Senza lo stadio di San Siro perdono tutti - Lucy sulla cultura
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Lucia Tozzi

Senza lo stadio di San Siro perdono tutti

07 Ottobre 2025

Lo stadio di San Siro è un patrimonio della città di Milano e dei suoi abitanti. Con il suo minacciato smantellamento, a guadagnarci saranno solo i fondi di investimento, gli speculatori e i ricchi. E allora perché una lotta importante per il bene comune coinvolge così poco e così poche persone?

Lo stadio di San Siro, ribattezzato Meazza nel 1980 ma ancora popolarmente identificato (soprattutto dai tifosi del Milan) con il nome del quartiere a cui appartiene, è tuttora uno dei posti migliori al mondo in cui guardare una partita. È uno spazio grandioso, assolutamente originale, sia all’esterno sia all’interno. L’effetto ottico delle quattro torri brutaliste spiraliformi che, quando vengono percorse in salita o in discesa, sembrano ruotare; le linee rosse che svettano potenti in alto, il vuoto della parte est del terzo anello che apre una finestra su Milano e la prospettiva vertiginosa sul campo; San Siro offre lo  spettacolo del calcio in modo più intenso e vivido che altrove. In un articolo pubblicato sul «Guardian»nel 2020, Martin Dunlop si chiedeva sconvolto come all’epoca la Soprintendenza di Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Milano avesse potuto autorizzare la demolizione dello stadio negando il suo valore culturale. “Sorry, what? – titolava – “They don’t know their history”. E continuava confrontando l’innegabile omogeneità degli stadi europei con l’icona milanese. 

Quel vincolo era stato poi apposto nel 2023, ma a partire dal settantesimo anno dall’inaugurazione del secondo anello – cioè dal 2025. Da allora è cominciata una corsa contro il tempo per cercare di vendere San Siro ai fondi Redbird e Oaktree (e non, come comunemente si dice, alle squadre Milan e Inter, che sono proprietà dei fondi e non decidono nulla) prima dell’entrata in vigore del vincolo: una farsa fatta di riunioni segrete e minacce di abbandono, finte fughe delle squadre a Rozzano e San Donato – ora si hanno le prove della totale infattibilità del progetto –, irregolarità procedurali nell’iter di approvazione, capovolte politiche. Il tutto per essere sicuri di distruggerlo.

Perché tanta furia? Quali sono le ragioni che giustificano la necessità di demolire uno stadio architettonicamente di pregio, originale e funzionante, e ricostruirlo a pochi metri di distanza su un parco, invece di manutenerlo correttamente nel suo attuale stato di monumento, come accade per esempio allo stadio Philips di Eindhoven, o di investire in una ristrutturazione – come al Bernabeu di Madrid –, riutilizzando la struttura?

Il motivo principale è ovvio, i fondi proprietari delle squadre (Redbird è un fondo di private equity e Oaktree una società di gestione specializzata in titoli tossici) devono realizzare profitti altissimi da distribuire ai propri clienti, e per farlo hanno bisogno di costruire hotel, centri commerciali, uffici di lusso nell’appetitosa area di 280.000 metri quadri intorno allo stadio, che la legge stadi gli consente di sfruttare. Il ciclo distruzione-ricostruzione è indispensabile per realizzare questo progetto estrattivo. 

Per la città invece questa trasformazione è un danno assoluto. L’impatto ambientale è inaccettabile, il prezzo di vendita prossimo allo zero (dalla cifra annunciata, 197 milioni, vanno detratti 22 milioni di “compartecipazione” comunale, 80 milioni di scomputo oneri di urbanizzazione e 10 anni di mancato affitto da 10 milioni  l’anno), la cosiddetta rigenerazione urbana prospettata è interamente rivolta ai turisti e visitatori futuri e non certo alla popolazione circostante né ai tifosi, che saranno perlopiù rimpiazzati da clienti vip in cerca di experience, e la gentrificazione sarà ulteriormente implementata con i consueti effetti espulsivi. 

Eppure l’opposizione accanita al progetto è stata lasciata ai soli attivisti, che in anni di lotta, boicottaggi, referendum bocciati, ricorsi, bloquages anche di grande efficacia (altrimenti non saremmo ancora qua a parlarne), non sono fino a ora riusciti a convincere le curve o anche qualche gruppo di tifosi influenti a lottare in difesa del Meazza. E non perché milanisti e interisti siano insoddisfatti dello stadio, anzi. L’affezione è altissima, la consapevolezza delle sue qualità pure. 

Ma i tifosi e i cittadini contrari all’annientamento del Meazza sono restii a esprimersi perché vengono tacciati di essere nostalgici, romantici o peggio conservatori. Trattati come no vax, le loro ottime ragioni sono demonizzate, descritte alla stregua di vacui sentimentalismi o credenze passatiste, retaggio di un piccolo mondo antico e un po’ fanatico. Chi d’altronde vorrebbe essere considerato nemico del progresso e della modernità?

