Nicola H. Cosentino
Anche stavolta le elezioni americane sono state indicatrici di un fatto culturale prima che politico: molte persone, nel mondo, sembrano essersi stufate delle teorie che insegnano a vivere (e vogliono vivere direttamente).
Donald Trump ha vinto le elezioni americane, e sarà presidente degli Stati Uniti per la seconda volta, dopo il mandato iniziato nel 2017 e terminato nel 2021. Al di là di quanto sia complicato e avventuroso il processo elettorale statunitense – la storia dei grandi elettori, i caucus, le “chiamate”, gli endorsement delle celebrità – e di quanto lo sia stato questo in particolare – fra l’attentato a Trump, il ritiro di Joe Biden, il subentro di Kamala Harris a campagna iniziata e il sostegno di Elon Musk al candidato repubblicano –, è utile considerare anche stavolta l’esito della corsa alla Casa Bianca come indicatore di un fatto culturale prima che politico: molte persone, nel mondo, sembrano essersi stufate della prudenza.
Per “prudenza” intendo non soltanto quell’insieme di consuetudini verbali, sociali e diplomatiche finora ritenute irrinunciabili per il corretto funzionamento della democrazia, ma anche la proliferazione di teorie, metodi e precetti che accompagna ogni aspetto della modernità, dalla crescita dei figli a quella personale, dalla nutrizione all’ecologia, dalla sessualità all’informatica, dalle emozioni al linguaggio. Per attutire l’effetto di quello che fino a poco tempo fa succedeva e basta ci sono oggi numerose regole e strategie adattative, formulate allo scopo di vivere bene gli uni con gli altri e anche con noi stessi, e risultare collettivamente più educati, più pacifici, più buoni; sani in un mondo sano.
Il problema è che molte di queste regole – sempre più numerose e sempre più stringenti – sono spesso percepite come settoriali o di categoria, e anziché unire e fortificare stanno, evidentemente, isolandoci e indebolendoci. Non soltanto a causa dell’incedere della Storia – il lavoro che manca, le guerre nel mondo (ad oggi, 56), l’economia e la sicurezza – ma anche e soprattutto perché, come tutte le regole, ci fanno sentire ignoranti e giudicati, soprattutto se non le abbiamo scritte noi, non ne siamo toccati per ragioni individuali o ci sembra non contribuiscano a un miglioramento del nostro stile di vita. Ma la conseguenza di questo “no” alle norme che garantiscono la prudenza – l’interesse per la sensibilità del prossimo, ad esempio – è che alcune cose non sono più sacre, non sono più gravi, non sono più importanti. E se niente importa, non c’è niente da salvare, come diceva la nonna di Jonathan Safran Foer.
“Ma la conseguenza di questo “no” alle norme che garantiscono la prudenza è che alcune cose non sono più sacre, non sono più gravi, non sono più importanti. E se niente importa, non c’è niente da salvare”.
Per quelli che scrivono (narratori, saggisti, giornalisti), e che quindi hanno l’ambizione e il compito di capire la realtà mentre si compie, di formularla un attimo prima che sia già chiara a chiunque, il Trump-politico è sempre stato un eccellente anticipatore. Ma un anticipatore che il pensiero magico dei suoi oppositori ha spesso sottovalutato, soprattutto agli esordi. Basti pensare al fatto che la sua prima vittoria, nel novembre del 2016, rese popolare la parola “distopia”, fino a quel momento familiare solo fra gli editori e gli studiosi di filosofia e scienze sociali, e che all’indomani del suo insediamento, nel gennaio del 2017, le vendite di 1984 di George Orwell su Amazon incrementarono quasi del 10%. In tanti, in quei giorni, segnalarono alcune connessioni tra la “neolingua” presente nel romanzo e la dichiarazione di Kellyanne Conway, consigliera del Presidente, sul diritto di rivendicare gli “alternative facts”, ovvero dati alternativi alle verità comprovate da statistiche, media e giornali. (Era successo questo: il giorno dell’insediamento, al Lincoln Memorial, c’era palesemente meno gente di quanta ce ne fosse quattro o otto anni prima, quando a insediarsi alla Casa Bianca era stato Barack Obama; lo staff di Trump, invece di glissare, disse che si trattava di un dato opinabile, perché a loro risultava che quella poca gente fosse in realtà tanta). Fu un momento importante, in cui ci accorgemmo che il rispetto per la verità dei fatti cominciava a creparsi – e dentro la crepa, alcuni di noi videro un’opportunità, altri una minaccia, altri entrambe le cose.
