Sotto cassa: storia dei rave in Italia - Lucy
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Vanni Santoni

Sotto cassa: storia dei rave in Italia

21 Settembre 2023

L'arrivo dei free party in Italia ha cancellato le gerarchie, aumentato i bpm e ridefinito ciò che chiamiamo festa. A distanza di anni da quei primi rave, cosa rimane?

Raccontare la cultura rave italiana, o la cultura rave in generale, non è un’operazione semplice – e non tanto per la vastità del fenomeno, per le molte forme che ha preso a seconda del luogo, del momento storico e delle energie locali già presenti al momento dell’avvento dei soundsystem, quanto per la sua natura rizomatica: a differenza di altri fenomeni sottoculturali e controculturali giovanili, la free tekno nasce integralmente dal basso, senza autorità simboliche precise a dettare una linea, e si sviluppa in senso pan-europeo per nodi non centralizzati; inoltre, il suo significato profondo non si lega a questo o quell’evento, a questa o quella tribe (gruppo di organizzatori legato a un soundsystem, NdR), a questa o quella traccia musicale, per quanto ci siano state feste più memorabili di altre, tribe più longeve di altre, tracce più emblematiche di altre.

Certo, esiste un momento e un luogo in cui convenzionalmente viene fissata la nascita del free party come lo si intende oggi, e quel momento è l’arrivo di alcuni soundsystem inglesi – Spiral Tribe, DiY, Cirkus Normal, Circus Warp, Adrenaline e Bedlam – presso il Castlemorton Common Festival, nel 1992. La nascente cultura dei soundsystem techno, che aveva mutuato la musica dai club e la pratica del muro di casse come strumento di riappropriazione degli spazi dal reggae, incontrò la psichedelia e il nomadismo degli hippie (il Castlemorton Common Festival era infatti uno storico raduno figlio della controcultura anni Sessanta), il risultato fu esplosivo, e il resto è storia.

Anche storia giudiziaria, visto che gli Spiral Tribe furono criminalizzati dai tabloid e dalla politica, furono oggetto del processo più lungo e costoso della storia del Regno Unito, e per quanto poi assolti decisero di emigrare (nel frattempo era stata fatta anche una legge ad hoc per contrastare le feste libere, il Public Order & Justice Act), portando per l’Europa il nuovo verbo e disseminandolo in particolare in Francia, in Italia e in Repubblica Ceca, dove nacquero nuove tribe che a loro volta avrebbero organizzato feste clamorose in industrie abbandonate, vecchie basi militari e zone brulle, e generato ulteriori emuli, continuando così a far crescere il rizoma e scrivendo una storia unica anzitutto per lunghezza, giacché non si era mai vista una controcultura che durasse non qualche anno, ma tre decenni e passa. 

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Per quanto il festival di Castlemorton sia ricordato come una data cruciale, si tratta comunque di una convenzione: Spiral Tribe e compagnia avevano già organizzato free party a Londra e fuori, e quando cominciò la diaspora degli inglesi, e la conseguente contaminazione del continente coi germi della free tekno, esistevano già diverse situazioni, anche in Italia, che potevano senz’altro essere definite proto-rave. Facciamo allora un punto sulla terminologia: per indicare la festa e la cultura di riferimento si useranno preferibilmente le espressioni “free party” e “free tekno”, perché nei decenni il termine “rave” ha finito per contenere un po’ di tutto, svuotandosi conseguentemente di senso. Peraltro, si tratta di una parola che è nata strumentalizzata, dato che trova la sua origine in un pezzo del «Daily Mail» del 1961, dove si parlava dei chiassosi partecipanti a un festival… jazz. Lo si faceva in questi termini: “Una parola nuova e sgradevole è entrata a far parte del vocabolario inglese: raver”.

