Il limbo dei migranti a Trieste - Lucy sulla cultura
articolo

Chiara Zampiva

Il limbo dei migranti a Trieste

20 Ottobre 2025

Il capoluogo friulano, città di confine e approdo dalla rotta balcanica, vive una crisi d’accoglienza sempre più urgente. A cui ora si sta provando a far fronte, con fatica.

“Ho due dolori nel cuore: i sette mesi di cammino da quando ho lasciato l’Afghanistan e i cinque mesi di attesa del permesso di soggiorno a Trieste”. Occhi scuri e vivaci, Karim (nome di fantasia), è nato 27 anni fa nella “verde Baghlan”, una fertile città nel nord dell’Afghanistan. Lo racconta in un pomeriggio di metà agosto, indicando le chiome verdeggianti degli alberi che perimetrano Piazza della Libertà, davanti alla stazione centrale e a pochi passi dal porto. 

Karim è uno degli oltre cento richiedenti asilo in attesa di accedere alle misure di accoglienza previste dalla legge e tutelate dal diritto europeo. Abbandonati dalle istituzioni nazionali e invisi alle autorità locali, molti di loro sono costretti a vivere per strada, esposti a condizioni atmosferiche estreme. In un contesto di privazione dei diritti fondamentali e di disfunzione strutturale, sono le associazioni, in particolare il Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS), Linea d’Ombra, Caritas, ResQ, No Name Kitchen, “Fornelli resistenti”, a farsi carico dell’intero processo di assistenza e accoglienza.

“Sono partito da solo dall’Afghanistan e ho attraversato Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria e Slovenia”, racconta Karim, “tutto a piedi”. Come lui, molti migranti che arrivano a Trieste hanno alle spalle un viaggio durato mesi, spesso di cammino, lungo i diversi percorsi che prendono comunemente il nome di “rotta balcanica”. Da gennaio a maggio 2025, International Rescue Committee (IRC) e Diaconia Valdese hanno registrato tremila nuove persone sul territorio, mentre nel 2024 gli ingressi hanno superato i 13mila. Di essi, circa il 25 per cento sono minori non accompagnati. Il 90 per cento degli adulti è costituito da uomini, perlopiù di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Quella afghana è la nazionalità dominante per numero di arrivi, seguita da persone provenienti principalmente da Bangladesh, Nepal, Pakistan, Kurdistan turco, Turchia, Siria.

Un flusso contenuto, ma costante, trascurato dalle istituzioni. Il ministero dell’Interno non pubblica i dati specifici degli arrivi via terra dalla rotta balcanica, ma tiene traccia del totale degli ingressi irregolari in Italia senza distinguere quelli dalle rotte del Mediterraneo centrale e orientale da quelli dei Balcani occidentali. In più, stando ai rapporti ufficiali di Frontex, nel 2024 si è registrato un calo del 78 per cento del numero di migranti provenienti dalla rotta balcanica in Europa. Stima che viene smentita e ridimensionata dai dati raccolti dalle associazioni locali, che riportano una riduzione del 16,4 per cento. Questa discrepanza indica che non sono gli arrivi a essere diminuiti drasticamente, ma che i migranti sono difficilmente tracciabili e ciò è dovuto principalmente all’organizzazione più strutturata dei trafficanti lungo la rotta, che rende più difficili i controlli.

In una città di frontiera come Trieste manca un piano che preveda una strategia adeguata per gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo. E ogni estate, periodo più critico a causa del picco di presenze, si ripresentano sempre le stesse problematiche che, allargando il campo, si traducono in una vera e propria crisi umanitaria. “Non far trovare nessuna forma di accoglienza e nessun tipo di assistenza al loro arrivo sembra un obiettivo voluto, per spingerli ad andarsene il prima possibile. L’accesso al sistema di accoglienza, però, resta un diritto”. Lo sostiene fermamente Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS), associazione che offre tutela legale e servizi di accoglienza. Secondo la direttiva 2013/33/UE, Art. 17, “Gli Stati membri provvedono a che i richiedenti abbiano accesso alle condizioni materiali d’accoglienza nel momento in cui manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale”. 

