Fabrizio Gabrielli
20 Giugno 2024
L’America Latina ha sempre avuto una particolare affinità con il concetto di cannibalismo, e ancora oggi l’immagine dell’uomo che mangia un altro uomo è molto presente nella sua cultura. Ma se all’origine del fenomeno c’è il pretesto con cui i bianchi giustificavano i loro massacri, oggi cosa rappresenta il cannibale?
Marcos Tejo è un uomo che non ha granché da chiedere alla vita: una violenta pandemia gli ha lasciato solo brandelli sfilacciati di esistenza. La moglie lo ha abbandonato, dopo la morte in culla del loro bambino. Si trascina stancamente al lavoro: nel frigorífico Krieg.
Il frigorífico – termine eminentemente argentino, intraducibile senza una perifrasi, e che identifica i luoghi in cui le bestie vengono macellate e conservate –, di bestie non ne ospita più. Il virus ha reso immangiabili le proteine animali. Così, nell’epoca che viene chiamata Transizione, allevare e macellare carne umana, prepararla al consumo, è diventato lecito. Non li chiamano umani, certo: li chiamano cabezas, ‘teste’; soffiato via il tabù, la carne umana è stata ribattezzata ‘carne speciale’. Gli immigrati, i marginalizzati, i poveri: sono diventati loro il combustibile dei frigoríficos. “In fin dei conti”, dice Marcos Tejo, “da che mondo è mondo ci mangiamo l’un l’altro. La Transizione ci ha semplicemente dato l’opportunità di essere meno ipocriti”. In questo nuovo Nuovo Mondo, il confine tra civiltà e barbarie sopravvive nella figura dei Carroñeros, dei Mangiacarogne che si accontentano di carne umana malata o imputridita: sono loro, quelli che continuano a mangiare gli uomini, senza sovrastrutture giustificatorie, i nuovi diversi, i nuovi selvaggi.
Marcos Tejo è il personaggio principale di Cadavere squisito, romanzo di Agustina Bazterrica (recentemente tradotto in Italia da Francesca Signorello per Eris), l’allegoria di una società cannibale, fatta di uomini che passano dal ruolo di macellai a quello di bestie. Il libro di Bazterrica è del 2017 e ha intravisto e anticipato alcune mostruosità del nostro presente, tra cui l’arrivo di una pandemia. Leggerlo mi ha portato a chiedermi perché il tema del cannibalismo – il più tabù dei tabù? – fosse così ricorrente nella cultura e nella letteratura latinoamericana. E in che modo l’antropofagia ci aiuti – o non aiuti – a capirla, l’America Latina.
Le Americhe hanno sempre avuto una particolare affinità elettiva con il concetto di cannibalismo. La stessa parola è una palingenesi amerindia: Cristoforo Colombo, al suo arrivo nel Nuovo Mondo, si è imbattuto in nativi che credeva i sudditi del Gran Khan, e che nominavano se stessi caniba: esseri così disumani, con il cuore pieno del buio della sauvagerie, da menomare gli avversari e mangiarsi i loro genitali. Dal Nuovo Mondo la parola ha viaggiato a bordo delle caravelle attraverso l’Oceano, per restituire un’immagine-brina che il discorso latinoamericano sull’identità non riuscirà mai del tutto a scrollarsi di dosso.
Ma il cannibalismo è sempre stato – e forse non ha mai smesso di essere – la bandierina, logora e inquietante, che ha storicamente sventolato su tutti continenti Nuovi, e in quanto tali impenetrabili: l’Africa, oltre al Sudamerica. La scorza dura e respingente di un altro spaventoso perché compie gesti indicibili, inconfessabili, per i quali non esiste comprensione né assoluzione. Come spiega benissimo nel suo monumentale Canibalia: canibalismo, calibanismo, antropofagia cultura y consumo en América Latina il colombiano Carlos A. Jáuregui, il cannibalismo è una perfetta giustificazione, in fondo, infilata nel fardello dell’uomo bianco, in nome della quale procedere alla civilizzazione.
“Il cannibalismo è sempre stato – e forse non ha mai smesso di essere – la bandierina, logora e inquietante, che ha storicamente sventolato su tutti continenti Nuovi, e in quanto tali impenetrabili”.