La chiave era dunque già dispregiativa. Meglio, allora, usare i termini nati in seno a questa controcultura, anche perché quel “free” è il nodo della questione: free in quanto gratuito, e free in quanto libero. Libera la partecipazione, libero l’apporto che ciascuno sceglie di dare alla festa, libera la durata, che può andare avanti finché c’è gente e le tribe lo ritengono opportuno, libera la musica da condizionamenti frutto di etichette o promoter. Libera la festa, infine, dalle consuete gerarchie a cui ci avevano abituato gli spettacoli di ogni tipo: la distanza tra performer e pubblico, normalmente ribadita dalla presenza di un biglietto e dalla posizione preminente dell’artista, viene fatta saltare, con eventi gratuiti in cui l’interfaccia è il solo muro di casse, e il dj neanche si vede: You are the party, uno dei tanti motti coniati dagli Spiral Tribe, non era solo un generico appello alla responsabilità individuale all’interno di un evento di stampo anarchico, ma anche l’ufficializzazione della sopravvenuta orizzontalità di relazioni all’interno dei nodi del rizoma. 

Cosa accadde quando questa cosa nuova arrivò in Italia? Di certo pareva fossero atterrati gli alieni, anche a chi aveva esperienza di sottoculture underground. Chi scrive, come tanti raver più attempati, ricorda bene le prime feste in quel dell’Osmannoro, zona industriale di Firenze, che per quanto non sia mai stata chissà che fulcro della free tekno nostrana (le città di riferimento erano Bologna, Roma, Torino e Milano, per quanto poi gli eventi davvero grandi apparissero nei luoghi più improbabili, e anche quando avvenivano nello spazio urbano, lo facevano nell’estrema periferia) fu uno dei primi approdi delle tribe, con puntate degli stessi Spiral Tribe, di altre sigle inglesi storiche come i Desert Storm, e di tribe francesi della primissima ora, come Ubik, Metek, Tomahawk o OQP, già a metà anni Novanta.

“‘Free’ è il nodo della questione: free in quanto gratuito, e free in quanto libero. Libera la partecipazione, libero l’apporto che ciascuno sceglie di dare alla festa, libera la durata, che può andare avanti finché c’è gente”.

Ma per quanto il suono fosse nuovo, la modalità espressiva fosse nuova, le regole aggregative fossero nuove, e fosse nuova pure quell’estetica crusty e do it yourself che sapeva di punk, non si poteva dire che il concetto raggiungesse un’Italia completamente vergine. C’erano già, ad esempio, gli afterhour, feste techno “progressive” – una per tutte, il The West a Venturina – che cominciavano al mattino, in genere dopo serate in club che si erano già differenziati per musica e pubblico dalle classiche discoteche, e duravano giorni; c’erano stati qua e là episodici house party e acid party sul modello inglese di fine anni Ottanta; i campeggi di eventi musicali liberi non di rado tendevano a trasformarsi in “zone temporaneamente autonome”, con tanto di occasionali montaggi di soundsystem; e alcune città, in particolare Roma, avevano già sviluppato un loro approccio al ballo continuativo, con eventi ragguardevoli come Virus o Hard Raptus. C’erano stati anche alcuni centri sociali che avevano intuito il potenziale aggregativo e sovversivo della techno e avevano organizzato eventi che andavano in quella direzione, non di rado nell’ostilità di altri spazi o spezzoni di movimento, che secondo una vecchia pregiudiziale legavano ancora la techno alla discoteca, e dunque a un approccio al divertimento consumistico, sessista e in fondo reazionario. 

Tra la metà degli anni Novanta e l’inizio degli anni Zero, la cultura free tekno prosperava in Italia nella generale ignoranza dei media: il primo teknival (festa “unitaria” con molti soundsystem, NdR) italiano si registra sui colli tra Emilia e Toscana già nel 1995, ma ancora quello del 1999, sul lago di Bolsena, passò per lo più inosservato. L’attenzione dei media e del pubblico comincia ad arrivare, ancora piuttosto incerta rispetto a ciò che sta osservando, col nuovo millennio. C’è il teknival all’ex Base Nato di Bassano del Grappa nel 2001, quello sul Colle della Maddalena nel 2002, un capodanno 2002 ad Aprilia che finisce per durare una decina di giorni… Insomma, le feste grosse diventano più grosse, e quelle piccole, tutto attorno, si moltiplicano. Difficile, in quegli anni, non sentirne almeno parlare, o non vedere, nella notte, gruppetti di ragazzi spesso dotati di cani che camminano alla volta dei luoghi più liminali dello spazio urbano. 

