Lorenzo Gramatica
02 Settembre 2024
L’ultimo film di Walter Salles, "Ainda estou aqui", si regge sulla magnifica interpretazione di Fernanda Torres, che interpreta Eunice, moglie di Rubens Paiva, deputato laburista fatto sparire dal regime brasiliano.
C’è un po’ di stanchezza al Lido. In coda per l’ultima proiezione del giorno, un’ elegante signora con ventaglio si volta e dice: “Mi fanno male i piedi” e, pure se non è Monica Vitti, è convincente, la capisco – il più grande rimpianto di questi giorni è non essermi portato le Teva.
Ma che c’è fiacca lo dimostra soprattutto il “muro del pianto” che ogni anno Gianni Ippoliti e Codacons allestiscono accanto al Palazzo del Casinò. Al grido di “Ridateci i soldi!”, i partecipanti al festival appendono in bacheca il loro pensierino, preferibilmente perfido, sui film in Mostra, assieme a lamentele varie. C’è spesso della cattiveria ispirata, ma quest’anno meno: giochi di parole flosci, qualcuno la spara grossa ma senza crederci davvero.
Forse perché i film sono bellissimi?
No, quantomeno non ancora, ma è vero che alcuni di questi non meritano elogi sperticati e nemmeno stroncature; sono più o meno riusciti, magari con qualche buona idea o mossi da ottime intenzioni.
Ainda estou aqui (I’m Still Here) pareva dovesse essere presentato a Cannes, e invece eccolo in concorso a Venezia.
È il film più personale di Walter Salles, regista brasiliano con pied-à-terre a Hollywood, autore de Central do Brasil (Orso d’Oro a Berlino), I diari della motocicletta e On the Road.
Il film racconta una storia vera e tremenda, quella del deputato laburista Rubens Paiva.
Per Salles, la vicenda ha un’importanza non solo storica e culturale, ma privata: da bambino, infatti, era amico dei figli e vicino di casa di Paiva, fatto sparire nel 1971 dalla dittatura dei generali brasiliana insediatasi al potere nel 1964 con la complicità degli Stati Uniti d’America.
La dittatura castra anche una generazione di artisti particolarmente talentuosa e ispirata, nella musica e nel cinema soprattutto: i primi Sessanta sono gli anni del Tropicalismo di Veloso, Gil e degli Os Mutantes, e del Cinema Novo di Glauber Rocha e di Nelson Pereira Dos Santos.
Nel film di Salles, quei vinili sono consumati dalla figlia maggiore di Rubens Paiva, Vera, molto impegnata politicamente, cinephile (va al cinema a vedere Blow Up,) immersa appieno nel clima culturale hippie e libertino di quegli anni.
Cresce, assieme al padre (interpretato, con straordinaria somiglianza fisica, da Selton Mello), alla madre Eunice (Fernanda Torres), alle tre sorelle, al fratellino Marcelo e alla domestica, in un contesto alto borghese, educato, in una bella casa a due passi dalla spiaggia di Copacabana. Dal cortile, alzando lo sguardo, si vede il Cristo del Corcovado che domina la città. Ma nel cielo passano anche gli elicotteri dei militari e nelle strade i blindati, segni di una nuova normalità che i progressisti faticano ad accettare.
Il film si apre nel Natale del 1970: Rio è militarizzata, con posti di blocco a ogni angolo di strada. Il gruppo di estrema sinistra Vanguarda Popular Rivolucionaria ha rapito l’ambasciatore svizzero Giovanni Enrico Bucher. Si prepara la repressione, le maglie del regime si fanno più strette: l’occasione è propizia per far sparire i rivali politici.
Rubens Paiva, che non è più deputato ed esercita il mestiere di ingegnere, non presta ascolto a chi gli consiglia di andarsene altrove con la famiglia, magari a Londra, dove si trasferiranno presto alcuni amici librai ed editori. Ma no, non succederà nulla, meglio stare qui, e poi stiamo costruendo una nuova casa, si dice con l’ingenua convinzione che hanno i democratici animati da senso di giustizia e i borghesi colti che non credono possibile il collasso della vita che si sono costruiti. A Londra mandano Vera, la figlia maggiore ribelle, che da lì invia video in Super 8 che immortalano Abbey Road.
Quando degli sgherri in borghese bussano alla porta e portano via Rubens per un interrogatorio di routine, si sa che quella è l’ultima volta che la famiglia avrà il piacere di essere unita; le foto scattate assieme pochi giorni prima finiranno per cristallizzare un momento di felicità destinato a rimanere irripetibile.
Eunice, la moglie, si ritrova la casa piantonata da sinistri figuri, che la sorvegliano, tenendo lei e i figli prigionieri. Passano i giorni, il marito non torna, lei e una figlia vengono interrogate, imprigionate e rilasciate, nessuno le dice niente, gli amici giornalisti, avvocati ed ex politici non possono nulla, se non qualche vaga parola di conforto. L’ottimismo svanisce, ma nessuno ha il coraggio di ammettere la verità: Rubens è stato ucciso. Quando una fonte autorevole lo conferma, non si può dire, il regime negherà fino alla fine. Rubens, come molti altri in quegli anni, è uno dei desaparecidos a cui è negato persino il diritto alla morte.
Il film di Salles si regge sull’ottima interpretazione di Fernanda Torres: sul suo volto bello e dignitoso si dipingono incredulità e fierezza, dolore e coraggio. Questa donna colta e intelligente deve mantenere unita la famiglia, proteggere i figli – anche dalla verità –, ingegnarsi per portare in tavola un pasto (i conti del marito sono bloccati), reinventarsi, tornare a studiare, perseguire il suo desiderio di giustizia. Anche un certificato di morte verrebbe accolto con sollievo. Colpisce la compostezza di questa donna che offre il caffè agli aguzzini, pratica il buonsenso, l’intelligenza, la pazienza, senza dimenticare il fine ultimo della battaglia, tenendo assieme idealismo e concretezza.
Ainda estou aqui, che è tratto dal libro del figlio di Rubens ed Eunice, Marcelo, segue la famiglia e le sue vicissitudini fino al 2014. Eunice, ormai vecchia e interpretata da Fernanda Montenegro, nel frattempo è diventata attivista per i diritti umani, brillante docente di giurisprudenza e consulente delle Nazioni Unite. Quando guarda in camera, ripresa in primo piano, è ancora in grado di reagire al dolore con un sorriso pieno di dignità.
“Il film di Salles si regge sulla straordinaria interpretazione di Fernanda Torres: sul suo volto bello e dignitoso si dipingono incredulità e fierezza, dolore e coraggio”.
Il film, che ha il merito di raccontare con coinvolgimento il clima di angoscia, insensatezza e profonda ingiustizia della dittatura brasiliana, e la condizione dei desaparecidos e dei loro famigliari, ha qualche lungaggine di troppo: due ore un quarto sono molte, e pesa soprattutto l’ultima parte – potrebbero esserci almeno tre finali.
Anche se basterebbe Fernanda Torres, con un’interpretazione che non potrà non essere presa in considerazione per la Coppa Volpi, a sostenere le ambizioni drammatiche del film, Salles si concede qualche patetismo di troppo: se è vero che una pistola in un film, una volta inquadrata, deve sparare, quando un adorabile cagnetto entra in scena si prevede la brutta fine che farà, abbastanza gratuita ai fini del racconto.
Ma è un film, in fondo, rispettoso dello spettatore, forse un po’ scolastico nella regia, senza guizzi di stile ma fedele alla storia che vuole raccontare – sarebbe peggio il contrario: lo stile senza coerenza narrativa.
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