"The Brutalist" contiene due film. Il secondo non è all'altezza del primo - Lucy
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Irene Graziosi

“The Brutalist” contiene due film. Il secondo non è all’altezza del primo

02 Settembre 2024

La prima parte di "The Brutalist" è raffinatissima, straordinaria. Cosa succede al regista Brady Corbet nella seconda?

Durante l’intervallo, gli spettatori di The Brutalist, opera di Brady Corbet in concorso a Venezia81, erano in visibilio. Alcuni esultavano all’idea che Corbet avesse preteso che lo schermo della sala fosse compatibile per i 70mm, altri lodavano l’idea dei quindici minuti di pausa durante le tre ore e mezza di proiezione, “è senza dubbio uno dei film più belli degli ultimi anni”, si asseriva tra le nubi di fumo fuori dalla Sala Darsena. 

In effetti, fino al curatissimo intervallo dotato di timer, The Brutalist è un film perfetto. L’architetto ebreo László Tóth (Adrien Brody, che pare abbia cento volti) nel 1947 sbarca a New York nella speranza di una nuova vita. È una scena magistrale: camera a mano nella plancia della nave, la statua della libertà ripresa sottosopra, come la vedono gli immigrati: imponente, bellissima. Una promessa. Tóth inizialmente va a stare da un cugino a Philadelphia che ha uno showroom di mobili sgraziati ed è sposato con una bella donna americana. Quando gli viene chiesto di ristrutturare la biblioteca del milionario americano Harry Lee Van Buren (Guy Pearce), Tóth, che ha studiato alla Bauhaus, ne concepisce una meravigliosa, essenziale, ingraziandosi dopo un primo momento di tensione il suo committente. È così che quest’ultimo diventa mecenate di Tóth, offrendogli poco dopo di costruire un centro polifunzionale in onore della defunta madre, e che lo aiuta a far sì che la moglie Erzsébet e la nipote possano raggiungerlo negli Stati Uniti. 

Fin qui va tutto bene. Anzi, non bene, benissimo. L’armonia perfetta che si genera tra storia, immagini, dialoghi, recitazione ha del miracoloso. Nulla pare essere lasciato al caso, nessuna scena è scontata o di troppo, e alcune sono straordinarie, come quando i due amanti si rincontrano dopo tanti anni e si intuisce perfettamente ciò che sentono: sì, certo, si sono scritti, si sono pensati a distanza, hanno fatto di tutto per rivedersi, ma dopo molto tempo l’intimità pare impossibile da riafferrare, la vita che li ha separati improvvisamente appare troppo densa, la distanza da percorrere per ricongiungersi infinita, e allora Erzsébet sussurra al marito parole così feroci e così intime e vere mentre sono a letto che lo spettatore quasi è imbarazzato dal dover assistere a qualcosa di talmente privato e autentico.

Non ci si accorge neanche del tempo che passa, né si è troppo interessati al raggiungimento di chissà quale acme drammatico: per raccontare del rapporto tra immigrati europei colti, poveri eppure orgogliosi, che custodiscono la storia e i valori del pensiero occidentale e questi americani arricchiti, arroganti, invidiosi di una bellezza a cui non possono avere accesso, Brady narra la storia di un uomo e del suo talento, di un uomo e le sue passioni, di un uomo e le sue ossessioni, e lo fa da maestro. Il cuore è Tóth, che si fa tramite di tutto il resto senza che questo movimento appaia voluto, come in tutte le migliori storie. E allora, cosa succede dopo?

Nella seconda parte, che per lunghezza è quasi un altro film, la raffinatezza, l’eleganza, tutto ciò che si è evocato in precedenza diventa improvvisamente rozzo, pesante. È il momento, questo, in cui gli Stati Uniti chiedono il conto di quanto hanno concesso finora: i desideri, se esauditi dagli americani, hanno un prezzo, vuole dirci Brady. Credo sia qui che risiede il nucleo del problema. Per la prima volta, il regista vuole dimostrare un teorema, e chi paga lo scotto delle tesi sono sempre le storie. Improvvisamente le inquadrature, che fino a quel momento sono state magnifiche perché funzionali al racconto, prendono il sopravvento.

A Carrara, dove Tóth e Van Buren vanno a scegliere il marmo da usare per l’opera di Tóth, le cave diventano i gironi infernali di Dante, preludendo al dramma che si sta per verificare. Certo, sono riprese visivamente seducenti, e con la grana del 70mm mozzano il fiato, ma Brady calca la mano e improvvisamente chi guarda avverte per la prima volta la spinta concreta di chi fino ad allora lo ha diretto grazie a fili nascosti. Come se anche Brady, come Van Buren, non riuscisse a staccare gli occhi da ciò che ha di fronte, da questi scenari così meravigliosi da dover essere per forza divorati con la cinepresa perché in fondo non gli appartengono: in questa impossibilità di possesso, Brady si perde.

È qui che il regista, che con la sua breve ma promettente carriera non ha mai nascosto la sua adorazione per l’Europa e i suoi artisti, torna improvvisamente a essere un americano, quando fino a un attimo prima stava riuscendo nel suo intento mimetico. Il marmista italiano che racconta di essere un partigiano anarchico come una sorta di Virgilio suona falso, pretenzioso, il vanto di qualcuno che vuole gridare al mondo di aver studiato. E se nella prima parte la narrazione si era presa il suo tempo per svilupparsi, nella seconda tutto diventa rapidissimo, fino a una delle ultime scene, il momento della verità, che si conclude con un epilogo a dir poco didascalico, irrealistico, che dà una mano di spugna alla verità intelaiata all’inizio. 

Perfino il senso dell’architettura di Tóth, fino ad allora lasciato intuire allo spettatore attraverso le gesta del suo creatore, viene spiattellato, mescolandolo a porzioni del passato di Tóth di cui peraltro allo spettatore non era stato rivelato niente. Da un certo momento in poi, Brady ha smesso di fidarsi di se stesso e dell’acume dei suoi spettatori. E, malgrado uscendo dalla sala molti continuavano a esclamare un elegante “che bomba”, l’applauso finale è durato poco ed era ben più fievole di quello che aveva accolto l’intervallo. 

A cena in un ristorante del Lido, accanto al nostro tavolo, due signori distinti parlavano animatamente del film, dicendo più o meno le stesse cose che pensavamo noi. Ci siamo uniti alla conversazione, e uno dei due giustamente diceva che rimane comunque, quasi sicuramente, il film più bello in concorso. Probabile che sia così. Eppure è più difficile fare i conti con un film meraviglioso che diventa medio di quanto non lo sia farli con uno che nasce già con poche pretese. Un po’ come capita con l’amore. 

Irene Graziosi

Irene Graziosi è autrice, scrittrice e vicedirettrice di Lucy. Il suo ultimo romanzo è Il profilo dell’altra (Edizioni E/O, 2022).

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