"The Opera" è un film divertente, ma non si capisce a chi è rivolto - Lucy
articolo

Daniele Cassandro

“The Opera” è un film divertente, ma non si capisce a chi è rivolto

20 Gennaio 2025

Il film di Cucco e Livermore racconta con sincera passione la lirica ma, nonostante qualche buona trovata, difficilmente riuscirà ad avvicinare un pubblico nuovo all'opera.

L’opera lirica è una forma d’arte destinata all’estinzione? Il futuro dei teatri d’opera è segnato? Devono soccombere e trasformarsi in attrazioni per turisti? In experience instagrammabili che durano il tempo di una story?  Se lo sono chiesti in molti nell’anno appena trascorso. Peter Gelb, il general manager del Metropolitan di New York, ha scritto un editoriale sul «New York Times» in cui ammette che l’opera lirica è un paziente terminale che ha una sola speranza di sopravvivenza: rinnovarsi radicalmente. Gelb ritiene che l’unica via di salvezza è dare più spazio all’opera contemporanea correndo il rischio di scontentare gli investitori e gli abbonati più tradizionalisti. Più radicale è la proposta del direttore artistico e regista teatrale americano Yuval Sharon che nel suo libro A new philosphy of Opera (Liveright, 2024) arriva ad augurarsi che la lirica come la conosciamo smetta di agonizzare e si decida a morire. Quello di Sharon è un manifesto per una nuovo teatro d’opera non più elitario ed escludente ma democratico e aperto. La sua idea più forte è quella di abbandonare ogni struttura narrativa lineare: il pubblico va scosso, stimolato e l’opera non può più permettersi di cristallizzarsi in un rituale ma deve tornare a essere poesia, provocazione, trascendenza. Sharon, per provare la sua teoria, ha messo in scena una Bohème di Puccini smontata e rimontata al contrario: comincia con la morte di Mimì e ricostruisce tutta la storia a ritroso come un falshback. E in più Sharon vorrebbe uscire dai teatri e andare nei garage, nei centri commerciali e ovunque ci sia gente. Non che tentativi di questo genere non siano stati fatti, ma di solito si sono manifestati a macchia di leopardo, senza una volontà radicale di rinnovamento. L’ultimo a porsi seriamente e organicamente il problema di come traghettare l’opera e il suo pubblico nella modernità è stato probabilmente Richard Wagner. Lo ha fatto come compositore, librettista, poeta, regista e ideologo. Ma lo ha fatto alla fine dell’Ottocento, prima che esistesse il cinema. Anzi, c’è chi ritiene che Wagner con certe sue intuizioni registiche – come per esempio l’uso del buio e un certo modo di inquadrare la scena come in una finestra – abbia in qualche modo anticipato il cinema. Di sicuro la sua scrittura musicale ha influenzato le colonne sonore: se siamo abituati al concetto di un leitmotiv che accompagna determinati personaggi o determinate situazioni all’interno di un film è perché ci aveva già pensato Wagner nelle sue opere. 

“L’opera lirica è una forma d’arte destinata all’estinzione? Il futuro dei teatri d’opera è segnato? Devono soccombere e trasformarsi in attrazioni per turisti?”

Cinema e lirica sono stati da sempre vasi comunicanti un po’ riluttanti. Troppo spesso l’opera è stata usata come semplice sfondo o come serbatoio di archetipi, se non di stereotipi. Sono pochi i registi cinematografici che hanno davvero amato la lirica e l’hanno saputa traghettare nell’immaginario cinematografico. Vengono in mente  i soliti grandi nomi: Joseph Losey e Luchino Visconti, che non a caso erano prima uomini di teatro e poi di cinema, e alcuni film come la Carmen politica di Francesco Rosi del 1984 o il Flauto magico di Ingmar Bergman del 1975.

