Loredana Lipperini
08 Aprile 2025
Se un tempo valutavamo un film o una serie in funzione della sua forma, oggi l'unica cosa a cui l'utente presta attenzione pare sia il contenuto (o il tema), che genera sentimenti di identificazione tanto più violenti quanto lo è il grado di immedesimazione dello spettatore nel racconto.
Quando, nel 1971, uscì Arancia Meccanica, che Stanley Kubrick trasse dal romanzo di Anthony Burgess, noi tre amiche quattordicenni eravamo tutte dalla parte di Alex DeLarge, il protagonista adolescente stupratore, picchiatore e assassino, e non perché era interpretato da Malcom McDowell, ma perché era il narratore, raccontava in prima persona i suoi crimini e non si giustificava, e diceva anzi che “l’ultraviolenza” era per lui naturale e piacevole come l’ascolto di Beethoven e di Mozart. Prima di scoprire, nel romanzo, che Alex sarebbe cresciuto e avrebbe cercato un lavoro e desiderato una moglie e una famiglia, ci identificavamo in lui al punto di vestirci con bombetta e camicia bianca a Carnevale. Lo consideravamo vittima di un’ingiustizia, ovvero l’imposizione da parte del governo della Cura Ludovico che, cancellando dalla sua mente ogni impulso alla violenza, gli aveva sottratto anche la gioia per l’ascolto della Sinfonia n. 9 e di ogni nota celestiale mai uscita dalla mente dei compositori. Oltre alla libertà di scelta.
L’accoglienza del film e del romanzo da parte degli adulti fu molto diversa: Burgess lo scrisse nel 1962, inizialmente per raccontare un episodio spaventoso della sua vita (l’irruzione di un gruppo di soldati americani nella sua casa di Giava: la moglie fu picchiata e violentata), e poi per riflettere sull’inizio di quella che chiamò delinquenza giovanile. Erano gli anni in cui il governo inglese esigeva rapporti e rimedi sui giovani teppisti, ignorando che molti di quei teppisti sarebbero divenuti nel giro di pochi anni i protagonisti delle controculture musicali e sociali. Uno dei rimedi proposti sconvolse Burgess: si chiamava “terapia dell’avversione” e funzionava proprio come la Cura Ludovico. L’accoglienza di libro e film fu durissima, specie in Gran Bretagna: Burgess e Kubrick vennero ritenuti addirittura responsabili dei crimini giovanili che venivano commessi, e Kubrick, infine, ritirò il film dalle sale inglesi.
Come si vede, quando ci sono le giovani persone di mezzo la cultura dell’allarme funziona sempre, e basterebbe conoscere un po’ di storia del rock (ma anche del rap) per rendersene conto: basterebbe anche, per dire, sfogliare gli archivi dei giornali e ricordare, o scoprire, che quando un ragazzo commette un crimine o si uccide la colpa è sicuramente dei videogiochi e dei fumetti trovati nella sua camera. Oggi, certo, la colpa è degli abissi della rete, che pure esistono, e pure possono essere molto pericolosi e nessuno al mondo vuole giustificare gli orrori che alcuni giovani maschi commettono, e ne abbiamo avuto la prova di recente. Ma non dovremmo scambiare una serie televisiva che parla di violenza maschile per un manuale di istruzione per genitori: perché è un’altra cosa.
Ma qui non si vuole parlare di Adolescence (lo ha fatto in modo eccellente e coraggioso, viste le reazioni, Irene Graziosi), quanto del nostro rapporto con alcuni prodotti televisivi, o cinematografici, di cui giudichiamo il contenuto come se fosse reale, e non la forma artistica (o più raramente). Arrivando a scontrarci con toni che sarebbero magari più adeguati ad altre problematiche: quelle del mondo che attraversiamo in carne e ossa, e non quelle di un racconto. Torniamo a quelle quattordicenni che videro il film nel 1971 trovandosi dalla parte di Alex: va detto, se ce ne fosse bisogno, che non avevamo introiettato il patriarcato ed eravamo lontanissime dall’approvare i suoi gesti. Avevamo però ben presente la differenza tra realtà e finzione: potevamo innamorarci di Amleto, e lo eravamo un po’ tutte, o del Don Giovanni di Mozart, ma eravamo perfettamente consapevoli che una versione in carne e ossa di Alex (ma anche degli altri due) sarebbe stata la cosa peggiore che potesse capitarci, e ce ne saremmo tenute alla larga. Erano gli anni in cui le nostre sorelle maggiori discutevano di femminismo, e pochi mesi dopo l’uscita di Arancia Meccanica, l’8 marzo 1972, Campo de’ Fiori si sarebbe riempita di donne, e noi lo presentivamo, e ne gioivamo, e se qualcuno ci avesse detto che quel film era la testimonianza del nostro essere dalla parte sbagliata lo avremmo guardato senza capire. In verità, grazie a quel film, le mie amiche ed io cominciammo a risparmiare per comprare tutte le Sinfonie di Beethoven dirette da von Karajan, e inaugurammo la nostra piccola (poi sempre più grande) collezione di musica classica.
Quello che intendo dire è che fino a non molto tempo fa era normale accapigliarci sul finale di Game of Thrones, che ha gettato nella costernazione milioni di spettatori. Aveva senso, perché discutevamo, anche in modo molto acceso, su scelte narrative deludenti: ma eravamo perfettamente consapevoli che Daenerys Targaryen non esisteva, e semmai esiste il potere che distrugge chi lo desidera. In fondo le storie funzionano così: parlano di noi, certo, ma parlando d’altro. Lo scrisse lo stesso Burgess, in un libro-saggio dove ripercorre la brillante e dolorosa storia di Arancia Meccanica: “In verità, è difficile capire che cosa pensa veramente lo scrittore pieno di immaginazione, dato che egli si nasconde dietro le sue trame e i suoi personaggi. E quando sono i personaggi a iniziare a pensare, e a esprimere i loro pensieri, non necessariamente si deve credere che quelli siano i pensieri dello scrittore. Macbeth pensa una cosa e Macduff una cosa diametralmente opposta alla prima; le idee del re non sono le idee di Amleto”.