“Per attutire l’effetto di quello che fino a poco tempo fa succedeva e basta ci sono oggi numerose regole e strategie adattative, formulate allo scopo di vivere bene gli uni con gli altri e anche con noi stessi, e risultare collettivamente più educati, più pacifici, più buoni; sani in un mondo sano”
Oggi, qualcosa di simile è successo, appunto, con la prudenza. Trump è un uomo gretto, volgare, bugiardo; ma la cosa sembra ferire sempre meno persone e di certo non stupisce più nessuno, neanche chi, fino a qualche anno fa, non riusciva a capacitarsi che il leader di un paese democratico, il più influente del mondo, potesse dire le parolacce, figuriamoci essere incriminato (per falsificazione di bilancio), mimare una fellatio col microfono o impostare buona parte di un comizio sulla grandezza di un pene (non il suo). Era già accaduto in Italia, con Berlusconi, in una forma che oggi appare prospetticamente meno pericolosa, quasi inoffensiva, giocosa, birbantesca. Ovviamente non fu così, ma il fatto che la superficialità strategica di alcuni leader ed ex leader occidentali (peraltro, come Berlusconi, tutti straricchi: Milei in Argentina, Bolsonaro in Brasile…) non stupisca più nessuno non si deve soltanto all’assuefazione, ma anche alla sensazione che la modernità si stia facendo troppo complicata, troppo svelta e sfuggente, troppo piena di tecniche di misurazione inutili e di informazioni impossibili da assorbire. Insomma, che stia stufando tutti, persino i progressisti (giacché il problema non è il progresso in sé, ovviamente, ma l’ansia di non essere in grado di affrontare la vita e lo scorrere del tempo senza quest’infinità di app, di corsi, di suggerimenti, di airbag psicologici e di opinioni manichee che l’Occidente – e sì, l’America soprattutto – ha inventato per attutire i colpi di un’esistenza già faticosissima per chiunque, da sempre).
In questi giorni sto leggendo un romanzo, si chiama Wellness. Lo ha scritto Nathan Hill, e in Italia è stato pubblicato da Rizzoli, nella traduzione di Alberto Cristofori. Wellness parla di una coppia americana che fa di tutto per stare bene: lui, Jack, acquista un braccialetto iper-tecnologico che gli dà costanti suggerimenti su come affrontare la vita, e che potrebbe persino indicargli quante spinte dare durante un rapporto sessuale (in base alla registrazione “dei decibel dei cigolii del letto e di quelle che chiamava ‘vocalizzazioni copulatorie femminili’”); lei, Elizabeth, è affascinata dal “pensiero positivo”, e in una scena prova a educare il figlio, inseparabile dai videogiochi, alla pazienza, ispirandosi a una complicata teoria psicologica che lei stessa è incapace di mettere in pratica pazientemente, appunto, e serenamente.
La coppia di Wellness è la perfetta caricatura di quello che forse sta succedendo a gran parte dell’Occidente: una stanchezza di sé dovuta all’eccesso di attenzione al sé. Un continuo prendere la rincorsa senza correre mai. In questi due individui che si rovinano la vita nel tentativo di migliorarla, e che, privi dei molti schemi che li tutelano dalla sofferenza, sarebbero paradossalmente più felici e sicuramente più autentici, ci sono tutti gli elementi che contribuiscono a rendere il mondo reale sempre meno reale. E che decretano, di conseguenza, lo straordinario successo della grettezza e della spregiudicatezza, scambiate per ultime garanzie di sincerità.
“La coppia di Wellness è la perfetta caricatura di quello che forse sta succedendo a gran parte dell’Occidente: una stanchezza di sé dovuta all’eccesso di attenzione al sé”.
Vorrei citare un passaggio da Wellness per essere più chiaro, ma anche l’autore del romanzo è affetto dalla malattia di Jack ed Elizabeth, questa intellettualizzazione che complica e rallenta ogni cosa (le prime duecento pagine, pur molto belle, sono perlopiù composte da elenchi e descrizioni). Quindi, visto che in pochi stanno scrivendo sugli Stati Uniti qualcosa che non abbia già scritto Philip Roth, citerò lui: “Tre generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato. Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate dell’America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione del loro mondo”.
Curioso che questa vandalizzazione stia passando anche dalle strategie che elaboriamo per evitare di soffrire.
Nicola H. Cosentino
Nicola H. Cosentino è scrittore, critico letterario e editor di Lucy. Collabora con «La Lettura». Il suo ultimo romanzo è Le tracce fantasma (Minimum Fax, 2022).
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