Caterina Orsenigo
L'insofferenza verso le questioni climatiche ha caratterizzato lo scontro politico alla vigilia delle elezioni europee. E se allora smettessimo di parlare di clima? Ci troveremmo finalmente a discutere di inflazione, di povertà, di lavoro, di disuguaglianze. Il che significherebbe lo stesso parlare di sostenibilità, di natura e di ambiente. Perché ogni cosa oggi è clima. E ogni lotta è una lotta per il clima.
E se le persone si fossero stufate di sentir parlare di clima? Il dubbio, sebbene la situazione ambientale sia seria, sembra farsi ragionevole certezza a guardare quello che accade in Europa, dove le destre hanno aizzato le frustrazioni sociali di una parte dell’elettorato convogliandole contro il capro espiatorio dell’ecologia. E lo hanno fatto con successo, muovendo le piazze e opponendosi a ogni legge che parli di natura, mettendo così a più riprese in crisi il Green Deal, il piano europeo – o meglio l’enorme pacchetto di leggi e investimenti – per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
È successo con la Nature Restoration Law (NRL), la normativa che puntava a ripristinare gli habitat naturali, a riparare ai danni subiti dalla fauna selvatica e a curare gli ecosistemi consumati e compromessi dall’attività umana (oggi, circa l’81% del suolo europeo risulta seriamente impoverito delle qualità chimiche, fisiche e biologiche che favoriscono la vita e che lo rendono fertile). Dopo essere stata rimaneggiata, a fine febbraio la NRL aveva superato la prova del Parlamento, ma poi otto paesi, tra cui l’Italia, si sono messi di traverso, lamentando l’impatto che la normativa avrebbe avuto sul settore agricolo (il 10% della superficie agricola totale sarebbe dovuta essere ripensata per sostenere la biodiversità degli agro-ecosistemi).
È successo con la cosiddetta direttiva “Case Green”, pensata per rendere il parco immobiliare dell’Unione a emissioni zero, mettendo in salvo l’efficientamento energetico degli immobili. Anche in questo caso l’Italia aveva votato contro, assieme all’Ungheria, adducendo ragioni economiche per ostacolare l’approvazione della direttiva. Per fortuna i loro sforzi non sono bastati e la legge è passata.
È successo anche a gennaio, quando è scoppiata la rivolta dei trattori con proteste in tutta Europa: il malcontento di allevatori e agricoltori è stato presentato come un’esasperata risposta alle vessatorie politiche ecologiche dell’Europa. A ben vedere, però, dietro al malcontento degli agricoltori non c’erano davvero le politiche climatiche ma i prezzi troppo bassi del cibo: ai produttori oggi arriva in tasca pochissimo rispetto a quello che spendono per produrre.
Il paradosso è che questa insostenibilità non dipende, come si vuol far credere, dal Green Deal (ovvero dalle richieste di usare meno fertilizzanti o di lasciar riposare parte dei terreni), ma affonda le sue radici nelle storture di un intero sistema. Lo stesso sistema che gli ambientalisti vogliono mettere in discussione: l’industria dei prodotti super lavorati, gli allevamenti intensivi, le iniquità della grande distribuzione, la lunghissima filiera che separa il produttore dal consumatore. Il punto è che serve che tutto cambi, non che tutto rimanga com’è. Senza ripensare l’industria agroalimentare nel suo complesso un’inversione di rotta è impossibile.
Eppure la narrazione delle destre, in questo contesto, funziona. È miope, e non pensa al futuro, ma nell’immediato attrae le classi più vulnerabili, e fa presa sulle paure – giustificate, in assenza di adeguate politiche sociali – dell’inflazione sui prodotti alimentari o dei rincari dovuti alla transizione energetica.
A qualche giorno dal voto delle elezioni europee, sembra difficile immaginare uno schiacciante trionfo delle forze antieuropeiste, ma pare scontato che il Parlamento andrà verso destra. E uno dei cavalli di battaglia di questa campagna elettorale, a destra, è stato proprio la critica alle politiche climatiche, raccontate come oppressive e imposte dell’alto.
