Storia del lavoro che non ho scelto - Lucy
articolo

Donatella Di Pietrantonio

Storia del lavoro che non ho scelto

Per tutta la vita, Donatella Di Pietrantonio ha svolto il mestiere di dentista, al quale ha poi affiancato quello di scrittrice. Ora che ha deciso di dedicarsi solo alla scrittura, riflette sulle scelte che ha preso e sul futuro che la attende.

Tubuliclean, e non me lo ricordavo. All’improvviso non sapevo più il nome del lavaggio canalare che uso da anni, più volte al giorno. Prepara il… e poi non ho detto altro alla mia assistente. Avevo perso il Tubuliclean. Lei mi ha guardato, interrogativa. L’ho fissata, possibile che non lo capisse da sola di cosa avevo bisogno? Dammi il… ho ripetuto sperando in un ritorno automatico della parola. Mi sono di nuovo incagliata, invece. Il ragazzo disteso sulla poltrona si è voltato verso di me, con la diga di gomma blu. Mi guardava anche lui, in attesa che gli rimettessi le mani in bocca. Ma io non avevo niente tra le mani per il suo molare. Preparo il Niclor, ha chiesto Rita. No, in quella fase, su quei canali non serviva. Il Niclor è ipoclorito di sodio, cioè candeggina. A me serviva un chelante, che si mangiasse il fango dentinale, ioni calcio e batteri compresi. 

Ho sempre paura di perdere la memoria, come è capitato a mia madre all’età che ho io adesso. Ma non è quello, lo so, non è ancora il momento. Ho la presunzione di capirlo, se e quando arriverà. Ho visto come comincia. Questo è altro. Me lo sentivo nei secondi che diventavano i tre o quattro minuti in cui siamo rimasti sospesi: io alla ricerca della parola in un vuoto mai provato, Rita senza guida, il ragazzo con la diga blu che accavallava e scavallava le gambe. Nel silenzio solo la radio in sottofondo, i soliti ospiti che discutevano il tema del giorno.

Alla fine la mia assistente ha allineato sul servomobile tutti gli irriganti canalari che abbiamo allo studio, ed eccolo lì. So tutto del Tubuliclean, composizione chimica, meccanismo d’azione, indicazioni. È una soluzione tamponata di EDTA, acronimo di acido etilendiamminotetracetico. 

Cosa mi è successo, ieri? Ieri non me lo ricordavo più. Alla fine della seduta il ragazzo mi ha chiesto se ero stanca e ho risposto: un po’ sì. Ma non è la stanchezza che pensa lui, quella dei suoi muscoli dopo gli allenamenti. 

Ieri ero reduce da mesi di viaggi per la promozione del mio libro, con brevi e rari intervalli. Ne ho parlato allo sfinimento. Credevo di riposarmi, riprendendo allo studio. Invece è scattato un salvavita. 

Il mio è stato un lavoro di ripiego, ormai posso dirlo. A vent’anni volevo studiare giornalismo, ma non ho avuto nemmeno il coraggio di chiederlo ai miei. Si sarebbero consultati, senza capire del tutto cosa intendevo. Eppure oggi sono convinta che non mi avrebbero risposto di no. Ma in quel momento nessuno di noi, a casa nostra, era pronto. Alla fine la scelta è stata mia.  

“Ho sempre paura di perdere la memoria, come è capitato a mia madre all’età che ho io adesso. Ma non è quello, lo so, non è ancora il momento. Ho la presunzione di capirlo, se e quando arriverà”.

Dentista era comprensibile a tutti, utile, persino mio nonno che ogni tanto soffriva di ascessi ha approvato. Ho lavorato per trentasette anni, con impegno, dedizione, rigore. Me lo sono fatto piacere. Ho curato mio nonno finché c’è stato. A fianco la scrittura, sempre in anticipo sull’alba, un tempo perso e necessario. 

Non ho mantenuto la promessa. Quando ho aperto lo studio ho detto che a quarant’anni avrei smesso e iniziato un’altra vita. Ho rinviato a quarantacinque, poi a cinquanta. Ho esordito con un romanzo e continuato a posporre. Avevo paura della libertà. Dentro di me ancora vivo il pregiudizio dei miei antenati: il lavoro è quello che si fa con le mani. È fatica, sacrificio. Alzarsi presto, sforzarsi oltre il limite. E io con le mani ho lavorato, non la terra, ma i denti dei bambini. Avevo combattuto i padri, ma in qualcosa gli ho ubbidito. L’unità di misura in famiglia era l’ettaro, nella mia pratica quotidiana il mezzo millimetro. L’ho anche amato il mio lavoro, e altrettanto mi è pesato. 