Quella dell’uomo che si nutre di un altro uomo, a prescindere dal movente, è un’immagine che la nostra mente rifiuta, che colloca fuori dall’umano: l’atto più basso e ripugnante cui si possa giungere. Il cannibalismo è sempre stato un pretesto per puntare il dito contro la barbarie: a diverse riprese, e in diverse epoche storiche, gli ebrei hanno dato dei cannibali ai cristiani, i cristiani agli ebrei, gli inglesi agli irlandesi, i francesi ai tedeschi, le destre ai comunisti. Gli spagnoli agli aztechi: per sterminare un’intera civiltà, Hernán Cortés partì dal pretesto dell’inciviltà cannibalica degli aztechi, dediti a sacrifici umani quotidiani, demonificando Montezuma che si diceva esigesse che gli venisse recapitato ogni volta un muscolo del sacrificato, affinché potesse cibarsene. Ma se la storia non la scrivessero sempre i vincitori, magari avremmo scoperto che anche gli aztechi pensavano che gli spagnoli fossero cannibali: dopotutto i conquistatori sopraggiungevano armati di spada e croce, il simbolo del sacrificio di un uomo che aveva chiesto alla sua comunità di cibarsi del suo corpo e di bere il suo sangue.
1. Manifesti e tropicalismi
Ma la contrapposizione tra civili e selvaggi, giocoforza, è finita per calzare alla perfezione, nella letteratura latino americana, a quella tra ricchi e poveri, tra chi comanda e chi viene comandato, con un ribaltamento dei ruoli dagli esiti inaspettati, in cui la maschera del selvaggio, a pensarci bene, non è sempre indossata dal reietto: in fin dei conti, a dissetarsi del sangue che sgorga dalle vene aperte dell’America Latina non sono mica mai stati i poveri: mangiare carne umana è un lusso da ricchi.
I benestanti convitati ai banchetti de La cocinera del messicano Julio Torri, a un certo punto, con somma delusione, si trovano a dover sospendere la deliziosa abitudine quando in uno dei tamales della cuoca tanto osannata che dà il titolo al racconto viene trovato il dito di un bambino: i ricchi non provano orrore per l’ingrediente usato, ma delusione per doverne fare a meno. L’uomo sacrifica sull’altare dell’edonismo anche la morale: ma non è per essere civilizzati che si smette di essere barbari.
Nel racconto La carne del cubano Virgilio Piñera, in un paese messo alle strette dalla penuria del mondo animale, il protagonista Ansaldo lancia la vague gastronomica di mangiarsi. Il consumo di carne umana, qua, si trasforma da extrema ratio della preservazione a un gesto per il semplice gusto di. Attraverso la deliziosità di un asado di natiche, delle labbra fritte, Ansaldo – e il povero, per estensione – scopre non solo la capacità di bastarsi di per sé, ma il lusso. Il cannibalismo di Piñera non è un cannibalismo per necessità, ma per scelta. Per rivendicazione.
È un po’ lo stesso assunto teorico alla base del Manifesto Antropofago del poeta brasiliano Oswald de Andrade, che ha usato il tropo del cannibalismo – capovolgendolo – in una maniera che ha inevitabilmente finito per influenzare la percezione che abbiamo, oggi, dell’America Latina.
In uno dei suoi aforismi principali Mário de Andrade si chiede: “Tupi or not Tupi? That’s the question”. Lo fa in inglese, così da divorare, in un sol boccone, Shakespeare e la sua lingua. I Tupinamba erano una delle principali tribù indigene accusate, dai colonizzatori, della sauvagerie cannibalistica: ma mangiare il nemico, per loro, aveva un sostrato culturale, perché significava trasformarsi nell’altro, digerire il buono, espellere il cattivo. Allo stesso modo, secondo Andrade, la cultura latinoamericana deve farsi Tupi, “digerire” le idee europee per dare vita a una cultura totalmente nuova. Che è poi quel che faranno Tom Jobim e João Gilberto, in musica, nel Tropicalismo, quando diranno che in fondo, quando hanno ideato la propria musica, non stavano che mangiando i Beatles e Jimi Hendrix. Il cannibalismo, per Andrade, da tabù diventa totem, strumento autorappresentativo. E da stereotipo usato per asservire l’America Latina passa ad essere un grimaldello di cui servirsi per, a sua volta, liberarsi dal giogo colonialista, per rivendicare il proprio posto al mondo. L’America Latina, insomma, se non può liberarsi di un’etichetta, cerca almeno di utilizzarla a proprio favore, a farne strumento di rivendicazione identitaria.
