Elena Stancanelli
Una conversazione con Simone Lenzi sulla polemica che lo ha investito dopo la pubblicazione di alcuni tweet controversi, costringendolo alle dimissioni da assessore alla Cultura di Livorno.
Proviamo a ragionare su quello che è accaduto a Simone Lenzi – scrittore, sceneggiatore, intellettuale, frontman dei Virginiana Miller e per cinque anni apprezzato assessore alla cultura del Comune di Livorno, costretto a dimettersi per alcuni tweet giudicati offensivi. Proviamo a farlo per capire se si tratta di un episodio isolato, determinato da alcune circostanze speciali, o se invece è emblematico, ci riguarda profondamente, e contiene alcune delle questioni più importanti sul piano ideologico che la sinistra dovrà affrontare nei prossimi anni.
Prima fra tutte, l’enorme sproporzione tra colpa e castigo. Non uso queste due parole a caso. Sono convinta infatti che la prima cosa che dovremmo fare è tornare a un clima laico e liberale, uscendo da questa ipocrisia clericale, abbandonare l’atteggiamento che ci rende simili a quei preti nel convitto che puniscono i fanciulli sorpresi in comportamenti ritenuti immorali. Una persona scrive qualcosa su un social, qualcosa di non condivisibile che però non mette a repentaglio la vita di nessuno, e per questo viene allontanata dal suo lavoro, cioè subisce un danno enorme, economico e sociale. È sensato?
E ancora: quanto è conveniente valutare le persone dai tweet piuttosto che da quello che fanno? Il generale Vannacci è omofobo, voterà sempre contro i diritti della comunità LGBTQ+. È la sua posizione politica. L’assessore Simone Lenzi non è omofobo, lo dimostra la sua carriera politica e l’appoggio al movimento LGBTQ+. Cioè ha già agito come riteniamo sia giusto agire, mentre scherzava su X con tweet che qualcuno ha ritenuto omofobi e transfobici. Quale delle due persone sta mettendo in discussione e ostacolando i diritti della comunità LGBTQ+, l’europarlamentare Roberto Vannacci o Simone Lenzi?
Voglio dire: se dovessimo farci cavare un dente e ci dicessero che il dentista bravo è stato cacciato perché sui suoi social inveiva contro, boh, i termovalorizzatori, ma ne è rimasto uno scarso le cui opinioni sullo smaltimento dei rifiuti non sono mai state espresse, come reagiremmo? Con quale animo affronteremmo l’anestesia? Non è che passando al setaccio qualsiasi parola venga pronunciata finiremo per allontanare tutti quelli bravi e ci dovremo accontentare degli scarsi? Non sarà che in questo modo scoraggiamo qualsiasi intellettuale a impegnarsi non solo in politica ma nel dibattito pubblico?
“Sono convinta infatti che la prima cosa che dovremmo fare è tornare a un clima laico e liberale, uscendo da questa ipocrisia clericale, abbandonare l’atteggiamento che ci rende simili a quei preti nel convitto che puniscono i fanciulli sorpresi in comportamenti ritenuti immorali”.
E per ultimo: siamo davvero sicuri che i buoni siano quelli che si dichiarano buoni e non quelli che sono buoni davvero? Narcisismo etico, l’ha definito Simone Lenzi, la smania di sentirsi sempre dalla parte del bene. Anche se si tratta, come vedremo, non di preti ma di uomini e donne progressisti, un sindaco del PD e alcuni movimenti LGBTQ+. Narcisismo, ma anche infantilismo, adulti trattati come bambini, adulti che giudicano col metro della suscettibilità, del personale sentirsi offesi.
Ho deciso di intervistare Simone Lenzi perché il paradosso mi è sembrato ancora più eclatante dal momento che so bene – e non solo io, visto che le sue posizioni politiche sono state espresse con chiarezza in cinque anni di lavoro come assessore alla cultura del Comune di Livorno, posizioni che il sindaco ribadisce mentre con l’altra mano lo congeda in una partita che rischia di essere molto pericolosa – che Lenzi non solo non è né omofobo né transfobico, ma si batte da sempre per difendere la libertà di tutti.
Chiamo Lenzi e gli chiedo di spiegarmi prima di tutto cosa è successo.
SL: Non è successo niente. Questo è il punto. Non ci sono fatti da giudicare. L’unico fatto sono le mie dimissioni. Tutto è partito da un tweet, durissimo effettivamente, che ho scritto di getto dopo che avevo visto una vignetta di Natangelo sul 7 ottobre, pubblicata sul «Fatto Quotidiano». Ma soprattutto dopo che avevo visto come l’avevano pubblicizzata, con Cappuccetto Rosso e la scritta “la favola del 7 ottobre”, una cosa che mi aveva urtato tantissimo, perché che 1200 morti fossero considerati una favola mi sembrava, e mi sembra, spaventoso. E poi perché ho un’antipatia profonda per quel giornale, perché è un giornale tutto fondato sulla schadenfreude (la gioia per le disgrazie altrui), sempre con la bava alla bocca ogni volta che arriva un avviso di garanzia, ogni volta che mettono in galera qualcuno. Mentre io sono uno a cui dispiace quando mettono in galera qualcuno, per qualunque motivo ce lo mettano, qualunque sia la sua appartenenza politica. Indubbiamente ho scritto un tweet sopra le righe, anche se devo dire di una certa eleganza formale, con un bel climax ascendente, dal punto di vista formale lo rivendico.
