Giuseppe Sansonna
Oggi Sam Peckinpah avrebbe compiuto cent’anni. Regista di anomala classicità, ha raccontato gli Stati Uniti nelle sue più violente contraddizioni, senza fare sconti a nessuno.
“Credo, e spero, che i miei film siano il riflesso della cattiva coscienza dell’America”. La frase di Sam Peckinpah è quasi una dichiarazione di poetica, la sintesi molto consapevole di un cinema mirato a disseppellire il rimosso di un paese vasto e complesso.
Oggi, stando all’anagrafe, il regista di Fresno compirebbe un secolo. Ma è difficile immaginare centenario uno che non aveva nessuna attitudine da longevo. Troppo impegnato a consumarsi, a vivere a fondo tutte le sue contraddizioni, riservandosi una media di tre ore al giorno di lucidità, strappate alla sua bulimia di cocaina, alcol e belle donne a bordo piscina. Tentando, allo stesso tempo, di resistere agli eccessi del tipico regista hollywoodiano. “Se mi lascio fregare da questa società consumista, poi finisce che non riesco più a fare i film che voglio fare. Sono un nomade, uno che vive con la valigia in mano e la mia casa è lì dove sto girando un film”. Così dichiara in un’intervista a «Playboy», nel 1972.
Regista di anomala classicità, capace di precorrere la rivoluzione linguistica della New Hollywood, Peckinpah si ritrova eternamente ai ferri corti con produttori ingolositi dalla potenzialità commerciali del suo stile innovativo, ma sempre attenti a limarne gli spigoli, essenza della sua espressività. Preoccupati dal suo sguardo non conforme, implacabile nel catturare e mettere in scena tutta la disperata vitalità dell’istinto di morte, i desideri sfiniti e l’autodistruttività speculare e collusiva del maschile e del femminile. Senza trascurare il lato nichilista della nostalgia e gli eroismi a vuoto, fuori tempo e fuori luogo, non marmorizzabili in nessun monumento alla memoria.
Argomenti che nel cinema di Peckinpah non diventano mai tesi intellettuali, composti esercizi di stile, ma restano materia viscerale, violente aperture di senso. Era come se li vivesse tutti sulla pelle, questi sintomi ambigui e paradossali della contemporaneità, questa mitologia virulenta. Così americana e così universale.
Rielaborata in un verismo amplificato, nei suoi ralenti senza enfasi retorica. Reclutando corpi e volti molto distanti dalla rettitudine ben pettinata di James Stewart e dalla marzialità granitica di John Wayne, dall’inflessibilità del loro positivismo da pionieri, da quel Dio che veglia su di loro mentre srotolano binari ferroviari, allargano frontiere, si appropriano di territori. L’orizzonte sterminato e promettente di John Ford e Howard Hawks, scrutato da Peckinpah è un crepuscolo in cui non si sogna più nulla, e non c’è più nessun Ovest da conquistare. Sono abolite anche tutte le illusioni di progresso e civiltà, e le improbabili consolazioni metafisiche. Resta, sul fondo di un nichilismo invincibile, qualche sussulto superstite di umanità, a cui abbandonarsi.
Nel western atipico con cui si impone all’attenzione del cinema mondiale, popola le sue inquadrature di corpi dolenti, faulkneriani, quasi già abitati dalla morte. Un mucchio selvaggio raccolto intorno a un William Holden ormai cinquantenne, provato da alcol e depressione. Sembra appena riemerso dalla piscina del suo Sunset Boulevard: dietro le palpebre pesanti, lo sguardo si è indurito e gli abiti sudici da cowboy ne ingaglioffiscono l’eleganza, rendendo più ispido il suo cinismo. Gli cavalca di fianco la corpulenza quasi neorealista di Ernest Borgnine, figlio di immigrati italiani, sempre oscillante tra bonomia e bestialità. A inseguirli c’è Robert Ryan, altra faccia magnifica. Combattuto tra vecchie complicità e nuove convenienze, si è venduto alla ferocia istituzionale del potere, dei padroni della ferrovia. Decisi a debellare ogni rapinatore anarcoide, disturbatore di un’ avidità capitalistica basata sull’imperativo categorico della propria continua espansione, da ottenere a qualsiasi costo.
