Luca Pisapia
Alle origini del tifo organizzato, spesso raccontato dai media in modo tendenzioso e denigratorio, c’era l’espressione di una cultura di classe, con dei codici espressivi simili in tutto il mondo. Oggi, tra infiltrazioni criminali e interessi economici, quella cultura è a rischio.
Qualche mese fa, i dirigenti dell’Inter sono stati ascoltati dalla Commissione consiliare antimafia del Comune di Milano. Non si tratta però di un’inchiesta su evasione fiscale, fondi neri o riciclaggio, pratiche che nel calcio, anche di altissimo livello, sono comuni. L’inchiesta riguarda i tifosi, o meglio i presunti rapporti tra i dirigenti dell’Inter e la Curva Nord, dove da anni è in atto una lotta di potere che, tra gambizzazioni, agguati e omicidi, vede coinvolte diverse fazioni della criminalità organizzata.
Oggi i soldi delle curve arrivano dal merchandising e dall’organizzazione delle feste e delle trasferte, attività che coinvolgono le migliaia di ragazzi che ogni settimana vanno allo stadio, e le decine di migliaia che intorno a quell’ambiente gravitano. Ma i soldi delle curve arrivano anche dallo spaccio, e quando si parla di droga non ci si riferisce solo alla vendita al dettaglio, ma spesso anche al commercio all’ingrosso: vengono strette alleanze e spalancate rivalità sul territorio, nei quartieri cittadini e negli spazi di transito dove passano le merci. Il territorio richiede un controllo sempre più capillare, poi, che sfuma i confini tra mano d’opera criminale, manovalanza ultras e bacino elettorale: le immagini di politici e candidati, anche di primo piano, in posa con i capi delle curve sono apparsi nel tempo praticamente in ogni città.
La Curva Nord dell’Inter è in mano a criminalità organizzata e neofascisti: tra violenze, sopraffazioni, rese dei conti, tradimenti, la violenza è anche interna al gruppo. La situazione è paradossale ma non inedita: è già capitato in passato, ad esempio nelle curve di Milan e Juventus.
Bisogna partire da storie come questa per capire il mondo ultras contemporaneo. A guidarci possono essere però alcuni libri che, in questi anni, hanno tentato di raccontare i tifosi senza pregiudizi. Perché la violenza delle curve non è giusta, non è condivisibile. Ma prima di condannarla ne andrebbero approfondite le ragioni, le cause, i sintomi: non si può ignorare che, dietro ogni società che si crede felice e pacificata, si nascondano ghetti e risacche di malessere e povertà. E che, al di là la retorica del buon tifoso alla Nick Hornby, la violenza delle curve è – o è stata – spesso violenza di classe, una risposta alla ghettizzazione di cui le parti più deboli della società sono vittime.
Calcio, violenza e potere
Nel suo Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, John Clarke, sociologo britannico già animatore degli storici cultural studies dell’Università di Birmingham, scrive che il tifoso nasce in contesti urbani e replica i “valori della sua comunità di riferimento” portandoli all’eccesso. Nel secondo dopoguerra i giovani della working class britannica sfogavano nel tifo la propria disillusione e la rabbia contro la società, e contro un’industria sportiva che si stava già all’epoca spostando sempre di più verso logiche di puro profitto.
“‘Fra Gli Ultras. Viaggio nel tifo estremo’, del giornalista e scrittore James Montague, cerca di raccontare gli ultras di oggi in varie parti del mondo analizzando le traiettorie lungo le quali si è sviluppata, nei decenni, la ghettizzazione sociale delle curve”.
Valerio Marchi, in tutti suoi libri, da Teppa a Ultrà, racconta la violenza delle curve – che germoglia negli stadi tra i posti più convenienti e da cui il campo si vede peggio – come espressione di una “resistenza” alla gabbia economica, sociale e urbana in cui il potere da sempre confina gli esclusi (Marchi lo fa senza nostalgie e senza voler mitizzare uno stile che definisce “maschio bianco e violento”). Cass Pennant, scrittore ed ex hooligan, nel suo Congratulazioni, hai appena incontrato la ICF ricorda le risse del gruppo organizzato di tifosi a cui apparteneva: la Inner City Firm del West Ham, che negli anni Settanta e Ottanta faceva il bello e cattivo tempo su e giù per l’Inghilterra – Inner City è lo slang per i treni Inter City usati nelle trasferte – al seguito di una squadra che era il simbolo del quartiere proletario e industriale dell’est londinese.