“Ogni giorno mi presento davanti alla Questura e prego che scelgano me per prendere le mie impronte digitali. Quando otterrò il documento sarà il giorno più bello della mia vita”. Omar, nome di fantasia, lo dice sottovoce, in inglese. Afghano, 26 anni, ha lasciato Kabul con la sua famiglia subito dopo la presa di potere dei talebani. Ora sono separati: i genitori vivono in Pakistan e lui e i suoi quattro fratelli sono partiti alla ricerca di un futuro in Europa. Omar è arrivato a Trieste da un mese e come Karim sta aspettando di formalizzare la richiesta di asilo, compresa la procedura di identificazione, ma i tempi di attesa arrivano a superare i 20 giorni e gli appuntamenti vengono spesso rinviati. 

“‘Ogni giorno mi presento davanti alla Questura e prego che scelgano me per prendere le mie impronte digitali. Quando otterrò il documento sarà il giorno più bello della mia vita.ߴ”

In questo periodo di limbo le persone restano escluse da ogni servizio e senza una sistemazione, dal momento che sia le due strutture di prima accoglienza presenti sul territorio, Casa Malala e ostello “Alpe Adria” di Campo Sacro, che i dormitori messi a disposizione da ICS e Caritas non hanno un numero di posti sufficiente a coprire la richiesta. Così l’alternativa è trovare riparo nell’androne d’ingresso del Porto Vecchio, che ha sostituito il ruolo del Silos dopo la chiusura a giugno 2024. Uno spazio esposto, però, alle intemperie. Soprattutto in autunno. A inizio settembre un nubifragio ha causato allagamenti e disagi in tutto il capoluogo. Per i migranti è stata una tragedia. Colti di sorpresa, sono stati costretti a fuggire e cercare riparo nelle strutture delle associazioni o in chiesa. Molti di loro hanno perso i documenti, difficili da ottenere, nell’acqua e nel fango. 

A ciò si somma l’atteggiamento ostile delle autorità triestine: le forze dell’ordine continuano a condurre sistematiche operazioni di sgombero dell’area. “Non dormi se stai qui, perché hai sempre paura che arrivi la polizia a urlare ‘Via!’ Preferisco dormire seduto vicino al mare”, afferma beffardamente Deniz, ancora nome di fantasia, rannicchiandosi per spiegarsi meglio. Diciannovenne turco, fin troppo sveglio per la sua età, è lontano dalla sua famiglia da ormai otto anni. 

Nella nota diffusa da Linea d’Ombra, organizzazione di volontariato, si legge che “è in atto una vera e propria persecuzione dei migranti”. “È iniziata il 22 luglio con un’assurda operazione di polizia di 60 carabinieri, fatti arrivare in parte dall’Emilia-Romagna, con cani antidroga, conclusasi con una ventina di denunce per occupazione di suolo pubblico” continua il comunicato. Il 12 agosto, poi, è stata attuata un’azione di sgombero particolarmente aggressiva: all’alba la polizia locale e agenti della Questura si sono presentati nella zona del porto e hanno intimato ai migranti di andarsene, senza lasciar loro il tempo di prendere beni personali, sacchi a pelo, coperte. Tutti oggetti che sono stati poi rimossi da tre camion della nettezza urbana e gettati in nome del decoro urbano. “Questa non è vita”, dice scuotendo il capo Deniz. 

Il limbo dei migranti a Trieste -

L’intero sistema di accoglienza, tuttavia, è in continuo movimento. “Salvo chi non venga assorbito dalla rete territoriale, per chi trova ospitalità nei centri di accoglienza si tratta di una permanenza breve prima di essere trasferiti fuori Trieste”, afferma Schiavone (ICS). E questo è ciò che spiega Maddalena Avon, operatrice legale di ICS, ai migranti radunati in Piazza della Libertà dopo che il Prefetto ha disposto un trasferimento di circa 60 persone in Abruzzo. Aspettano con impazienza che venga letta la lista di coloro che partiranno e di chi, di conseguenza, avrà la possibilità di prendere i posti liberati a Campo Sacro. “Basterebbe fare più di un trasferimento a settimana per azzerare il numero delle persone che restano in strada”, aggiunge Avon. 