2. Una tabula rasa
Mi sono fatto l’idea che se il cannibalismo ha una presenza scenica così potente, nel sostrato culturale latinoamericano, è anche perché l’America Latina è anche una terra sterminata, di una vastità angusta, di privazioni che ti trascinano verso il baratro dell’irrazionalità – o di una razionalità diversa, inaccettabile ma coerente: una terra in cui la legge – e la moralità – sono una tabula rasa da riscrivere, da interpretare secondo i ritmi che detta la contingenza.
Nei primissimi anni della sua (prima) fondazione, ai tempi della spedizione di Mendoza di metà 1500, in una Buenos Aires alle prese con carestie e una natura impervia, ricorrere al cannibalismo è una forma estrema di sostentamento, certo, ma anche in qualche modo un lasciapassare accondiscendente all’idea che ogni uomo, in assenza di codici morali – o al momento dell’implosione degli stessi –, non solo può, ma per sua natura è portato ad abbandonarsi all’istinto di farsi predatore.
In uno degli epicentri dell’inaccessibilità selvaggia del continente, la Cordigliera delle Ande che cuce i confini tra Cile e Argentina, nel 1972 i superstiti del disastro aereo del volo 571 delle Forze Aeree Uruguayane sono riusciti a sopravvivere per due mesi e mezzo: un miracolo, osannato dall’opinione pubblica. Finché non hanno confessato che, per sopravvivere, hanno dovuto fare ricorso al cannibalismo. Per scendere a patti con la moralità, i superstiti della tragedia delle Ande hanno disumanizzato i corpi di cui si sono cibati, si sono concentrati con acribia a dipanare sottigliezze – tutt’altro che sottili – di tipo semiotico: si sono convinti che stessero ingerendo, e non mangiando; hanno cercato, in qualche modo, una continuità culturale, optando per tagli vicini alle loro abitudini – in Uruguay è piuttosto comune consumare fegato, cuore, intestini e ghiandole linfatiche; e quando non è stato più possibile mascherare il fatto che stessero mangiando carne umana, nel momento in cui l’unica disponibile rimasta era quella dalle fattezze antropomorfe, ecco, l’hanno iniziata semplicemente a considerare carne.
In fondo non c’è posto al mondo in cui sia così facile parlare di carne, sulla quale paesi come l’Argentina e l’Uruguay hanno costruito la loro economia, e quindi la loro identità. È forse questa abitudine storicizzata, questa presenza endemica a rendere il gesto uomo mangia ogni carne – a prescindere dalla sua provenienza – meno sconvolgente? Il cortocircuito morale che divampa di fronte al consumo di carne umana, allora, è l’ultimo mostro che, nel continuo videogame che è il nostro percorso di abbattimento di ogni ostracizzazione, non riusciamo ancora a sconfiggere?
Spostando l’asticella più in alto, ci si potrebbe chiedere: si può pensare di consumare carne umana liberi da costrizioni etiche, addirittura con una certa predisposizione gourmet? Come in Cadavere squisito, in cui si racconta come una delle linee di produzione si concentri sulla sovralimentazione di obesi destinati a restituire carni ricche di grassi, una specie di Wagyu “speciali”?
Nel racconto di un mostro santafesino che, sul finire degli anni Trenta, cucinò e mangiò una bambina di undici anni, e che si confessò al periodico El Orden, al di là dell’orrore per la mostruosità, per la degenerazione morale, c’è la morbosa fascinazione suscitata dall’asador che, lucidamente, sceglie i tagli più congeniali alla sua grigliata: “Prima l’ho fatta a pezzi, con il machete… Sapete, me ne intendo di tagli. […] La carne l’ho appesa. Ho fatto dei ganci e l’ho appesa alla recinzione del rancho”. Come in un racconto horror, ma reale, il lettore è disgustato e attratto allo stesso tempo da quest’uomo che dice di spaventarsi a ogni boccone perché “uno poi ci prende il vizio, mangia e poi non può più farne a meno”. Lo spaventa, e allo stesso tempo lo affascina, il fatto che l’uomo, di fronte alla più banale e terribile delle domande, “Com’era?”, dia quella risposta: “Deliziosa”.
E se la linea di demarcazione, oltrepassare la quale significa entrare nel campo della barbarie, fosse allora il gusto con cui si compie l’atto cannibale? Il godimento che se ne ricava?