Mi sono divertita con i bambini. Con i bambini ci devi giocare, prima di anestetizzarli. Sono esigenti: non solo ci devi giocare, ma ti devi anche divertire. Se non ti diverti non gli piace giocare con te. Dio ce l’ha i denti? E chi glieli cura, gli angeli o il diavolo? Perché non avete ancora inventato il dentifricio al gelato? E poi i pianti. Di spavento, solo a volte di dolore. Raramente ho fatto male ai bambini. Certe sere ero così stanca di loro che a casa non volevo sentire neanche mio figlio. 

Oggi smetto. Nessun appuntamento a pazienti nuovi, niente più controlli a sei mesi. Rita mi guarda senza parole. Sono due anni che glielo anticipo, non ci credeva più. E i ragazzi con gli apparecchi? Quelli li finiamo. 

Scriverò per lei una lettera di referenze, chiederò a qualche studio importante in città. Porterò a termine le cure in corso. 

Tutti questi anni sono persi? Dico sempre di no, non posso ammetterlo. Invento ciò che dalla professione è traslato nella scrittura: lo scavo in profondità, il taglio del superfluo. Ma so che è una falsa osmosi, un passaggio forzato. Non bisogna credermi. La pagina prosciugata non è paragonabile alla cavità da cui ho rimosso la carie. L’odontoiatria non c’entra niente con la letteratura. Proprio niente. 

Se non avessi dedicato tutti questi anni ai denti dei bambini, avrei scritto dieci romanzi, non cinque. Qualcun altro avrebbe curato quelle lesioni allo stesso modo. Ma mentre trapanavo molaretti decidui nessuno ha scritto con la mia voce (quale che sia) i cinque romanzi che mi mancano. L’ho silenziata per non confessare a me stessa di aver scelto nel giardino dei sentieri che si biforcano quello sbagliato e di averlo seguito ostinatamente fino in fondo. 

Alcuni anni fa un autorevole collega mi esortava: basta, smetti. Gli ho promesso che l’avrei fatto, ma invece di lasciare lo studio ho lasciato passare il tempo. Non ho trovato un permesso dentro di me. Dovevo continuare a scrivere alle quattro di mattina, rubarmi le ore. E più tardi indossare camice e guanti come se avessi dormito abbastanza. Ho costretto le mie giornate e la mia famiglia a contenere l’impossibile. 

Il cortocircuito sul Tubuliclean mi ha liberata; resterò salda? Di là in segreteria una donna pretende un appuntamento per i suoi figli e protesta con la mia assistente che glielo nega. Altri si sono dispiaciuti, ma poi hanno detto: è giusto. Adesso dove li porto, domanda la signora. Ascolto il tono incerto di Rita, la sua tentazione di accontentarla è la mia. Si affaccia alla porta e: NO, le dico. No, ripete l’eco nella mia testa. Per questa volta sono stata inflessibile. Me ne devo andare da qui, presto potrei cedere. Alla pulpite di un bambino non si resiste, e neanche a quei sorrisi sdentati di quando perdono gli incisivi da latte. Mi disarmano. 

Non so se sono disposta a questo finale. Ho paura. E se mi mancassero gli orari da rispettare, le responsabilità. Se mi perdessi nella lunghezza di giornate senza vincoli. Il lavoro mi ha stremata, ma mi ha dato un senso di efficacia. Credo di essere stata utile ai bambini che mi sono stati affidati. È questa la traccia che lascio di me, non so se più o meno duratura dei libri. 

Ho già nostalgia dell’odontoiatra che non sarò più. Di quelle dentine infestate e umide, da rimuovere e sostituire con il composito. Forse non riuscirò a scrivere, in questa libertà che si spalanca. È comunque un vuoto. Forse mi ammalerò, come certi che vanno in pensione e abbassano le difese. Oppure è probabile il contrario, che crolli se continuo così, con il troppo pieno. 

Devo salutare chi sono stata. Dovrei essere contenta o almeno sollevata, non lo sono. Mi concentro per tempo su ciò che sta per mancarmi: la certezza delle abitudini, gli orari fissi, l’odore giallo e rassicurante della pasta iodoformica.  

Non sono stata felice da giovane, non me lo aspetto adesso. Mi dicono che passati i sessanta dovrei solo stare serena e io li guardo storto. Per scrivere ho bisogno del contrario, del tormento. E non mi sono mai innamorata dei sereni, mi annoiavano. 

Devo inventare nuove regole per le mie giornate, con un’ora di cammino almeno, la mattina o intorno al tramonto, quando i vecchi mattoni del paese si arrossano un po’ di più. Allungherò la strada fino a casa degli amici un po’ fuori mano, che vedo solo di rado. Scriverò di quelle nuvole così cremose prima che diventino nere e pioggia. 

Coraggio. È necessario che cambi, ancora una volta. 

Donatella Di Pietrantonio

Donatella Di Pietrantonio è scrittrice e sceneggiatrice. Con il suo ultimo libro, L’età fragile (Einaudi, 2024), ha vinto il Premio Strega.

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