“Oggi, stando all’anagrafe, il regista di Fresno compirebbe un secolo. Ma è difficile immaginare centenario uno che non aveva nessuna attitudine da longevo”.
Al confine tra Messico e Stati Uniti, tra carichi d’armi e criminali travestiti da generali controrivoluzionari, ci si spara addosso per il solito pugno di dollari. Ma il precipitare degli eventi e l’immanenza della morte risveglia anche nei pendagli da forca intermittenze umane, residui di senso dell’amicizia e dell’onore, tali da giustificare atti di coraggio insensati, compiuti da figure di labile moralità.
Quelli del mucchio, preso atto di non essere adeguati ai tempi che stanno cambiando vertiginosamente, preferiscono farsi fuori, consumarsi in fretta in una riedizione delle Termopili, pochi amici contro un esercito. Si muore in slow motion, inquadrati in cruente coreografie, alleggeriti da qualsiasi speranza o desiderio di passare alla storia. Peckinpah gira il suo film proprio nei giorni in cui in Vietnam l’esercito americano compie il massacro nel villaggio di Sõn Mӱ, massacrando, stuprando e mutilando oltre cinquecento morti, tra uomini, donne e bambini. Più che a spettacolarizzare la violenza, il regista sembra interessato a osservarne gli effetti, sia sull’interiorità che sui corpi dei protagonisti.
Ogni componente della messinscena emana una cupa verità, dalle azioni degli attori, alla scenografia, ai costumi. Sembra quasi di sentire l’odore del sangue e i corpi pesano, mentre cadono rovinosamente. La morte, pur amplificata ai limiti dell’insostenibilità, osservata da molteplici punti di vista, sincopata nella frenesia di un montaggio frammentato in 3643 inquadrature, viene sottoposta ad uno sguardo partecipe, privo di compiacimento. Senza mai diventare una citazione postmoderna, una messinscena sontuosa e distanziata, come accadrà invece, soprattutto a partire da Kill Bill, nel cinema di quel talentuoso giocherellone di Quentin Tarantino, fan dichiarato di bloody Sam.
Ma Peckinpah non si è nutrito, come il suo emulo, di cinefilia compulsiva: il suo immaginario nasce dal vissuto. Nel suo albero genealogico ci sono nativi americani, antenati olandesi e irlandesi. Suo padre e suo fratello sono coriacei uomini di legge, e suo nonno il proprietario di un ranch. Cresce misurandosi con una natura selvaggia e con la semianaffettività autoritaria di una famiglia protestante, ancorata a un senso di eroismo che non disdegna una certa spregiudicatezza. Arruolato nei Marines nel 1943, il giovane Sam presta servizio in Cina.
E’ un’apparente vita da arciamericano, la sua, spesa nell’America profonda, con un phisique du role da rodeo e quel viso virile da attore che regge bene anche la bandana, senza mai sfiorare il ridicolo.
Vive sulla pelle, con la stessa disillusa innocenza, l’infanzia del mito americano e il suo doloroso rovesciamento. Rimasticato nel contorto romanticismo di un cinema in cui tutto tende al western, al più originario e fondativo dei generi americani. Riletto con una consapevolezza cupa e disperata, diluendo lirismo e abissi di violenza. Ne La ballata di Cable Hogue, del 1970, Stella Stevens è una prostituta empatica e vitale, piena d’amore per Jason Robards, perfetto nei panni ruvidi di un cercatore d’oro. Abbandonato nel deserto dell’Arizona dai suoi compagni, scopre una falda acquifera. Non solo si salva ma riesce anche ad arricchirsi, creando una stazione di posta, compiendo una sorta di atto fondativo, una civilizzazione di un’area desertica. Il suo burbero anacronismo da uomo dell’Ottocento, com’era in parte lo stesso Peckinpah, lo rende però un superstite del passato, perso in un West ormai cancellato da una modernità che non riesce a capire. Oppresso dalla violenza ottusa della burocrazia, e dall’invasione delle automobili, finirà metaforicamente schiacciato da una vettura.
