei lettori e non finiscano al macero. Immagino sia una preoccupazione condivisa dalla stragrande maggioranza degli scrittori; in Spagna ogni anno vengono dati alle stampe più di novantamila libri, che devono competere tra loro per conquistare un posto sui tavoli delle novità nelle librerie e negli spazi dedicati dai media alla cultura: è una lotta sotterranea e feroce, con molti morti.
Parte del tuo lavoro ha restituito voce e dignità alle donne che le avevano perse, come Sandra Morazowsky e Ana Mladic. Era un obiettivo che ti eri posta esplicitamente? Secondo te la letteratura ha un compito che travalica l’obiettivo puramente estetico?
I miei romanzi non nascono mai da un’idea astratta, per apprezzabile che sia. Io tendo a partire da un personaggio, reale o fittizio, che stuzzica a tal punto la mia curiosità e il mio interesse da spingermi a raccontare la sua storia, destinata a complicarsi durante il processo di scrittura. Così è capitato con La figlia: l’avevo concepita come una nouvelle su un dramma famigliare, e invece il romanzo è diventato tanto complesso da comprendere la dissoluzione della Jugoslavia e la guerra bosniaca. Non per caso i personaggi che mi stimolano a scrivere sono donne, in quanto donna le sento più vicine.
Allo stesso tempo, sono convinta che le narratrici contemporanee, me compresa, stiano svolgendo un lavoro di risarcimento del genere femminile, che per secoli ha occupato un posto accessorio e di secondo piano nella letteratura scritta da uomini. Fino a poco tempo fa erano gli uomini a raccontare di noi, adesso parliamo con la nostra voce. Nell’editoria spagnola noto la tendenza, che plaudo, a riscoprire testi di scrittrici del secolo scorso a cui i colleghi maschi facevano ombra, come le italiane Elsa Morante, Alba de Céspedes e la grande Natalia Ginzburg, alle quali le lettrici (i lettori di narrativa sono una specie a rischio di estinzione, come la tigre di Sumatra o il rinoceronte bianco: dobbiamo fare qualcosa per salvaguardarla) riservano un’ottima accoglienza.
Non credo che la letteratura debba avere uno scopo etico o morale. Gli autos sacramentales cinque-seicenteschi, con le loro allegorie che magnificavano le virtù e condannavano i vizi, erano spesso molto noiosi. Da lettrice, preferisco opere in cui viene mostrata la condizione umana nella sua complessità, contraddizioni comprese. Čechov, il mio adorato Čechov, a chi ne criticava l’ambiguità morale ribatteva che il suo lavoro di narratore non consisteva nel giudicare e condannare i ladri di cavalli, che per quello c’erano i giudici, ma nel mostrare come erano fatti. I romanzi non cambiano il mondo. I libri che hanno un simile potere, come la Bibbia, il Corano, Il capitale o Mein Kampf, sono d’altra natura, più sinistra secondo me. Erri de Luca ha detto in un’intervista che la letteratura non serve a niente ma tiene compagnia. Una definizione che adoro.
“L’unica posterità a cui aspiro per i miei romanzi è quella immediata”.
Quando si racconta la vita di qualcuno realmente esistito bisogna colmare con l’immaginazione alcuni momenti e allo stesso tempo lasciar fuori qualcosa di realmente accaduto. Come funziona per te questo assemblaggio? Inizia con la ricerca e la documentazione o più tardi? E come scegli gli elementi da illuminare e quelli trascurabili? E infine: il tuo senso di responsabilità a chi è fedele, alle persone o ai personaggi?
È un tema delicato. Come narratrice mi sento molto più libera quando affronto personaggi fittizi; scrivere di una persona reale, che esiste o è esistita, mi pone di fronte a un dilemma morale: fino a che punto posso inventare? Mentre scrivevo La figlia ho avuto molti dubbi su come elaborare Ana Mladić e il padre Ratko, persone che nel mio romanzo trasformavo in personaggi, arrogandomi una libertà che forse non mi spettava. Io lavoro così: faccio molte ricerche prima di cominciare a scrivere e a volte anche durante la stesura.
Al momento di dare spessore narrativo ad Ana Mladić dovevo muovermi entro dei limiti, le cose che sapevo di lei, quelle che ero riuscita a scoprire, benché fossero molte di più quelle che ignoravo. Ana Mladić, a differenza del padre, non era una celebrità, non aveva rilasciato interviste né era stata ripresa dalle telecamere. Con i pochi dati che avevo messo insieme sulla sua breve vita ho tracciato un contorno che delimitava una grande zona d’ombra su cui con la massima cautela ho cominciato a fare luce, una luce falsa, mia.