Se questa era la cultura ultras, come siamo arrivati alle cronache degli ultimi anni? Fra Gli Ultras. Viaggio nel tifo estremo, da poco pubblicato da 66thand2nd, è un libro di James Montague, giornalista e scrittore di «The Athletic» e del «New York Times», che cerca di raccontare gli ultras di oggi in varie parti del mondo analizzando le traiettorie lungo le quali si è sviluppata, nei decenni, la ghettizzazione sociale delle curve. Montague rintraccia prima di tutto una matrice comune del tifo organizzato:
“Una cultura che ha sviluppato le proprie regole, che ha vissuto al di fuori della legge o, quantomeno, in perenne contrasto con essa. Che comunica attraverso enfatiche dimostrazioni pubbliche: grandi bandiere, coreografie variopinte, dichiarazioni politiche, fumogeni, tributi, condanne, bengala, violenze e commemorazioni. È una cultura antiautoritaria che nutre una profonda sfiducia verso le forze dell’ordine e i media. Che è contraria alla commercializzazione del calcio e dei suoi membri. E che ha sviluppato una rete internazionale di amicizie e rivalità, un suo codice di onore e un profondo senso di rivalità”.
Emergono quindi le prime contraddizioni: da una parte un profluvio di simboli identitari necessari a creare comunità, simboli che degenerano spesso in elementi di razzismo, machismo e nazionalismo. Dall’altra una tendenza anti-autoritaria che ribadisce l’essere “classe in sé” del gruppo, incapace però di sviluppare una coscienza e una progettualità, incapace di prendersela, insomma, con il “sistema” che origina le disuguaglianze, e che trova più facile attaccare le “pedine” messe a difesa di quel sistema: le forze dell’ordine e i media.
Il viaggio di Montague all’interno del tifo organizzato, corredato di fotografie, parte in Sudamerica, dalle barras bravas (gruppi coraggiosi) di Uruguay e Argentina, passando per la torcida brasiliana. E attraversa il mondo a ogni latitudine per poi finire con il racconto delle tawuran (‘battaglie di strada’) tra i neo-hooligans dell’Indonesia. Il racconto è impreziosito dalla vicinanza all’ambiente, dal coinvolgimento, dall’ascolto: nel libro sono riportare con tono confidenziale parole che in altri contesti non sarebbero state pronunciate con la stessa libertà.
A Buenos Aires, Rafa, della Doce del Boca Juniors (la barra ha scelto di chiamarsi “dodici” perché sono “il dodicesimo uomo in campo”), racconta: “La barra è contro l’autorità, di sicuro contro la polizia. È sempre stata contro l’autorità. Quindi nel gruppo non è ammesso nessuno che sia legato a qualsiasi tipo di autorità, altrimenti lo cacciamo e lo riempiamo di botte. […] Hanno paura del nostro potere e della nostra violenza. Le volte che abbiamo combattuto con la polizia e abbiamo perso è stato perché loro ci hanno sparato. Senza proiettili non vincerebbero mai. […] In questo paese ammazzare uno sbirro è meritorio, voglio dire che in carcere sei ben visto se ci sei finito per aver ucciso un poliziotto”.
Montague attraversa poi i Balcani, a partire dallo storico gruppo, attivo fin dagli anni Cinquanta, della Torcida dell’Hajduk. “A Spalato siamo sempre contro qualcosa. Non è molto sano, ma a volte può essere molto utile”, racconta Rilov, uno dei suoi leader, fedele alla natura dišpet, “ribelle”, della tifoseria e della città. Tra i territori frammentati della ex Jugoslavia, Montague arriva a Belgrado, dove introduce il lettore ai Delije, il gruppo unico che oggi raccoglie le tre organizzazioni preesistenti dei tifosi della Stella Rossa Belgrado. Quel catino in cui Željko Ražnatović, il famigerato Comandante Arkan al soldo di Milošević, negli anni Ottanta, già reclutava i miliziani che avrebbero preso parte alle guerre di Jugoslavia.
Montague mostra come le curve possano essere espressione e riflesso delle dinamiche, anche nascoste o dormienti, di una società. In Argentina, suggerisce che l’esplosione della violenza del tifo sia riconducibile alla difficile storia nazionale, tra colpi di stato, dittature militari, torture, sparizioni e omicidi. Negli stati balcanici, sono in molti a raccontare a Montague come sugli spalti, a partire dagli anni Ottanta, si fossero cominciate a manifestare insofferenza, razzismo e violenza, avvisaglie delle forze che sarebbero poi sfociate nei conflitti jugoslavi degli anni Novanta. Un esempio su tutti: il gioco di ruolo preferito dagli ultras è sempre stato quello di rubarsi la bandiera, invadere cioè il territorio avversario, scontrarsi con il nemico e accaparrarsi il suo vessillo, in un palese scimmiottamento di un conflitto armato. Negli anni Ottanta, nei Balcani, il gioco inizia improvvisamente a farsi serio, e gesti che sembravano fino al giorno prima un’innocua pantomima assumono nuovi significati: negli stadi non si combattono più i tifosi di una città contro l’altra, ma ustascia contro cetnici, serbi ortodossi contro musulmani, e così via.