D’altra parte, non è una novità: tra chi scrive di crisi climatica, quello dell’efficacia della comunicazione di questi temi è da sempre una questione aperta. Si sa, non è facile catturare l’attenzione del pubblico con messaggi stratificati come quelli climatici, complessi nelle cause e nelle possibili soluzioni. Il clima annoia o spaventa, è difficile raccontarlo anche quando lo si racconta bene. E poi più andiamo avanti più le alluvioni si assomigliano tutte, le siccità anche, e i giornalisti ambientali sono ormai visti come figure iettatorie, pessimisti irriducibili, uccelli del malaugurio, Cassandre che prospettano un futuro atroce e un presente difficile. L’idea di un futuro incandescente fa sentire impotenti. E tra i lettori c’è chi si sente giudicato o addirittura attaccato nel proprio stile di vita, nei consumi e nelle abitudini, e così decide di chiudersi.
Forse allora dovremmo smettere di parlare di clima. Abbandonare i discorsi sugli scenari del riscaldamento globale. Finirla col provare a convincere le persone che questo è un tema importante, urgente, che riguarda tutti. Cosa succederebbe, tutto sommato, se lo facessimo? Succederebbe che, togliendo lo stigma dell’ecologia, potremmo parlare di inflazione, di povertà, di lavoro, di disuguaglianze. Di economia e salute pubblica. Il che vuol dire, di nuovo, parlare di clima: perché il clima c’entra con tutto, con l’alimentazione, le migrazioni, il colonialismo, le discriminazioni di genere, le guerre. Ogni cosa oggi è clima. E ogni lotta – contro una galleria che perfora una montagna inutilmente, contro un ponte irrealizzabile, contro l’eccessivo traffico aereo, contro la vendita di armi, o per contratti di lavori più giusti, per condizioni di lavoro più umane e più sane – ogni lotta è una lotta per il clima.
Pensiamo al tema dell’approvvigionamento energetico: l’energia pulita costa meno, ha meno fluttuazioni di valore e il suo utilizzo avrebbe come conseguenza bollette meno gravose. La vita sarebbe più facile per le famiglie, ma anche per il settore industriale e quello agricolo. Da decenni la politica internazionale si orienta invece attorno al petrolio e in nome di esso si combattono petrolguerre e si scambiano, in enormi quantità, petroldollari. Se investissimo nell’energia eolica e solare e nelle pompe di calore, la dipendenza energetica di alcuni stati nei confronti di altri sarebbe meno forte. Certo, anche per costruire pannelli solari servono materie prime, che vanno estratte e che creerebbero nuovi attriti geopolitici, forse non solo commerciali. Ma pure se questa eventualità dovesse verificarsi, le cose migliorerebbero: ogni dipendenza è pericolosa e destabilizzante ma quella dal petrolio lo è in modo particolare. Il cambiamento sarebbe, in teoria, anche fattibile: gli ioni di sodio, con cui presto si possono costruire le batterie di accumulo e presto quelle per le automobili, si ottengono da piccole quantità di sale marino, che non è inquinante ed è più facilmente reperibile perché il mare è dappertutto. Troppo bello per essere vero: proprio per questo, è facile immaginare che la sua diffusione potrebbe essere osteggiata.
“E se le persone si fossero stufate di sentir parlare di clima? Il dubbio, sebbene la situazione ambientale sia seria, sembra farsi ragionevole certezza a guardare quello che accade in Europa”.
Pensiamo quindi al tema delle auto elettriche, inquinato dalle lobby del fossile. Si è riusciti a far passare l’auto elettrica – oggi inevitabilmente ancora troppo cara – come il mezzo d’elezione per l’élite, un capriccio per ricchi. Ma non si tiene conto che l’acquisto di un auto a benzina, che sia una Panda o una BMW, sostiene una delle industrie più centralizzate, chiuse e redditizie al mondo. Chi paga la benzina, paga una filiera che fa otto miliardi di fatturato al giorno. L’auto elettrica utilizza invece l’energia prodotta dalla comunità; fare il pieno, ovvero ricaricarla, costa pochissmo e presto – si spera – arriveranno anche le utilitarie. Se saranno a sodio, i benefici saranno incalcolabili, tra minore impatto ambientale e minor sfruttamento delle materie e delle tecnologie fossili. Se è vero che la transizione all’elettrico ha un costo che è ancora troppo alto per buona parte dei cittadini europei, bisogna lavorare affinché il cambiamento sia più sostenibile e democratico, e non per continuare, indisturbati, con la benzina.