Ho scritto di lei con guanti di velluto, per farmi perdonare la mia violazione, trattando con rispetto e delicatezza la tragica vita di una ragazza che, come persona, per me resta una sconosciuta. La Ana Mladić de La figlia è una mia creazione, un personaggio che conserva qualche somiglianza con la donna reale, ma è comunque frutto d’invenzione; io sono fedele soprattutto al mio romanzo come artefatto letterario. Su Ratko, suo padre, avevo a disposizione molto più materiale biografico e quindi mi risultava più facile ricrearne la personalità. Quasi tutte le battute di dialogo che gli attribuisco nel romanzo sono frasi o citazioni estrapolate da suoi discorsi o interviste.
Come mai hai deciso di diventare scrittrice, e perché? E ti ricordi la prima volta in cui ti sei sentita intimamente scrittrice?
Non ho ancora deciso se sono una scrittrice! Scrivo romanzi, ad oggi ne ho pubblicati nove. Questo fa di me una scrittrice? Per me scrivere è un’attività, non una professione o un segno d’identità. Nel periodo della mia vita in cui ho fatto l’avvocata non provavo alcun imbarazzo a definirmi tale, era il lavoro con cui mi mantenevo e che ho lasciato per dedicarmi a un’occupazione molto più precaria e meno rispettabile: l’invenzione di storie. Ancora adesso, dopo tanti anni dedicati alla scrittura, definirmi scrittrice mi sembra un’impostura. Scrivo perché così posso fuggire dalla realtà e stabilirmi in una realtà alternativa in cui sono io a dettare le regole, in cui sono Dio. O meglio, Dea.
In un’intervista hai parlato di Wittgenstein, che gioca un ruolo importante ne L’assassino timido, e ne hai citato una frase: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Eppure nel tuo lavoro talvolta sembri opporti a questa dichiarazione, tentando infatti di raccontare ciò che non si può sapere.
“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” è l’ultimo aforisma del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein ed è l’unico che noi comuni mortali inesperti di filosofia siamo in grado di capire. Se dessimo retta a Wittgenstein, la comunicazione umana sarebbe molto limitata, praticamente non potremmo parlare di nulla. Wittgenstein stesso ha confutato questa massima e anche tutte le altre contenute nel suo Tractatus; è l’unico filosofo della storia ad aver rinnegato il proprio sistema filosofico, ideandone un altro. Comunque sia, quell’imperativo categorico si attaglia all’ambito della filosofia, della capacità del linguaggio di riflettere la realtà in modo adeguato.
Secondo Wittgenstein la filosofia deve evitare di affrontare questioni come l’etica, l’esistenza di Dio, le emozioni, i sentimenti, l’estetica, l’arte, tutte cose da cui non si può ricavare una verità incontrovertibile e che, quindi, lasciano il campo libero agli autori di narrativa, i quali, ben lungi dal voler salire in cattedra, mettono subito in chiaro che gli eventi narrati non sono reali e non sono mai accaduti, o almeno non nel modo in cui loro li hanno descritti, e di conseguenza possono affrontare quelle questioni “proibite”. Ecco perché, nel mio L’assassino timido non mi ripropongo di discutere o giudicare un sistema filosofico che non mi sono sforzata di capire e che travalica la mia capacità di comprensione, ma mi permetto di inserirvi l’uomo Ludwig Wittgenstein come personaggio, di scherzarci persino, e di evidenziarne le contraddizioni. Come pensatore, era enigmatico e irraggiungibile, come uomo, umano, fin troppo umano, e quindi affascinante.
Letizia Battaglia, parlando con Franco Maresco, una volta disse che quando sono le donne a scattare foto di guerra si nota, perché le donne si concentrano sui dettagli. Tu credi ci sia una differenza di sguardo tra uomini e donne? Qualche volta, leggendoti, si ha la tentazione di chiedersi che forma avrebbero avuto le tue storie scritte da un uomo.