Nel Maghreb, invece, durante le Primavere Arabe, gli ultras diventano la più grande forza di opposizione al potere, contribuendo a volte a rovesciarlo. Ma il tifo inteso come contropotere ha segnato anche la storia di Italia, Grecia e Turchia. Proprio in Turchia, durante le rivolte di Gezi Park del 2013, i gruppi organizzati delle tre squadre principali di Istanbul – ultrAslan (Galatasaray), Vamos Bien (Fenerbahce) e Çarşı (Besiktas) – si sono uniti in un’alleanza inedita, gli Istanbul United, per fornire sostegno e protezione ai manifestanti, in quello che è stato il più grande e partecipato momento di opposizione a Recep Tayyip Erdoğan.
“Montague mostra come le curve possano essere espressione e riflesso delle dinamiche, anche nascoste o dormienti, di una società, in Argentina come nei Balcani”.
Montague continua il suo viaggio alla ricerca dello spirito comune della cultura ultras, raccoglie storie e contraddizioni, ma quando si sposta nel Nordest europeo e negli Stati Uniti, cominciamo a riconoscere meglio quel mutamento di paradigma che ci porterà alla Curva Nord dell’Inter. Lì, nei paesi più ricchi, il tifo moderno non è più quel carnevale a base di bandiere e striscioni, canti, cori, che degenera in risse e bottigliate a sostegno della propria squadra e della propria identità.
Il calcio è cambiato assieme ai modi di produzione della società in cui si trova, e oggi è entrato nella sua fase tardo capitalista, nei flussi immateriali della globalizzazione finanziaria: i club non sono più in mano a ricchi industriali ma a fondi d’investimento, mentre le partite diventano uno show sempre più dilatato a cui assistere in televisione. Anche la violenza del tifo, così, si riorganizza.
Montague comincia raccontando dell’okolofutbola (“intorno al calcio”), ovvero i combattimenti organizzati dalle tifoserie fuori dagli stadi, nelle piazze e nelle stazioni, nei boschi. È uno stile che si diffonde negli anni Zero tra Russia e Ucraina e poi si espande in Polonia, Olanda, Ungheria e Repubblica Ceca. I nuovi combattimenti tra tifosi sono infatti organizzati in maniera semi-professionale, avvengono anche lontano dallo stadio, prima, dopo e durante la partita. Spesso vi prendono parte lottatori di MMA che, senza nessuna vera vicinanza affettiva per la squadra e nessun coinvolgimento di tifo, si danno appuntamento, a decine, nei boschi. Le regole: il numero dei partecipanti deve essere pari per ambo i lati. Niente armi, si lotta a mani nude. Chi perde i sensi non deve più essere toccato. Un codice d’onore tra combattenti. Molto spesso gli incontri sono anche filmati, e online se ne trovano molti. Nei video, i partecipanti indossano sciarpe e magliette delle loro squadre, ma il pallone non c’entra più nulla.
Questa modalità di scontro – ispirata all’hooliganismo britannico e in grado di sorpassarlo dal punto di vista della brutalità – nasce in realtà già negli anni Settanta in Germania, tra recrudescenze neonaziste e profonde lacerazioni sociali. La Germania, dove pure ogni tanto si assistono a scontri di questo tipo, è stata però la prima ad allontanarsene. Lì, a partire dagli anni Novanta molti gruppi di tifosi cominciano a stringere accordi con i club, e sono accordi principalmente economici. Le nuove generazioni cominciano a intendere il tifo come un business. Ci si comporta bene e in cambio si ottengono soldi per le coreografie. Attraverso figure specifiche inserite nei ranghi dei club, spesso ex calciatori o ex tifosi, nascono addirittura le prime forme di collaborazione tra gruppi di tifosi e forze dell’ordine. Gli accordi con l’odiata polizia tradiscono il primo principio ultras, sintetizzato dalla sigla acab (all cops are bastards) fin qui onnipresente nelle curve.