Oggi, invece, chiediamo alle storie, si tratti di romanzi o di serie o di film, la verità: non solo quella di chi scrive, ma la nostra. Se il racconto rispecchia la nostra vita o quella di chi ci è vicino, vuol dire che funziona, e difenderla, così sembra, significa difendere noi stessi. Due serie, in particolare, hanno suscitato reazioni durissime nei confronti di chi non le aveva apprezzate: oltre ad Adolescence, Baby Reindeer, altra serie Netflix partita in sordina e poi idolatrata dal pubblico. Baby Reindeer è stata scritta, ideata e interpretata dal comico scozzese Richard Gadd, ed è una storia di stalking subita dal protagonista Donny a opera di Martha, conosciuta in un bar e rapidamente trasformatasi in persecutrice, anche se nel corso della serie si scoprirà che non è la sola nella vita di Donny. La serie, però, si apre con un avviso: “Questa è una storia vera”. Forse è esagerato pensare che la prima fascinazione stia qui, anche perché ormai televisione e cinema e libri pullulano di biografie e autobiografie e insomma di “storie vere”. Però quell’affermazione ha creato non pochi danni: perché una parte del pubblico di Baby Reindeer si è messo sulle tracce della “vera” donna che avrebbe perseguitato Gadd, trovandola e insultandola, e la donna ha fatto causa a Netflix, e Gadd ha detto che in realtà la serie era una finzione, e che insomma non voleva raccontare la realtà così com’era. Come è normale che sia: ma una volta innescato un meccanismo diventa difficile fermarlo.
Anche di Adolescence, ideata e scritta da Jack Thorne e Stephen Graham, è stato detto che è tratta da un episodio reale. In realtà, Thorne ha dichiarato di essere rimasto colpito da casi di violenza reali fra giovanissimi e di averli voluti raccontare, e li ha raccontati talmente bene che a quanto pare il governo britannico vuole distribuire le quattro puntate gratuitamente in tutte le scuole. Ma Adolescence è pur sempre una serie, come Baby Reindeer, ovvero un prodotto di finzione, e un prodotto è fatto per essere venduto, e non c’è nulla di male in questo, e la finzione dovrebbe pur dirci che non esistono situazioni dove tutti gli studenti sono bulli e tutti gli insegnanti sono storditi o terrorizzati. Semplicemente perché la realtà è molto più complicata di così.
“Quando ci sono le giovani persone di mezzo la cultura dell’allarme funziona sempre, e basterebbe conoscere un po’ di storia del rock (ma anche del rap) per rendersene conto: basterebbe anche, per dire, sfogliare gli archivi dei giornali e ricordare, o scoprire, che quando un ragazzo commette un crimine o si uccide la colpa è sicuramente dei videogiochi e dei fumetti trovati nella sua camera”.
Ma la rappresentazione di una realtà così netta ci colpisce, ci spaventa, e ogni critica viene vissuta come la mancata comprensione della propria angoscia, così come per Baby Reindeer veniva evocato il proprio vissuto di vittime di stalking. Il contenuto, insomma, viene scambiato per una messa in scena delle nostre vite, e lo difendiamo per questo.
Verrebbe da dire che ci sono molti altri prodotti che ci mettono in scena in modo più complesso: anche un’altra gloriosa serie Netflix, Black Mirror, parla delle nostre paure (basti pensare a Odio universale, che dipinge la nostra realtà, ma dal momento che ci sono le api meccaniche non ce ne rendiamo conto). Cosa vogliamo da una storia, allora? Vogliamo uno specchio o vogliamo una finestra? Perché a volte ci sono autori che ci suggeriscono come funziona il nostro mondo, ma non li ascoltiamo. Sempre Burgess scrisse:
“È significativo che i libri di incubi della nostra epoca non parlino di nuovi Dracula e novelli Frankenstein, bensì di quelle che possono essere a buon motivo definite distopie – utopie ribaltate, nelle quali per esempio un immaginario governo megalitico porti la vita umana a un livello eccelso di privazione. Nel suo romanzo (stranamente dimenticato) Qui non è possibile, Sinclair Lewis presenta un’America che diventa fascista, caratterizzata da un fascismo tanto americano quanto lo è la torta di mele. Il grezzo presidente che ama dire spiritosaggini e assomiglia a Will Rogers usa le clausole della Costituzione creata dagli ottimisti jeffersoniani per dar vita a un dispotismo che, per l’indifferente maggioranza, risulta in un primo tempo niente più che ordinario e semplice buonsenso. Le botte inflitte agli intellettuali capelloni e agli anarchici accaniti piacciono sempre all’uomo medio, anche se in realtà rivelano che il pensiero liberale è soffocato (la Costituzione americana è stata opera di intellettuali capelloni) e la dissidenza politica eliminata”.
Il romanzo di Lewis è del 1935 e nel 2025 vede la sua realizzazione nel mondo vero. Se dobbiamo proprio discutere di una storia fermandoci al suo contenuto, io partirei da qui.
Loredana Lipperini
Loredana Lipperini è scrittrice, saggista, blogger, attivista culturale e docente. Il suo ultimo libro è Il Segno del Comando (Rai libri, 2024).
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