Se smettessimo di parlare di clima, potremmo parlare anche di sicurezza stradale, mobilità condivisa, piste ciclabili, città più verdi. Se producessimo meno auto, servirebbe meno litio, meno acciaio, meno plastica. Meno auto significherebbe meno parcheggi e quindi più alberi e più ombra. E sarebbe utile avere meno asfalto per affrontare al meglio alluvioni e ondate di calore. Ovviamente, ci sarebbe un’altra conseguenza: meno smog, più salute.
Se smettessimo di parlare di clima, potremmo parlare di alimentazione. Gli allevamenti intensivi sono molto inquinanti e la carne che mangiamo è piena di antibiotici e ormoni che ci rendono più vulnerabili alle malattie. Gli allevamenti intensivi ci porterebbero poi ad affrontare il tema della sicurezza alimentare: 125 milioni di ettari di terra oggi in Europa sono destinati a nutrire 500 milioni di polli. Si parla del 70% dei terreni agricoli totali.
Sono tutti punti che si possono collegare, senza mai parlare di clima e invece parlandone sempre. L’ultimo nodo è il lavoro, tra migranti sottopagati e privi dei più basilari diritti, e lotte emblematiche, come quella della GKN di Campi Bisenzio, dell’Ilva di Taranto, di Gela. Salute e diritti del lavoro non hanno bisogno della parola ecologia, la contengono già: l’ambientalismo militante nasce proprio sulle inchieste del movimento operaio degli anni Settanta che smascherarono la colpevolezza e la malafede delle grandi aziende ai tempi dell’amianto e di altri materiali mortalmente insalubri.
Oggi proprio la storia della ex-GKN è forse quella dalla carica simbolica più dirompente: il progetto, continuamente affinato negli ultimi anni e proposto l’8 maggio dal collettivo di fabbrica, è estremamente concreto e ampio, che vada in porto oppure no: ripensare un posto che produceva semiassi per auto, trasformandolo in una fabbrica nuova che – per scelta non di un amministratore delegato ma del collettivo di operai che lì lavora – produce pannelli solari da costruire con materie prime che non provengano dal Sud globale. È prima di tutto un’enorme azione sociale di profondo miglioramento della vita dei lavoratori stessi, che scelgono cosa e come produrre, gestiscono direttamente il proprio lavoro e le proprie vite. E poi è un pezzo fondamentale di transizione ecologica. Il loro slogan dice proprio questo: “Per questo, per altro, per tutto”.
“Se smettessimo di parlare di clima, potremmo parlare anche di sicurezza stradale, mobilità condivisa, piste ciclabili, città più verdi”
Se smettessimo di parlare di clima, insomma, parleremmo ancora di tutto, perché il clima mette in luce le disuguaglianze, le ferite, le falle e le brutture del sistema in cui viviamo. Tanto che il corrispettivo statunitense del Green Deal si chiama Inflation Reduction Act, è un piano pensato (e raccontato) per combattere inflazione, impoverimento e disuguaglianze. Punta a ridurre del 50% le emissioni del Paese entro il 2030 ma la parola clima nel titolo non appare nemmeno.
La parola clima è diventata insopportabile perché sembra preannunciare inevitabilmente pretese di austerità, rinunce, aumento dei prezzi. Rimanda a una transizione per ricchi, che esiste, non nascondiamolo, ed è inutile: è quella della Green Economy, che da trent’anni cerca di arricchirsi finanziarizzando la natura. Questo modo di affrontare la crisi climatica ha fatto sì che dal primo trattato internazionale in materia ambientale (il Protocollo di Kyoto del 1997) ad oggi si sia emessa più CO2 che nei precedenti 250 anni. Bisogna invece tornare a parlare di clima come porta di ingresso per una società alternativa, meno ingiusta, più sana e orizzontale. Dissodare e rivoluzionare il sistema economico, di priorità e valori in cui siamo immersi: è questa la vera lotta per il clima.
La soluzione però non può essere smettere di chiamare il problema con il suo nome. Oggi parlare di clima è urgente e per farlo servono forse politici più capaci. Di certo, è necessario, a tutti i livelli, comunicare meglio: vale anche per noi. Ricordandoci che la lotta per il clima è soprattutto una lotta per stare meglio, tutti.
Caterina Orsenigo
Caterina Orsenigo è editor e giornalista. Scrive di letteratura, crisi climatica, mitologia per diversi giornali e riviste. Il suo ultimo libro è Con tutti i mezzi necessari (Prospero editore, 2022).
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