ES: Come è partita questa storia, dal momento che alcuni dei tweet incriminati risalgono a un po’ di tempo fa?
SL: Credo sia stato Marco Gasperetti, un giornalista del «Corriere Fiorentino».
Lui trova nel mio account un paio di tweet che vengono giudicati transfobici; e quindi, lui, e poi il Movimento 5 Stelle, e Stella Sorgente, ex vicesindaca – montano anche varie associazioni, come Arcigay – chiedono a gran voce le mie dimissioni, ma tutto questo si consuma in 48 ore scarse.
Chiamano il sindaco, probabilmente chiedendo la mia testa.
Io allora faccio una conferenza stampa, molto dolorosa per me, in cui chiedo scusa. Un po’ perché mi dispiace aver scritto qualcosa che ha offeso qualcuno in particolare, ma soprattutto perché mi dispiaceva moltissimo aver messo in imbarazzo i miei colleghi della giunta e il sindaco, persone che ritenevo amiche. Ma la conferenza non basta. Il giorno dopo il sindaco mi convoca e mi dice che devo dare le dimissioni. Cosa che io faccio, torno a casa e scrivo la lettera.
Se non avessi dato le dimissioni, il sindaco e la giunta avrebbero dovuto sottostare alla mozione di sfiducia e io naturalmente, essendo una persona perbene, ancorché terribile transfobico, anteponendo l’interesse della città e della giunta ai miei, dico va bene, e do subito le dimissioni.
Dopodiché il sindaco fa una conferenza stampa.
In questa conferenza stampa, cosa che mi fa davvero male, invece di limitarsi a dire “Lenzi ha fatto dei post controversi, che hanno urtato la sensibilità di mondi la cui vicinanza noi sentiamo prioritaria, e per questo, ringraziandolo del lavoro svolto, accettiamo le sue dimissioni che abbiamo concordato con lui” (ricordando che io, peraltro, in città ho sempre votato favorevolmente e convintamente tutte le delibere che riguardavano il movimento LGBTQ+), invece di far questo, entra nel merito e stigmatizza le cose che ho detto come “inaccettabili”, “senza possibilità di giustificazione”. Di fatto, in questo modo, patrocina e avalla la gogna a cui vengo sottoposto. Cosa che mi fa male, appunto perché per cinque anni io ho lavorato fedelmente e indefessamente per più di 10 ore al giorno tutti i giorni.
ES: Dunque un tweet sbagliato e si cancellano tutte le cose buone fatte fino a quel momento.
SL: Non sono convinto che fosse “sbagliato”. Quel tweet sulla statua io lo rivendico. Era una statua della donna con la minchia, io l’ho definita “minchia” che è una bella parola, viene da mencla, forma volgarizzata di mentula, la cui radice è men che vuole dire protuberanza e anche men come monte, monte di Venere che invece è la fica: volendo e giocando c’è già tanta fluidità nella parola “minchia”. Mi dichiaravo non un borghese scandalizzato, ma un borghese annoiato a morte da questo lavaggio del cervello. [Questo è il tweet di cui si parla: “Alla Biennale di Venezia ci tengono a farci sapere che la donna quintessenziale ha la minchia. E no, non è che siamo borghesi scandalizzati. Siamo borghesi annoiati a morte da questo lavaggio del cervello, da questa prevedibilità, da questa predica continua”. Ndr] Sono profondamente disturbato da tutta l’arte didascalica, da tutta quell’arte che ti dice cosa devi pensare, perché in effetti se tu levavi quella statua, e ci mettevi un bigliettino con scritto “transwomen are women”, si esauriva tutto il senso dell’operazione, per cui la trovo un’arte di fatto violenta, violenta perché non lascia allo spettatore nessuna libertà di interpretazione. Dice: è così, devi pensarla così. Questa è una funzione che spetta alla predica, non all’arte. Se uno vuole sentire una predica, deve andare in chiesa, e non alla Biennale.
Mi sembra che quello che si smarrisce in tutta questa storia sia davvero l’ironia, che era la cosa più bella della sinistra, cioè il fatto che ci prendevamo per il culo, cioè, prendevamo in giro i nostri tic e i nostri dogmi, e questo che ci rendeva diversi dalla destra. Ecco, il fatto che non ci sia più questa ironia mi rende molto triste, al di là della mia vicenda personale che in quanto tale lascia il tempo che trova. In una considerazione molto più generale, mi intristisce rispetto al futuro della sinistra, così davvero ci garantiamo Giorgia Meloni al governo per chissà per quanto. L’ha scritto Guido Vitiello qualche giorno fa molto bene, come fa sempre lui: se lasciamo il buonsenso alla destra, poi è evidente che questa lo usa come un randello.