La stampa è stata costante nel circoscrivere il dibattito all’interno dell’opposizione tra innovazione e arretratezza, tra ottimismo e negatività, tra cuore e portafoglio, tra fare e immobilismo. Qualsiasi obiezione razionale di natura economica, sociale, politica o ambientale viene respinta al grido del TINA (There is No Alternative): cosa vuoi che siano 150.000 metri cubi di cemento armato da gettare in discarica e altrettanti da mettere in cantiere, di fronte al rinnovamento dello stadio e del quartiere? È stupido angosciarsi per il Climate Change perché il nuovo stadio e l’area intorno saranno pieni di nuovi alberi (su cemento) e di edifici in classe A! Perché preoccuparsi delle mancate entrate di 10 milioni annui nelle casse comunali, quando il privato investe un miliardo e crea indotto per la città? Come è noto, la ricchezza privata sgocciola poi sull’intera popolazione, no?! Perché agitare lo spettro dell’espulsione del tifo popolare dallo stadio VIP e quella dell’espulsione degli abitanti di San Siro da un quartiere consacrato al lusso? Il lusso d’altronde piace a tutti, è inclusivo.

Ma il nocciolo duro dell’argomentazione del realismo capitalista non è lo zuccherino seduttivo, ovvero quella sequenza di menzogne che ormai anche i più convinti cominciano a percepire come stucchevoli, bensì la cupa minaccia che incombe senza requie: se non acconsenti all’innovazione perdi la gara, SEI FUORI! Come nell’orrido talent The Apprentice, viviamo nel terrore di essere raggiunti da un Briatore che pronuncia la sentenza inappellabile. Nella mente rimbomba la voce del boss: “Senza un nuovo stadio Inter e Milan non possono essere competitive in Europa, guarda invece le squadre inglesi, che hanno gli stadi di proprietà!”. “Se non accontentiamo tutte le richieste degli investitori, questi non investiranno più su Milano, e arriverà la depressione”. “Se non rinunciate a ogni pretesa sociale sarete condannati alla fame”. “Se fate fermare San Siro e Milano, si ferma tutto e si resta ai margini, nei territori dell’eterna sconfitta”. 

Altro che ottimismo. È da questo oscuro impasto di paure ancestrali e veramente retrograde che prende forma il desiderio tamarro di nuovi stadi inutilmente tecnologici, di tetti retrattili e pavimenti a scomparsa, di facciate a led (ancora!) su cui fare scorrere immagini commerciali, della stessa luxury experience sempre uguale a se stessa in qualunque luogo: poltrone oversized, flûte di champagne e porcate gourmet dai nomi imbarazzanti in aereo o su una barca, nella tenda nel deserto o in uno stadio davanti a una partita di cui non si capisce niente. 

Prima di avere “il gatto nel sacco” (prima del rogito, che è ancora a rischio per via dei ricorsi) le squadre hanno annunciato che il progetto sarà a cura di Sir Norman Foster, l’archistar che rassicura tutti con il suo mix di simboli triti ed esibizione tecnologica, autore del Wembley Stadium di Londra, dello stadio Lusail in Qatar e del nuovo stadio del Manchester United. La tensione verso questi manufatti luccicanti, zeppi di brand e a loro volta brand, sempre meno riconoscibili nella loro funzione di stadio perché conformati all’uso commerciale per famiglie abbienti, è il trionfo dell’abnegazione, del sacrificio che il calcio finanziarizzato esige dai suoi adoratori: “Per il bene della tua squadra devi desiderare che essa si indebiti ogni oltre speranza di riscatto per diventare una global destination, per promuovere la sua immagine identica alle altre. E da questa immagine tu, scarrafone, devi sparire, per non insozzarla. Devi volere un nuovo spazio destinato ad attrarre altri in cui non potrai mai entrare, di cui non potrai mai godere”. Da un certo punto di vista gli schiavi nell’antico Egitto erano più fortunati, si ammazzavano a costruire le piramidi per il corpo del faraone ma nessuno chiedeva la loro empatia, erano almeno liberi di pensare che fosse un’opera oscenamente inutile, e in quanto tale dannosa. 

“Altro che ottimismo. È da questo oscuro impasto di paure ancestrali e veramente retrograde che prende forma il desiderio tamarro di nuovi stadi inutilmente tecnologici, di tetti retrattili e pavimenti a scomparsa, di facciate a led (ancora!) su cui fare scorrere immagini commerciali”.

È ora che negli stadi tutti, e in particolare a San Siro, si riesca a manifestare un rifiuto netto di questa logica. Anche perché proprio il capo dei capi del Milan, l’ineffabile Gerry Cardinale, ha espresso a chiare lettere la verità sui suoi piani per la squadra: “vincere è noioso”. Tutti i sacrifici imposti alla popolazione nella doppia veste di tifosi e di abitanti per assicurare i massimi profitti ai proprietari delle squadre ed eventualmente del futuro stadio non produrranno una sequenza di vittorie del Milan, o dell’Inter, perché ai fondi, semplicemente, non conviene. Per il loro asset preferiscono una posizione stabile nei piani alti della classifica, è molto più redditizia.

Sarei entusiasta di vedere le folle di questi giorni ribellarsi insieme ai tifosi, pretendere di giocare a un altro gioco, con altri desideri, altri obiettivi e un finale diverso per il calcio, per la città e per la società in generale. 

Lucia Tozzi

Lucia Tozzi è studiosa di politiche urbane e giornalista freelance. Il suo ultimo libro è L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023).

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