Tra il 2004 (teknival in Pratomagno) e il 2006 (teknival nel pavese) è facile, per chi sa cercare, trovare un grosso free party ogni settimana, in Italia; a volte anche più di uno. Sia chiaro, peraltro, che in questa sede si usano i teknival come punteggiatura annuale, e quindi convenzionale, in un discorso molto più complesso, che vedeva in scena, oltre ai teknival, grandi feste con radici anche diverse, come le 72ore, le Street Parade bolognesi, i Tequinox, i (molto variegati) Witchtek e Pasquatek, e tanti altri free party di grosse dimensioni, frutto della collaborazione di varie tribe, privi magari di un nome che li renda riconoscibili oggi, ma ricordati spesso con commozione da chi li ha vissuti. 

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Nonostante l’Italia viva ormai in quegli anni un’esplosione della free tekno (e così la Francia, dove ha ben pochi effetti la legge Mariani del 2001, secondo pezzo di legislazione anti-rave al mondo dopo il Public Order & Justice Act inglese del 1994, anzi terzo se si considera il “regolamento per le orchestre” del Terzo Reich, dove si vietavano i “ritmi sincopati e isterici della musica delle razze barbare”), l’attenzione della stampa è ancora ondivaga: è passato un decennio ma il fenomeno resta per i più difficile da leggere. La repressione, pure, non è ancora sistematica: a volte avviene, più spesso no, di nuovo per difficoltà a capire e interpretare cosa stia succedendo. Pare quasi ci sia più stanchezza all’interno del movimento, tant’è che si arriva all’estate del 2007, e a quel teknival di Pinerolo destinato poi a entrare nella storia come il più grande mai svoltosi in Italia per numero di “muri” – 36 – e presenze – 30.000 –, con l’idea che lo spirito originale si sia perso un po’ per strada. Non tutti ricordano che discorsi analoghi si leggevano nelle mailing list già dopo il teknival di Bolsena: di fatto, la free tekno, come spesso accade con le controculture, ha sempre convissuto con l’idea che “fosse meglio prima”, come se occorresse l’idea di una precedente epoca d’oro a far le funzioni di mito di fondazione. 

Il teknival di Pinerolo fu un evento trionfale, ma anche così grande e così vicino ai centri abitati, da attirare curiosi, giornalisti pronti a usare, per scarsa o nulla conoscenza dell’argomento, parole come “orda”, “sballo”, “incubo”, e poco gradite attenzioni da parte della politica, che vedeva in questi giovani che osavano ritrovarsi per ballare gratuitamente per giorni, un facile bersaglio. I free party cominciarono così a essere problematizzati, e con ciò sarebbero cominciati anche i problemi. Fu lì che iniziò a sorgere anche la necessità di raccontarli da dentro: prima, non si faceva, perché ciò che era underground riusciva a restare underground; da Pinerolo in poi, sarebbero arrivate narrazioni sensazionalistiche e strumentali fatte dall’esterno, a cui in diversi pensarono fosse giunta l’ora di rispondere “da dentro”. 

“Nonostante l’Italia viva ormai in quegli anni un’esplosione della free tekno, l’attenzione della stampa è ancora ondivaga: è passato un decennio ma il fenomeno resta per i più difficile da leggere”.

Gli anni immediatamente successivi furono ancora ricchissimi di grandi free party, ma il movimento iniziò ad accusare una maggior repressione, frutto della sopravvenuta attenzione di stampa e politica, e problematiche interne, come l’arrivo di sostanze diverse (e più problematiche) rispetto agli psichedelici e agli entactogeni che ne avevano innervato il primo periodo, una certa autoreferenzialità, e un calo della sperimentazione musicale. Dal 2011 in poi cominciò un vero e proprio riflusso che fece pensare a diversi della vecchia guardia che la festa fosse davvero finita. Quando nel 2015 uscì il romanzo-saggio Muro di casse, firmato da chi scrive, seguito a stretto giro, nello stesso anno dal saggio Rave new world di Tobia d’Onofrio, dal romanzo Tekno Free Doom di Syd B. e successivamente da Once were ravers di Pablito el Drito, la sensazione era quella di una storificazione resa necessaria dal fatto che la cultura free tekno cominciava a collocarsi nel passato. 