Quando ho esordito come scrittrice, sul finire del secolo scorso, mi irritava che la critica (o i critici, visto che erano per lo più uomini), mi inserissero nella categoria “letteratura femminile” insieme a tutte le altre scrittrici. I paragoni erano sempre con loro, e mai con scrittori maschi. Questi esperti ritenevano che a caratterizzare la narrativa scritta da donne fosse l’attenzione a temi tipici del loro sesso e della loro condizione: la vita domestica, la maternità, i rapporti di coppia e famigliari, problemi minori, ovviamente, se confrontati con quelli che angustiavano gli scrittori veri, e cioè i maschi, che erano invece universali, più ambiziosi e riguardavano tutti, uomini e donne.
Si dava per scontato che la letteratura con i piedi per terra praticata dalle scrittrici interessasse solo alle lettrici, che ne erano il pubblico naturale. Ben più di una volta, durante i firmacopie dei miei romanzi, mi sono trovata di fronte un uomo a disagio per l’imbarazzo di aver comprato in pubblico il mio libro ma anche di stare in coda per un mio autografo. Onde fugare ogni dubbio, dice che la firma la vuole per la moglie, figlia, sorella o madre, caso mai mi illudessi che a leggere il romanzo fosse lui. In altre parole: lui non è una donnicciola.
Fortunatamente, negli ultimi decenni le cose sono cambiate, gli uomini contemporanei non hanno più paura di affidarsi a una dottoressa e sono sempre di più i maschi disposti a leggere libri scritti da donne, una letteratura che comunque sono restia a considerare una categoria a se stante. Uomini e donne hanno esperienze di vita diverse ed è inevitabile e buono che questo si rifletta nel nostro modo di scrivere, ma ci sono altre circostanze personali che condizionano la nostra prospettiva: il ceto sociale, il luogo d’origine, l’età, l’etnia.
Fino a poco tempo fa lo scrittore per eccellenza era un maschio bianco occidentale (e si dovrebbe aggiungere: eterosessuale), ora abbiamo la fortuna e la possibilità di godere delle opere di autori, uomini e donne, o né l’una né l’altra cosa, di altre sessualità, culture, etnie e continenti, che non ci erano mai stati raccontati se non dal punto di vista dell’uomo bianco. È un arricchimento enorme per la letteratura. Tra i miei romanzi, quello che ha avuto più successo con i lettori maschi è La figlia, perché parla di una guerra e di un conflitto politico, immagino. Ho notato, infatti, che le lettrici preferiscono i capitoli che trattano di Ana Mladić e del suo rapporto con il padre, mentre i lettori di regola preferiscono quelli storici.
“Scrivo perché così posso fuggire dalla realtà e stabilirmi in una realtà alternativa in cui sono io a dettare le regole, in cui sono Dio. O meglio, Dea”.
Sia ne La figlia sia ne L’assassino timido invenzione e ricostruzione storica sono strettamente intrecciate. Per raccontare le storie di Mozarowsky e Mladić utilizzi sia l’accuratezza scientifica sia l’invenzione letteraria, mantenendoti in bilico sul filo che separa verità poetica e verità storica. Come gestisci questo equilibrio?
Io scrivo romanzi, racconti di finzione. Negli ultimi tempi ho preso la cattiva abitudine di inserire nella trama persone realmente esistenti o esistite, alcune anche molto note, come Ratko Mladić, Wittgenstein e il Re di Spagna, e altresì episodi della storia contemporanea, come la guerra in Bosnia, e li ho mescolati con le peripezie di personaggi inventati e situazioni immaginarie. È un bel rompicapo e non consiglio a nessuno di seguire il mio esempio, anche se non ho intenzione di fare ammenda e nel romanzo che sto scrivendo ora frammischio di nuovo realtà e finzione (con una novità: la protagonista, o una delle protagoniste, una donna reale, non è la vittima ma la carnefice). Questo modo di procedere mi crea un dilemma etico, che è sia umano sia letterario.
Fino a che punto è lecito affabulare sulla vita di persone reali? Devo rimanere rigorosamente fedele ai fatti o posso modificare qualcosa, se serve a dare coerenza al mio racconto?
Nel mescolare realtà e finzione, ritengo che a prevalere sia la finzione. Intendo dire che, per quanto nel raccontare la realtà storica, per esempio della guerra in Bosnia, mi sia attenuta il più possibile ai dati storici verificati, nessuno leggerà il mio romanzo come una cronaca o un libro di storia, per cui posso prendermi qualche libertà, soprattutto con i personaggi d’invenzione, se la verità narrativa, diversa da quella storica, lo richiede.