ES: Sul buonsenso sono d’accordo, ma siamo davvero sicuri che la sinistra italiana sia stata provvista di ironia e dell’idea di libertà fino a oggi?
SL: Provvista di libertà fino in fondo, non saprei dirlo. Però c’è una lunga tradizione: Paolo Virzì l’ha scritto proprio a proposito di questa faccenda, tutta la commedia, ma io penso a Francesco Guccini, Michele Serra, Nanni Moretti, Italo Calvino, Ettore Scola… Questo prendersi poco sul serio, mettersi in discussione, ce l’avevamo. D’altra parte, se sei la parte critica, lo spirito che nega, se mi fai citare il Faust, se sei “la parte mancina”, è questo che devi fare. Ma quando tramontano, finiscono, vengono decostruiti i grandi principi universalistici a cui ci siamo ispirati, e rimane solo questo tribalismo, per cui ci sono tante piccole tribù fondate sul risentirsi di qualcosa, e tenute tutte insieme solo dal paradigma vittimario, è chiaro che la deriva è questa: lavori cinque anni, ti fai con gioia un culo così, e poi fai due battute che urtano non si sa bene nemmeno chi, e vai a casa e sei in mezzo alla strada.
ES: Quanto ha a che fare questo con il fatto di prendere degli intellettuali e spostarli in politica?
SL: Tantissimo. Questa è stata la mia vera ingenuità: credere che fosse conciliabile il mondo da cui venivo, che dovrebbe fondarsi sull’assoluta libertà di espressione con la politica, nel cui mondo quello che devi fare è ottimizzare sempre il consenso della parte di riferimento, quindi fondamentalmente dire sempre solo vuote banalità innocue.
Però il fatto di essere stato licenziato un vantaggio ce l’ha: finalmente mi lascia libero di non sentire più tutto il giorno parole come resilienza, territorio, la sostenibilità, la sostenibilità del territorio resiliente, la fragilità, le varie fragilità del territorio…
ES: In questi cinque anni ti è stato consentito di spostarti in un territorio in cui le parole valevano davvero e non erano, come dicevi tu, vuoto fiato?
SL: In questi cinque anni, ho lavorato così tanto, abbiamo fatto così tante cose, a partire dalle mostre, tra cui quella di Modigliani che ha avuto centinaia di migliaia di visitatori, il festival “Mascagni”… Avevo messo in piedi ora un master di secondo livello di scrittura e sceneggiatura con l’Università di Pisa che ero riuscito a far portare a Livorno. Più che esprimermi, in cinque anni, ho lavorato.
“Io allora faccio una conferenza stampa, molto dolorosa per me, in cui chiedo scusa. Un po’ perché mi dispiace aver scritto qualcosa che ha offeso qualcuno in particolare, ma soprattutto perché mi dispiaceva moltissimo aver messo in imbarazzo i miei colleghi”.
ES: Ti faccio una domanda polemica: se quel tweet l’avesse fatto un politico di destra, avendo come destinatario che so, Elly Schlein?
SL: Non gli avrebbero detto nulla. Vittorio Feltri lo fa continuamente.
ES: Però Vittorio Feltri non è in politica…
SL: A destra possono dire assolutamente cosa vogliono e non succede nulla. Invece a sinistra c’è un seminato stretto dove devi stare attento a non dire mai una parola di troppo sennò non te la perdonano. È questo il narcisismo etico, la sinistra morirà di narcisismo etico, del bisogno di sentirsi buoni e giusti, senza chiedersi minimamente se sei davvero buono e giusto.
Io reclamo solo l’elementare diritto di libertà di espressione. Non ho mai offeso nessuno in particolare, ho sempre distinto persone e idee, oltretutto non sono nemmeno transfobico. Poi questa cosa della “fobia”, fobia di che? Io non ho paura di nulla.
ES: Sarà forse opportuno levarsi da questi social?
SL: Questo è sicuramente un punto. Io credo che i social abbiano davvero rovinato il mondo, abbiano fatto in modo che le parole non significhino più niente. E quindi di fatto, il nostro lavoro non serve più a niente, perché niente significa più niente.
Forse nel momento in cui noi riteniamo che il social sia la manifestazione più importante del mondo è chiaro che quello che va lì sopra viene scambiato per la realtà, per ciò che veramente conta e che veramente esiste.
Quando io scrivo un tweet in cui dico che vorrei che chiudesse il «Fatto Quotidiano» questo farà sì che chiuda il giornale? Che cos’è, il pensiero magico?
Elena Stancanelli
Elena Stancanelli è scrittrice, giornalista, conduttrice radiofonica. Il suo ultimo libro è Il tuffatore (La Nave di Teseo, 2022).
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