Non era così. Sia pur faticosamente, un ricambio generazionale c’era stato, e tra il 2013 e il 2015 ricominciano a vedersi feste significative, specie in Piemonte e in centro Italia (in particolare il Borderless Sound Xplosion, una festa del 2015 alla diga di San Piero in Campo, in Val d’Orcia, portò molti a rievocare le migliori feste storiche, sia per la grandezza di scala che per lo spirito che vi si respirava – anche nella scelta di occupare un ecomostro come quella diga abbandonata, ritrovando così uno spirito implicito di denuncia), e nel 2016, col Labirinz Decade, accade quello che per molti “anziani” era ormai impensabile: un vero teknival con tutti i crismi, di nuovo, in Italia. 

Il movimento riprende fiato, ritrova le forze con l’avvento di diverse sigle nuove (e l’esaltazione di tanti raver neofiti galvanizzati da quei festoni) e nuovi collegamenti con Francia e Repubblica Ceca; anche molte tribe storiche ne escono galvanizzate e si fanno avanti con ulteriori party, in una stagione nuovamente vitale che dal 2016 ci conduce fino all’estate del 2021, con il teknival Space Travel vol.2 (il vol.1 si era svolto, su scala minore ma non piccola, nel 2018), ovvero il “rave di Valentano” divenuto famigerato per la campagna di fake news che lo ha accompagnato. 

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La vicenda è nota: durante i giorni del teknival, un apneista dilettante, che non era stato alla festa, annegò in un lago distante una mezz’ora dalla location. La stampa locale non si fece troppi problemi ad “assegnare” il morto al teknival, e quella nazionale riprese la notizia senza fare fact checking, cosa che diede il via a uno tsunami di false notizie sempre più inverosimili – un secondo morto, degli stupri, un parto nella polvere, dei cani inspiegabilmente uccisi –, tutte rapidamente smentite, ma che furono lo stesso efficaci nel nazionalizzare la polemica, specie da parte di chi aveva interesse a mettere in difficoltà l’allora ministra degli Interni (che peraltro non avrebbe potuto fare alcunché, dato che un teknival è come una città che appare nella notte, in un luogo imprevisto, e una volta partito diventa impossibile da sgomberare senza rischiare gravi incidenti). 

Segue quella che è cronaca relativamente recente: si arriva al Witchtek 2022, free party medio-grande nei pressi di Modena che, per quanto svoltosi senza incidenti (e pure senza fake news), diventa il pretesto per una “legge anti-rave” usata a mo’ di manifesto politico-mediatico: la famosa (e forse anticostituzionale, in quanto in apparente contraddizione con l’art.17 della Costituzione) 633-bis, che commina pene superiori a quelle previste per gravi reati contro la persona e il patrimonio a chi si azzardi a organizzare feste gratuite a base di musica elettronica. Sarebbero seguite proteste, con la nascita della rete di contestazione “Smash Repression” e grandi manifestazioni in forma di street parade con carri e tekno a gran volume in tutte le maggiori città italiane, ma la legge era destinata a entrare in vigore, nonostante il parere contrario di molti giuristi, e così è stato.

Cosa succederà, poi? La storia c’insegna che le leggi repressive non hanno mai fermato i free party: magari li hanno resi più sotterranei, piccoli e meno visibili, oppure li hanno spinti temporaneamente fuori dal paese oggetto di repressione, come è accaduto con gli Spiral Tribe nel 1994 o con diverse tribe francesi dopo il 2001, contribuendo però così a innervare altre nazioni, a diffondere il rizoma e a innescare nuove mutazioni nella sua natura, perché in fondo, una controcultura non si esaurisce mai perché schiacciata, ma solo quando ha terminato le proprie energie interiori e la propria capacità di ricambio umano: per ora, la storia non parrebbe finita.

Questo articolo è stato realizzato con la collaborazione di Vision Distribution in occasione dell’uscita del primo lungometraggio del regista Simone Bozzelli, Patagonia.

Vanni Santoni

Vanni Santoni è uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Dilaga Ovunque (Laterza, 2023).

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