Inoltre, mentre scrivevo La figlia, Ratko Mladić era l’uomo più ricercato d’Europa e io avevo ben chiaro che il romanzo che stavo scrivendo non gli sarebbe piaciuto affatto. Uno dei personaggi reali dell’Assassino timido è Juan Carlos I, Re di Spagna, che al momento dell’uscita del romanzo non era ancora caduto (meritatamente) in disgrazia. Nel mio paese il reato di ingiuria alla corona è perseguibile penalmente, sono stata costretta a veri e propri funambolismi per non tradire la verità narrativa senza rischiare il carcere.
In Valori ti chiedi quali sono stati i valori dominanti in Occidente, quali sono ora e come si sono evoluti. Poni una domanda simile ne La figlia: cos’è l’eroismo? Mladić è un eroe agli occhi dei serbi, mentre nei nostri cuori è un mostro. La linea che separa la violenza dall’eroismo e i valori dal loro opposto è incerta; qualche volta è il tempo a cambiare il nostro punto di vista, altre volte basta cambiare prospettiva e indossare i panni di qualcun altro per vedere una versione della storia completamente diversa. Da dove hai iniziato a scrivere Valori? E come riesci a distinguere desideri e valori in una società individualista?
Come ho già avuto modo di dire, prima mi immagino i personaggi e le loro storie. È andata così anche con Valori. Si tratta in questo caso di un trittico formato da tre storie collegate tra loro. Solo in un secondo tempo, quando ero già alla fine della prima stesura, mi sono resa conto che, in un certo senso, ognuna delle tre vicende narrate in Valori rappresentava un valore etico o sociale diverso e in gran parte opposto agli altri: la libertà, la religione e la ricchezza.
Nella prima storia, Luisito Duch, l’erede di una ricca famiglia di Jaca, una città spagnola di provincia, repubblicano con simpatie a sinistra, è messo alla prova nelle sue convinzioni dall’insurrezione guidata da Franco. Allo scoppio della guerra civile, Jaca venne presa subito dalle forze nazionali, e il repubblicano Luis Duch fu arrestato e fucilato, nonostante appartenesse a una delle famiglie più in vista della città. Morì da eroe, o come si dice che muoiano gli eroi, senza cedimenti, senza chiedere scusa, urlando Viva la Repubblica. Aveva trent’anni. Conosco questa storia da quando ero una bambina perché Luis Duch era primo cugino della mia nonna paterna e mi è rimasta impressa fin da quando l’ho sentita per la prima volta dalle labbra di mio padre. La famiglia di Luis Duch, cattolica e superconservatrice, franchista, ovviamente, per decenni mantenne un rigoroso silenzio sulla sventura capitata alla sua pecora nera, pur avendone pianto la morte.
La seconda linea narrativa è, per così dire, una specie di spin off della Figlia. Nel fare ricerche sulla storia dei Balcani, mentre mi documentavo per quel romanzo, avevo scoperto un episodio della Seconda guerra mondiale di cui si è parlato poco: la creazione dello Stato indipendente di Croazia nel 1941, uno stato fascista, un fantoccio nelle mani di Mussolini e Hitler, guidato dal fascista croato Ante Pavelić, che morì in Spagna, sotto la protezione di Franco. I fascisti dello Stato indipendente di Croazia si accanirono nella pulizia etnica di zingari, ebrei e serbi, crearono più di venticinque campi di concentramento (il peggiore, Jasenovac), e sterminarono duecentomila persone, per lo più serbi, con la benedizione e la collaborazione entusiastica della chiesa cattolica croata.
Persino i gerarchi nazisti furono colpiti dalla crudeltà degli ustascia. Ci spaventano i recenti attentati e le stragi in nome dell’Islam, quando solo qualche decennio fa in Europa si uccideva in nome del Dio cattolico. Mi fanno paura i paroloni, come patria o Dio, mostri insaziabili che richiedono il sacrificio di vite umane.
La terza storia è legata a un valore più terreno, la ricchezza, il valore più alto nella nostra società dei consumi.
I “valori” sono anche i protagonisti di una certa retorica politica conservatrice che li usa per ricreare l’immagine di un passato perfetto, in cui le persone vivevano secondo valori veri, in famiglie vere. Ci si chiede se i valori siano mai esistiti a livello sociale “concreto”, o se l’equivoco non risieda nel fatto che i valori sono arrivati a noi attraverso il filtro dell’arte, che li ha resi vivi anche quando non lo erano davvero.