La commercializzazione della cultura ultras ha, come prevedibile, il suo apice negli Stati Uniti. Dove però ci sono delle eccezioni: nel (ri)nato soccer alcune tifoserie, come Orlando e Portland, sono vicine all’estrema sinistra e in prima fila nelle battaglie contro la gentrificazione degli spazi urbani e per rivendicare i diritti delle minoranze. Ma Montague si sofferma più attentamente sulla funzione puramente decorativa dei tifosi dei Los Angeles FC, capaci di coreografie incredibili e costosissime proprio perché finanziate dal club e dagli sponsor. Una imitazione della cultura hooligans (e ultras), depurata dal conflitto e dalla violenza, e resa spettacolo, simulacro inoffensivo.
In Italia
Per come la conosciamo, la cultura ultras (dal latino ultra: andare oltre, più in là) si definisce in Italia sul finire degli anni Sessanta: i cori sulle note delle canzoni che vanno per la maggiore, i tamburi e i bandieroni, gli striscioni che veicolano messaggi politici e non solo a sostegno della squadra. I capi ultras danno la schiena alla partita e guardano la curva, il resto dello stadio li guarda: lo spettacolo non è più solo sul campo.
“La storia delle curve è la storia dell’Italia”, scrive Montague, a partire dalla stagione dei movimenti e dell’assalto al cielo, in cui non era raro trovare i gruppi ultras in prima fila nei cortei o negli espropri proletari, fino al più recente dominio dell’estrema destra sugli spalti. Un ribaltamento che era stato già notato negli anni Novanta da Alessandro Dal Lago in Descrizione di una battaglia (Il Mulino) e da Carlo Balestri e Carlo Poladiri in The Ultras, Racism and Football Culture in Italy, dove i due autori scrivono: “I nuovi gruppi erano il risultato di un periodo in cui la società civile era dominata da edonismo, esibizionismo, e disaffezione per l’impegno politico e sociale. Il paradigma stilistico adottato da molti nuovi ultras era spesso sciovinistico, violento e intollerante”.
“Il tifoso, secondo Valerio Marchi, è la moderna rappresentazione del ‘folk devil’ delle antiche favole. È la teppa, la feccia, il cattivo della cui salvezza e redenzione non interessa a nessuno. Il perfetto capro espiatorio su cui scaricare i mali della società”.
Basta aver frequentato anche distrattamente le curve italiane per rendersi conto di come dagli anni Zero cori e simbologie dell’estrema destra siano diventati predominanti. O di come i gruppi più astuti e meglio organizzati nascondano dietro una patina di apoliticità le parole d’ordine e i comportamenti del neofascismo. Certo, negli ultimi mesi abbiamo visto molte curve italiane manifestare negli stadi a favore della Palestina, esporre striscioni contro gli abusi della polizia e in ricordo delle vittime del lavoro. Pratiche che oramai, negli spazi pubblici, sono invece sempre più spesso represse duramente dalle forze dell’ordine. Ma sarebbe poco corretto affiliare queste mobilitazioni all’estrema sinistra, una volta culla della cultura ultras. Come scrive ancora Montague:
“Il tifo estremo […] ha un’anima politica (nonostante gli ultras dichiarino spesso il contrario), cresciuta in particolare negli ultimi anni, con l’ascesa dell’estrema destra. In alcuni paesi, gli ultras sono stati arruolati dal crimine organizzato, o perfino dal governo. La loro è una realtà dominata dagli uomini, fortemente patriarcale, e con un’indole violenta, che ha offerto uno spazio politico al dissenso e ha alimentato, e vinto, rivoluzioni. Gli ultras sono al tempo stesso temuti e bramati dalle figure di potere”.
Criminalità e repressione
Il tifoso, secondo Valerio Marchi, è la moderna rappresentazione del folk devil delle antiche favole. È la teppa, la feccia, il cattivo della cui salvezza e redenzione non interessa a nessuno. Il perfetto capro espiatorio su cui scaricare i mali della società. Ma non solo. Gli ultras sono anche un laboratorio su cui si sperimentano le più cruente forme di repressione. Scriveva sempre Marchi in Ultrà:
“Il sistema securitario di sorveglianza e repressione si inizia a dedicare alla coercizione dei tifosi, affinando tecniche e metodologie e intensificandone la recrudescenza di intervento mirato, riconoscendone intrinsecamente la pericolosità sociale in quanto uno dei pochi reali luoghi di conflitto insorgente rimasto attivo nel tessuto sociale nazionale”.