Guardando The Opera! Arie per un eclissi, l’ambizioso opera-musical diretto da Davide Livermore e Paolo Cucco (al cinema il 20, 21 e 22 gennaio), si capisce che è un film che parte da un grande amore per il teatro e per la lirica. La sua lodevole intenzione è quella di raccontare l’incanto dell’opera a un pubblico diverso da quello degli abituali frequentatori dei teatri. The Opera! prende il mito originario del teatro lirico, la favola di Orfeo, e lo trasforma in un musical sfavillante, ipertecnologico e ipersentimentale. I numeri musicali sono quasi tutti tratti dalla grande tradizione del melodramma: ci sono Verdi, Rossini, Gluck, Bellini, Händel, Vivaldi e tanto, tantissimo Puccini. The Opera! È una sorta di centone di arie, duetti e concertati che, intelligentemente interpolati a scene recitate, raccontano quella grande storia di amore e morte che è l’archetipo di tutta l’opera lirica: il viaggio negli Inferi di Orfeo per riportare in vita la sua Euridice. Accanto a due impeccabili protagonisti (il tenore Valentino Buzza e il soprano Mariam Battistelli) vediamo un eclettico e bizzarro cast di star: Vincent Cassel è Caronte, un’altera e maliziosa Fanny Ardant è Proserpina, Caterina Murino è una concierge di hotel un po’ dominatrix e Rossy De Palma è semplicemente Rossy De Palma che fa Atropo, la parca che taglia il filo della vita degli uomini. Ci sono anche lo stesso Livermore nel ruolo del padre di Orfeo e Angela Finocchiaro nel ruolo della madre, che compaiono in una sorta di rêverie freudiana di cui forse il film poteva fare a meno.

La prima aria che sentiamo, quasi un prologo, è una delle più emblematiche del bel canto ottocentesco, Ah, non credea mirarti dalla Sonnambula di Vincenzo Bellini. Sentiamo questo canto soave e malinconico che parla di un amore appassito come un fiore reciso, mentre sullo schermo scorrono convulse le immagini di una sparatoria in un supermercato. C’è del sangue per terra, una donna viene portata via in fin di vita. Dall’iperrealismo di una tragedia che sembra ripresa da un cellulare, passiamo al piano della finzione, del teatro: siamo in una delle metafisiche piazze d’Italia dipinte da Giorgio de Chirico: in una luce soffusa e surreale due bellissimi giovani (Orfeo e Euridice) si stanno sposando: una pallottola, lentissima ma inesorabile come nei film di Tarantino, entra nel cuore di Euridice, uccidendola. È l’inizio del viaggio di Orfeo che, armato solo del suo canto, si ritroverà all’ingresso dell’Averno che altro non è che un grande hotel di lusso all’apparenza deserto. 

Le cose più riuscite del film sono certe trovate del Livermore regista teatrale: una fra tutte, la reinvenzione del ruolo della messaggera che dà a Orfeo la ferale notizia della morte di Euridice. Nell’Orfeo di Monteverdi è un momento di sublime teatro barocco: noi non vediamo il serpente che morde Euridice uccidendola, ma scorgiamo arrivare da lontano la ninfa Silvia e sappiamo già che non ci dirà nulla di buono: “la tua diletta sposa è morta”, sussurrerà in uno dei recitativi più indimenticabili della storia del teatro musicale. Nel film la messaggera è solo un telefono, un Ericofon Cobra degli anni cinquanta. Orfeo, già circondato dalle tenebre, lo solleva e la notizia lo raggiunge da lontano. Torna in mente la telefonata di Twin Peaks in cui la madre di Laura Palmer viene a sapere del ritrovamento del corpo della figlia. 

Livermore conosce il teatro d’opera e ci sa giocare con intelligenza: è il suo lavoro e lo sa fare bene. Purtroppo è il cinema che latita, divorato da un invadente e a tratti scriteriato uso della CGI. I cortocircuiti tra teatro ed estetica pop, che dovrebbero essere l’anima dell’intera operazione, non vanno molto più lontano di tante cose già fatte da Baz Luhrmann quasi trent’anni fa con Romeo+Giulietta e Moulin Rouge. Con la differenza che Luhrmann era molto più sintonizzato con la contemporaneità di quanto lo siano Livermore e Cucco. Le citazioni sono tante e sono suggestive, anche se non aggiornatissime: il tram che pattina sull’acqua guidato da Caronte sembra uscire dalla Città incantata di Miyazaki e Mariam Battistelli (Euridice) viene vestita dai costumisti Dolce e Gabbana in modo da ricordarci un’altra anima dell’Ade, la Whitney Houston della fine degli anni Novanta. Ed è una divertente capriola autoreferenziale, perché a vestire Whitney in quel periodo erano proprio loro. 