Le condizioni materiali in cui viviamo sono cambiate molto negli ultimi secoli, noi lo chiamiamo progresso, ma la natura umana è rimasta immutata. Possiamo viaggiare in aereo, navigare su Internet o fare trapianti di fegato, ma le emozioni e i sentimenti che ci muovono e ci affliggono sono gli stessi di cui parlavano i tragici greci: l’amore, l’odio, il desiderio, la paura, l’invidia, l’avidità, la generosità, la gelosia… Come scrittrice, me ne compiaccio. Se con il miglioramento delle condizioni di vita l’umanità fosse diventata virtuosa, di cosa scriverei? Scherzi a parte, è triste vedere che non abbiamo fatto un solo passo avanti, ci ritroviamo con la guerra in Ucraina, e con il riaffiorare dei nazionalismi xenofobi, dell’ultradestra nostalgica del fascismo e del dogma religioso in Europa e negli Stati Uniti, dove si stanno perdendo conquiste sociali che sembravano ormai consolidate, come il diritto all’aborto.
Odio il nazionalismo, l’orgoglio geografico, la stupida convinzione che essere nati in un luogo anziché in un altro, fatto del tutto accidentale, ci renda superiori, migliori di chi invece ha avuto la sfortuna di essere nato dall’altro lato di una frontiera immaginaria. Tutti i nazionalismi, nell’affermare le proprie differenze storiche e culturali, sono uguali, travisano la storia a proprio piacimento, inventano miti fondativi ed epoche auree che non sono mai esistite, in cui i nostri avi vivevano in armonia e prosperità, in una comunità omogenea, senza mescolarsi con quegli intrusi stranieri che minacciano il nostro stile di vita, le nostre tradizioni, la nostra cultura. È in voga la dottrina della sostituzione etnica, ed è molto pericolosa.
“Fino a che punto è lecito affabulare sulla vita di persone reali?”
Apparentemente, in Europa non siamo mai stati così bene: l’aspettativa di vita è altissima, in molti paesi la sanità è gratuita, i diritti civili cominciano a essere garantiti quasi ovunque, siamo meno poveri di settant’anni fa, le donne, benché memori del passato, iniziano a essere davvero libere. Ciononostante, sembriamo odiare la società in cui viviamo. Come mai secondo te?
Ricordo la mia giovinezza come un periodo pieno di ottimismo e di speranza, appartengo alla generazione che è diventata maggiorenne insieme all’arrivo della democrazia. La Spagna appena uscita dalla dittatura era un paese povero e arretrato rispetto al resto d’Europa, le condizioni economiche dei ragazzi della mia generazione erano notevolmente peggiori di quelle dei giovani d’oggi, eppure, noi avevamo speranza, eravamo convinti che con la libertà e la democrazia le cose non potessero che migliorare e ci auguravamo un futuro splendido; poi ci hanno pensato la realtà e il tempo a disilluderci, ma questa è un’altra storia.
La nostra realtà è la percezione che ne abbiamo, chiedo venia per il truismo, e sono convinta di non esagerare se dico che uno spettro si aggira per il mondo: il pessimismo. Mai erano state scritte tante distopie come in questi anni. Non è un pessimismo privo di fondamento, ha la sua ragion d’essere, a partire dal riscaldamento globale, o, se preferiamo, crisi climatica, che non è una semplice minaccia sospesa sul nostro futuro ma una realtà. In Catalogna, dove vivo, non piove da tra mesi, non c’è acqua, i bacini artificiali sono vuoti, i fiumi in secca, i raccolti vanno a male e si prospettano delle restrizioni.
Rivedremo la pioggia? Comincio a nutrire qualche dubbio. Ovunque le ondate di caldo record arrivano sempre prima, sono sempre più frequenti e più lunghe. Tra pochi decenni, gran parte della Spagna sarà un deserto, prospettiva questa che non invita all’ottimismo. I miei nipoti dovranno emigrare in paesi nordici dal clima più benevolo, come stanno facendo ora migliaia di africani, a causa della siccità e del clima inclemente? E quelle nazioni li accoglieranno di buon grado o li lasceranno annegare nel mare, come noi europei stiamo facendo con i rifugiati che cercano di raggiungere il nostro continente? Stiamo scoprendo che il progresso di cui ci vantiamo tanto è un mostro che divora i propri figli, ma non sappiamo, o non vogliamo, rinunciarci. Se ciò non bastasse, aggiungiamoci un aumento esponenziale delle disuguaglianze (mai i ricchi erano stati tanto ricchi), lo strapotere di grandi imprese, per esempio quelle tecnologiche, che i nostri governi non osano regolamentare, il declino della democrazia e l’ascesa di dittatori atroci… E mi fermo qua, è troppo deprimente, mi astengo dall’elencare altri segnali infausti.