In Italia Montague intervista due personaggi molto diversi tra loro e a loro modo molto rappresentativi delle curve italiane. Il primo è Claudio Galimberti, meglio noto come il Bocia. Tifoso dell’Atalanta, è stato negli anni Ottanta e Novanta lo spauracchio di ogni curva rivale, prima di venire sconfitto dal sistema contro cui lottava. Ha dedicato tutta la vita alla squadra, o meglio alla Curva Nord 1907. Non solo non ha mai guadagnato un euro, ma ci ha rimesso sotto tutti i punti di vista: una serie infinita di Daspo (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive), obblighi di firma, divieti di permanenza, arresti e affidamenti ai servizi sociali.
Il secondo è Fabrizio Piscitelli, in arte Diabolik, leader degli Irriducibili della Lazio ucciso con un colpo di pistola sulla panchina di un parco romano nell’estate del 2019. La sua figura è rappresentativa di quella terra di mezzo della Capitale dove da sempre si incontrano criminalità organizzata e manovalanza neofascista al servizio del traffico di droga, del controllo delle periferie e della speculazione edilizia. Ma quel che ci interessa qui è ovviamente la sua figura di tifoso.
Alla fine degli anni Ottanta Piscitelli, con gli Irriducibili, comincia a occupare militarmente la Curva Nord. Impone un nuovo modo di tifare più vicino al rigido modello inglese che non al caciarone modello italiano, ma soprattutto crea una macchina da soldi. Con la complicità della dirigenza dell’epoca, gli Irriducibili assumono il controllo di parte dell’indotto della squadra. Gestiscono gli ingressi allo stadio, le trasferte, il merchandising, e poi ovviamente lo spaccio di droga, dentro e fuori lo stadio.
Sono i primi a creare una propria mascotte – Mister Enrich, un personaggio con bombetta in testa e bomba a mano – e a mettere in commercio prodotti che la raffigurano. Contravvenendo a ogni regola e codice d’onore ultras vendono il loro credo, la loro fede e il loro simbolo, guadagnano soldi che poi non sono reinvestiti in coreografie o per sostenere la curva, ma vanno a rimpinguare il conto in banca dei capi. L’amore come merce, il tifo per la squadra come attività a fine di lucro: all’epoca sembrava uno scandalo, un’eresia. Oggi non sono più gli unici. Questo approdo del tifo alla cultura della ricchezza individuale a scapito della redistribuzione collettiva assume tratti sempre più inquietanti in Curva Nord, e, come emerge dalle inchieste su Mafia Capitale, gli Irriducibili iniziano a essere foraggiati da, e agiscono per conto di, vari gruppi della criminalità organizzata che controllano il territorio romano. Un modello che si diffonde in moltissime curve, anche nella Curva Nord dell’Inter, dalla quale siamo partiti.
“Non sappiamo se la cultura ultras sia morta, quello che pare certo è che sembra scomparsa la possibilità di ribellarsi”.
La triste parabola di quella che era una delle sottoculture di strada più ostinate e irredimibili – la cui stessa condizione di esistenza era l’opposizione a ogni forma di autorità – non ci dice nulla sul fatto che fosse in origine giusta o sbagliata. Non possiamo dire che la cultura ultras sia finita peggio perché era partita male. Piuttosto, analizzandola, e sospendendo il giudizio, possiamo riconoscere oggi nelle sue degenerazioni i riflessi una società sempre più egoista e frammentata.
D’altra parte nessuna sottocultura è eterna. Alcune mutano pelle, altre scompaiono. Come dimostra il libro di James Montague, le sottoculture ultras resistono perché fanno accordi con la criminalità o con la polizia. Perché hanno abbandonato gli stadi mettendo in scena repliche di antiche battaglie nei boschi e nelle foreste, dove non disturbano i miliardi macinati dalla Champions League e dai fondi d’investimento finanziario che la sostengono. Raramente, ormai, le sottoculture ultras resistono come risacca di opposizione a poteri violenti e autocrati che non possono controllare tutto il dissenso e non riescono a sussumerlo. Più spesso resistono perché si sono trasformate in una macchina da soldi che riesce a fagocitare il dissenso e a metterlo sul mercato. Non sappiamo se la cultura ultras sia morta, quello che pare certo è che sembra scomparsa la possibilità di ribellarsi.
Questo contenuto è stato realizzato in collaborazione con La Content, agenzia di comunicazione e accademia di formazione sullo storytelling. Partner di Lucy per i corsi di scrittura.
Luca Pisapia
Luca Pisapia è giornalista e collabora con diverse riviste e testate. Il suo ultimo libro è Uccidi Paul Breitner (Alegre, 2018).
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