Anche ne L’ultimo buscadero, del 1972, protagonista Steve McQueen, alcune scavatrici distruggono brutalmente una mitologica valle fordiana, per far posto alla civiltà industriale.
Ma è in Voglio la testa di Garcìa , uscito nel 1974, che Peckinpah sfiora il fondo del suo abisso poetico. Biopsia struggente e grottesca di un tessuto umano in disfacimento, come la testa del titolo. Emilio Fernandez, fazendero messicano ultrapatriarcale, offre lauta ricompensa a chi decapiterà Garcia, l’uomo che ha messo incinta sua figlia. Warren Oates, uno dei complici attoriali più amati dal regista, è un pianista senza molta arte, in servizio in uno squallido locale messicano. Quando scopre che Garcia è già morto, e giace sotto terra, intravede la svolta della sua vita. Disseppellire l’uomo e tentare di portare la sua testa sotto ghiaccio al fazendero, si rivelerà una pessima idea.
Intorno alla reliquia umana, ormai putrefatta, si scatena un’escalation patologica di sangue e follia. In un road movie dalla meta segnata, tutto trascende in una favolaccia allucinata, eppure tragicamente terrena.
Nel 1971 Peckinpah gira Cane di paglia, forse il suo film più inquietante,
Dustin Hoffman, professore di matematica americano pieno di nevrosi, cerca quiete e isolamento per concentrarsi nella scrittura di un saggio. Decide di trasferirsi con sua moglie Susan George nel villaggio britannico in cui la donna è nata e cresciuta. Percepito immediatamente da una comunità gretta come un diverso da vilipendere, ometto a bassa carica virile, viene accolto con scherno e disprezzo. Come se fosse ritenuto un usurpatore, non meritevole di aver sottratto alla tribù una donna sensuale come sua moglie.
Susan George diventa oggetto di avances di un suo vecchio flirt, un giovinastro del paese. Vorrebbe avere a fianco un marito più protettivo, con maggiore personalità. Comincia ad avvertire una certa distanza da quel marito saccente e troppo cerebrale, frenato nelle pulsioni primarie da una colpevole viltà. Poi il suo vecchio fidanzato e dei suoi amici sembrano improvvisamente lanciare al professore un segnale d’empatia, invitandolo ad una battuta di caccia. Ma è solo uno stratagemma per allontanarlo da casa e abbandonarlo in piena campagna, per avere il tempo di entrare tranquillamente in casa sua. Qui il vecchio fidanzato vive con Susan George un momento di ambigua seduzione. Poi, quando lei ferma il gioco e oppone un rifiuto netto, tutto degenera in uno stupro di gruppo, che la donna non rivela al marito. Il personaggio di Dustin Hoffman è il rappresentante del pensiero positivo americano, di un modello sociale pieno di risvolti ipocriti. Portati a galla brutalmente dal finale del film, quando il professore accoglie in casa un minorato del paese, colpevole di omicidio involontario.
Davanti alla sua porta si raduna una folla di paesani inferociti, decisi al linciaggio. Il professore si rifiuta con decisione di consegnargli l’assassino, a cui vorrebbe garantire un equo processo, ma la folla preme. Sempre in nome dello stato di diritto, davanti all’effrazione della sua proprietà privata, l’americano timido abbandona la cultura per la natura, e tira fuori tutta la sua ferinità repressa. Mette in atto una carneficina scientifica, vivendo sulla sua pelle e su quella delle sue vittime, il paradosso della civiltà: per salvare una persona dalla legge del taglione, commette una strage.
Il destino dell’uomo sembra iscriversi fatalmente nella violenza: non esistono organismi di regolazione della convivenza che possano proteggere l’umanità dalla sua ferocia.
Cane di paglia, con il suo scenario fatto di assedi, scontri a fuoco e morti cruente, avvenute in un microcosmo asfittico, è un altro western darwiniano, nascosto sotto l’apparenza di un dramma psicologico. Una frontiera degradata in cui si lotta per il possesso del corpo di una donna, e il sesso è sempre squallido, degradato a istinto aberrante e strumento di coercizione.