Mi consola ricordare che il Novecento, a cui sembra che guardiamo con nostalgia, fu segnato, almeno in Europa, da conflitti bellici costanti, tra cui due guerre mondiali, e in Spagna da una guerra civile brutale e una dittatura fascista durata oltre quarant’anni. Qualsiasi epoca passata ci sembra migliore solo perché tendiamo a idealizzarla, l’incertezza è la cifra della natura umana, insieme a una straordinaria capacità di adattamento e di sopravvivenza, e io conto che, malgrado tutto, ce la faremo.
Il suicidio e la morte sono molto presenti nel tuo lavoro. Hai raccontato che durante la tua giovinezza ti sei abituata alla morte. Oggigiorno, invece, la morte è scomparsa dai nostri discorsi, e la conseguenza è che la temiamo più che mai, non vogliamo morire, non vogliamo invecchiare (come il Covid ha mostrato molto chiaramente). Perché il nostro rapporto con la morte è cambiato così tanto? E quali pensi che siano gli effetti di questa scomparsa apparente della morte?
Il suicidio è una mia vecchia ossessione, un’ossessione morbosa, patologica; in tutti i miei romanzi c’è almeno un personaggio che si toglie la vita, e nell’ultimo che ho pubblicato, L’assassino timido, il filo conduttore, il protagonista, è appunto il suicidio, perciò, per non ripetermi non mi dilungo oltre.
Nell’Ottocento in Europa la speranza di vita era di quarantadue anni, nel Duemila è raddoppiata. Nell’Ottocento la mortalità infantile, durante il parto o causata da malattie, era molto alta. Questo significa che, per un europeo vissuto cento e più anni fa, la morte di una persona cara, un figlio, un fratello, la madre o il padre, era un fenomeno frequente e accettato; a essere insolita era la longevità. Ora abbiamo invertito i termini; per fortuna, le morti infantili sono più rare e gli europei che raggiungono una, per usare un eufemismo, veneranda età sono la maggioranza. Oggi la morte è qualcosa che capita ai vecchi, e quando ci strappa qualcuno che è ancora giovane o non molto anziano, ci causa stupore, sorpresa, indignazione, abbiamo quasi dimenticato che siamo mortali, e infatti viviamo in una cultura che esalta l’eterna giovinezza, facciamo di tutto per cancellare dal volto e dal corpo i segni del passare del tempo, come se con i nostri trucchi aspirassimo a ingannare la morte e conquistare l’immortalità.
Purtroppo, la maggiore aspettativa di vita non implica una maggiore qualità, la vecchiaia ci spaventa come una malattia incurabile. L’Alzheimer, la demenza senile, la totale dipendenza fisica e mentale degli ultimi anni di vita sono mali recenti, una volta la gente moriva prima, non faceva in tempo a svilupparli. Credo che ci sia ben di peggio della morte fisica, ed è la perdita dell’identità, la morte in vita di cui soffrono migliaia di anziani, è come se l’umanità avesse stretto un patto faustiano con la scienza: le abbiamo chiesto la longevità, ci ha concesso anni senza memoria.
Il senso di colpa ricorre spesso nel tuo lavoro: da Mladić a Padre Casimiro, il senso di colpa è una leva potente che muove i tuoi personaggi. Come mai? E ti sembra che sia un sentimento più maschile che femminile?
L’enunciato di questa domanda mi fa venire dei rimorsi, confesso di essere colpevole di abusare del senso di colpa nei miei romanzi, non ho altra spiegazione che la mia educazione cattolica, durante la quale con una buona dose di sadismo mi veniva ricordata ripetutamente la mia grandissima colpa. Borges diceva che non tutti gli atei sono uguali, ci sono atei protestanti, cattolici, ebrei, mussulmani: io sono un’atea cattolica.
Non credo che il senso di colpa sia un fenomeno in larga misura maschile, anzi, le donne, poiché si prendono cura degli altri, hanno più responsabilità e di conseguenza più occasioni di sentirsi in colpa. (Finalmente, una risposta breve!)
Irene Graziosi
Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).
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