Gli attori, anche Vincent Cassel e Fanny Ardant, sembrano ritagliati e incollati su uno sfondo, come degli sticker di Instagram. È buffo il battibecco tra Fanny Ardant e Rossy De Palma su quale sia il modo corretto di pronunciare Vivaldi ma è solo una delle tante parentesi camp che affollano questo film-patchwork, a tratti anche divertente, che però arranca, privo di una direzione precisa. 

La scelta dei numeri musicali è volutamente inclusiva, se non nazionalpopolare: si sente tanto Puccini (brani notissimi di Bohème, Tosca, Madama Butterfly e ovviamente Nessun dorma da Turandot, forse la pagina operistica più abusata in ambito pop e crossover), un po’ di Verdi (il duetto di Violetta e Alfredo dalla Traviata e La donna è mobile dal Rigoletto per accompagnare una scena orgiastica che sembra, in minore, uno di quei video con le top model del George Michael primi anni Novanta), lo scintillante concertato dall’Italiana in Algeri di Rossini (Nella testa ho un campanello) e, obbligatoriamente, Che farò senza Euridice dall’Orfeo di Gluck. C’è un pizzico di Carmen (naturalmente in salsa flamenca) e un riuscito tocco di verismo (Son lo spirito che nega dal Mefistofele di Boito). A ogni aria, duetto o numero d’insieme corrisponde una scena più o meno onirica e i registi fanno un buon lavoro drammaturgico nel legare insieme materiale così diverso. C’è anche una movimentata aria di Vivaldi (Siam navi all’onde algenti), forse la scelta musicale più genuinamente assurda e sorprendente del film, che sentiamo mentre Orfeo, nel suo peregrinare nell’Ade, finisce dentro una lavatrice e rischia di annegare. 

“Livermore conosce il teatro d’opera e ci sa giocare con intelligenza: è il suo lavoro e lo sa fare bene. Purtroppo è il cinema che latita, divorato da un invadente e a tratti scriteriato uso della CGI”.

È chiaro, arrivati ai titoli di coda, che The Opera! nasce da un sincero amore per il teatro a cui non corrisponde un altrettanto sincero amore per il pop. I richiami alla musica popolare sono quasi inesistenti e quando si manifestano sono vecchi di quarant’anni: il problema di The power of love dei Frankie goes to Hollywood, una power ballad del 1984 trasformata qui in un duetto d’opera, non è certo il kitsch, ma è la decrepitezza di un riferimento pop che solo un ultracinquantenne può apprezzare. Stupisce come dall’estetica del film manchino l’hip hop, la trap, l’Edm, il k-pop, ovvero i generi che innervano l’esperienza musicale del pubblico più giovane che il film forse aspira a intercettare. Se l’obiettivo era avvicinare nuove generazioni al teatro d’opera penso che il bersaglio sia stato clamorosamente mancato, come spesso accade quando si tentano operazioni di questo tipo. The Opera! Arie per un’eclissi non aggiunge granché al dibattito sulla sopravvivenza dell’opera lirica nell’ecosistema culturale di oggi e aggiunge poco anche alla dialettica tra opera e cinema: quando funziona è un divertissement grazioso per chi l’opera già la conosce, quando non funziona annega nella CGI fino a sembrare l’interminabile trailer di un videogioco. Purtroppo buone intenzioni e intelligenza teatrale non bastano a far decollare un film che non sa bene a chi debba parlare.  

Daniele Cassandro

Daniele Cassandro è giornalista di «Internazionale» e collabora con diverse testate. Il suo ultimo libro è Dischi volanti (Curci, 2024).

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