“Circa il 70 per cento dei migranti è trasferito in Sardegna, in centri di accoglienza dove le condizioni di vita sono disumane” dichiara Avon. “La scelta della destinazione denota un’ulteriore, sottile, crudeltà da parte delle istituzioni, che decidono di mandarli lontano. Come se questo potesse fermare gli arrivi” dichiara Luciano Scalettari, presidente di ResQ, “ma chi ha alle spalle un viaggio simile ormai non torna indietro”. In più, chi rifiuta il trasferimento perde il diritto all’accoglienza. 

Nei mesi estivi la prassi ha subito un rallentamento, costringendo oltre 200 persone a vivere in strada. E al lieve miglioramento dei numeri a partire da settembre non ha corrisposto l’attuazione di una strategia nazionale realmente efficace. Anche la grande operazione di trasferimento disposta dalla Prefettura di Trieste il 1° ottobre, che ha coinvolto più di 150 persone tra uomini e famiglie, ha dimostrato come tali misure di emergenza si limitino a rincorrere situazioni che poi si ricreano già dal giorno successivo, senza risolverle.  

“‘Non far trovare nessuna forma di accoglienza e nessun tipo di assistenza al loro arrivo sembra un obiettivo voluto, per spingerli ad andarsene il prima possibile.ߴ”

Trieste, spesso designata in maniera fuorviante come la tappa finale del percorso migratorio attraverso i Balcani, per la maggior parte dei migranti non rappresenta la “fine”. Nel periodo estivo arrivano a Trieste circa una cinquantina di transitanti al giorno (non incidono nel conteggio delle presenze). “Restano qui solo per poche ore o una notte e prendono i primi treni della mattina”, riferisce Reyna, volontaria di No Name Kitchen, ong internazionale che opera il monitoraggio notturno e offre diverse forme di supporto. “Sono soprattutto ragazzi egiziani che partono per Milano e famiglie dirette in Germania, Belgio, Olanda”, continua. E anche una percentuale elevata dei richiedenti asilo se ne vuole andare. “Devo restare qui in attesa del permesso di soggiorno, ma non trovo lavoro. Sono stato costretto ad andare in Belgio due mesi per lavorare comunque in nero, ma con un buon stipendio”, confessa Karim. “Appena sarà possibile tornerò lì o a casa in Afghanistan”. 

A Trieste, i migranti hanno comunque trovato degli spazi di riferimento. Al centro diurno di via Udine, gestito dalla Comunità di San Martino al Campo in collaborazione con ICS, c’è un costante via vai di gente. Chi gioca a biliardino o a carte e chi, semplicemente, sa che passando troverà visi amici e un bicchiere di quel tè che, ormai, è diventato un rito. Da due anni i volontari di ResQ supportano le attività di assistenza e c’è anche un ambulatorio medico dove opera l’associazione Donk Humanitarian Medicine. Anche le panchine di piazza della Libertà sono sempre piene nei pomeriggi estivi. Dalle sette, la piazza inizia a popolarsi: ogni sera i volontari di Linea d’Ombra e di Fornelli Resistenti, aiutati da quelli che vengono dalle città e regioni vicine, distribuiscono un pasto caldo a tutti. “Il nostro è un atto politico, prima che umanitario”, ricorda Gian Andrea Franchi, fondatore dell’associazione insieme a Lorena Fornasir. Lei, nel frattempo, è intenta a prestare cure e ascolto a chi si mette in fila.

La notte arriva in fretta, mangiando in compagnia e scambiandosi delle battute. “Dov’è l’Abruzzo?”, si chiede intanto chi si prepara a lasciare quella piazza che conosce bene per un futuro ignoto.

Chiara Zampiva

Chiara Zampiva è una giornalista freelance.

newsletter

Le vite degli altri

Le vite degli altri è una newsletter che racconta di vite che non sono la nostra: vite straordinarie, bizzarre o comunque interessanti.

La scriviamo noi della redazione di Lucy e arriva nella tua mail la domenica, prima di pranzo o dopo il secondo caffè – dipende dalle tue abitudini.

Iscriviti

© Lucy 2025

art direction undesign

web design & development cosmo

sviluppo e sistema di abbonamenti Schiavone & Guga

lucy audio player

00:00

00:00