Il 1973 è l’anno di Pat Garrett e Billy the Kid. epopea western, ispirata ad un fatto storico diventato leggendario. Peckinpah racconta un’altra amicizia virile, tra una figura anarcoide e un uomo più pragmatico, adatto ai tempi che stanno cambiando. Kris Kristofferson è Billy, un irregolare che scoppia di vita, un corpo epicureo inebriato da piaceri intensi. Dispendioso e felicemente incosciente, nel mantenersi estraneo alla schiacciante legge del profitto, a quella forza istituzionale a cui si è invece piegato Pat Garrett, interpretato da James Coburn.
Riciclatosi come sceriffo al soldo di grandi interessi economici, si lancia in una caccia all’uomo, sulle orme del suo vecchio amico Billy. Ucciderlo coinciderà col porre fine anche a sé stesso, ad ogni slancio esistenziale. Peckinpah ingloba nel suo orizzonte elegiaco anche Bob Dylan, autore della colonna sonora e interprete, nel film, nei panni stranianti del menestrello Alias.
Provato nel fisico e nella mente, da eccessi e delusioni, dalla metà degli anni settanta Peckinpah dirige film meno sorprendenti ma di robusto mestiere, come Killer Elite, del 1975 con James Caan e Robert Duvall, una spy story condita da arti marziali. Poi nel 1977 ambienta La croce di ferro durante la Seconda Guerra Mondiale, concentrandosi sulle vicende di un reggimento della Wehrmacht impegnato sul fronte russo. James Coburn e Maximilian Schell sono due ufficiali, accomunati dalla stessa disillusione. Nel film, a fianco a eroismo fallimentare, onore, fedeltà e amicizia, affiorano anche temi poco battuti dal genere bellico, come gli shock da conflitto e l’omosessualità. Del 1978 è il road movie dal retrogusto western Convoy, mentre nel 1983 Peckinpah gira Osterman Weekend, dedicato all’invasività del mezzo televisivo, mostrato come strumento di potere. In un thriller ossessivo, giocato sui continui cambi di prospettiva, non è mai chiaro chi controlla e chi viene monitorato. Nel suo ultimo film Peckinpah assorbe in chiave quasi parodica il linguaggio televisivo, abbondando in zoom e primissimi piani, in inquadrature anguste e senza profondità. Lasciando intuire l’esistenza di un freddo occhio orwelliano, una regia nascosta ma onnipresente. Si congeda dal cinema e dalla vita, con un profetico atto d’accusa, non troppo sottile ma di una certa efficacia, al potere sempre più invasivo della società dello spettacolo e del controllo, alla manipolazione della realtà operata dai mass media. Colpito da un ictus nel 1984, muore a 59 anni.
“A poco più di quarant’anni dalla sua morte, e ad un secolo dalla sua nascita, il suo cinema mantiene una vitalità non datata, scatenata e controversa come la sua esistenza”.
A poco più di quarant’anni dalla sua morte, e ad un secolo dalla sua nascita, il suo cinema mantiene una vitalità non datata, scatenata e controversa come la sua esistenza. Forse, come ha dichiarato più volte, ha sempre cercato di lambire, in un cinema imbevuto di violenza e sentimento, la condizione primordiale dell’infanzia, quel gioco crudele dell’esistenza sospeso tra colpa e innocenza, tra morte e vita. Del resto, come dice il capovillaggio messicano a William Holden, ne Il mucchio selvaggio:
“Tutti sogniamo di tornare bambini, anche i peggiori tra noi. Forse i peggiori lo sognano più di tutti”.
Giuseppe Sansonna
Giuseppe Sansonna è autore e regista di Rai Cultura e ha firmato diversi libri e documentari. Dal 2019 scrive recensioni cinematografiche e saggi per la rivista «Linus». Il suo ultimo libro è Hollywood sul Tevere. Storie scellerate (Minimum Fax, 2016).
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