L’America Latina non sembra solo il paradiso del concetto di homo homini lupus, ma anche il luogo in cui divorare l’altro, in precisi momenti storici, è diventato normale, addirittura eccitante. Forse perché sembra esserci, in America Latina, un boccaporto situato da qualche parte sul fondo della fossa morale più profonda spalancando il quale, in un modo o nell’altro, si apre un ulteriore abisso.
3. Dittature cannibali
Nel suo film El Conde, Pablo Larraín ha avuto l’intuizione di dipingere il dittatore cileno Augusto Pinochet come un vampiro destinato alla perpetuazione della sua natura, e per questo costretto a spedizioni notturne durante le quali, in divisa da Generalísimo, si procaccia cuori giovanili, li frulla e, ancora caldi, li beve: divora, cioè, dopo averlo già fatto con il passato, e con il presente, anche il futuro.
Ogni dittatura militare, in America Latina, è stata cannibale: i paesi che le hanno subite conservano ancora le cicatrici, quello che la scrittrice Mariana Enríquez – che nei suoi racconti horror, infatti, finisce spesso per finire a parlare di cannibalismo – definisce un “disturbo da stress post traumatico nazionale”. Le dittature in Cile, Bolivia, Uruguay, Brasile, Argentina si sono cibate della materia degli incubi. In fondo, non hanno fatto altro che perpetuare la giustificazione colonialista dell’altro selvaggio ripercuotendola sulla propria popolazione: eppure, se nell’interpretazione coloniale l’altro era pericoloso in quanto cannibale, qui sono stati i regimi militari che si sono premurati di – in quanto pericoloso – cannibalizzarlo. Non hanno solo ucciso, ma fatto scomparire corpi dopo averli pasciuti e segregati nei centri di detenzione, come le cabezas nei frigoríficos di Cadavere squisito. È come se li avessero mangiati, ingeriti, digeriti senza lasciarne traccia. A ogni desaparecido hanno tolto il nome perché dare un nome è dare un’identità. Ne hanno fatto carne.
“Ci si potrebbe chiedere: si può pensare di consumare carne umana liberi da costrizioni etiche, addirittura con una certa predisposizione gourmet?”
Se nell’America Latina contemporanea si ricorre così tanto all’evocazione del cannibalismo, dalla letteratura alla cinematografia al calcio – “Mirá que te como, hermano”, dice Emiliano Dibu Martínez al rigorista avversario colombiano nella semifinale della Copa América 2021 – è perché in nessun altro luogo l’impianto metaforico che permette di costruire ha avuto, e continua ad avere, un senso rotondo e potente: l’immagine di corpi che mangiano corpi restituisce un’immagine perfetta di un continente angusto, pericoloso, in cui perdere la trebisonda, il senso della misura, la percezione del pericolo, il senso della moralità è forse l’unico mezzo di sopravvivenza. O una meravigliosa occupazione.
Per contingenze storiche, economiche e politiche, il cannibalismo in America Latina ha fatto il giro intero, finendo per apparire non solo inevitabile, come dice Derrida, ma addirittura normale. Nel 2023, in piena campagna elettorale per la presidenza argentina, Javier Milei si è dichiarato aperto alla ricerca di meccanismi di mercato per la vendita di organi. La Mano Invisibile del mercato, sua Stella Polare, secondo lui ne determinerà il successo economico. “È la mia proprietà più importante”, ha detto. “Perché non posso farne quel che voglio?”. Per un attimo mi sono immaginato l’Argentina, e il resto del continente che la circonda, come il paese de La carne di Piñera.
Nell’interpretazione e nella percezione del cannibalismo, la società moderna latinoamericana ha abbandonato i classici tòpoi stigmatizzanti, dicevo, per normalizzarli. Il cannibalismo non è già più, quindi, la cesura tra barbarie e civiltà, ma un’evoluzione della civiltà stessa, che porta il livello di sofisticazione del tema al punto di non discuterne più le valenze etiche, ma a sublimarne quelle percettive e simboliche.
“Hanno finalmente promulgato la legge” dice un personaggio di Cadavere squisito, immaginando un allevamento di umani destinato all’espianto di organi. Per poi aggiungere, entusiasta: “È un campo in cui investire”.
Fabrizio Gabrielli
Fabrizio Gabrielli è scrittore e giornalista. Collabora con diverse riviste su cui scrive soprattutto di calcio e Sudamerica. Il suo ultimo libro è Messi (66thand2nd, 2023).
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