Verrà la morte e sarà una hit - Lucy
articolo

Daniele Cassandro

Verrà la morte e sarà una hit

Se ascoltate con attenzione, le hit estive, dietro al ritmo seducente e orecchiabile, parlano di morte, un destino che ci accomuna tutti. E se fosse questo il segreto del loro successo?

La spensieratezza dei tormentoni estivi è il più insidioso dei luoghi comuni. Dietro ai finti balli sudamericani, ai long drink con l’ombrellino, ai featuring senza senso e alle rime baciate si nasconde una verità oscura: le hit dell’estate funzionano e rimangono impresse nel nostro immaginario perché parlano dello scorrere del tempo. Celebrando l’estate evocano implicitamente anche la sua fine e il ritorno dell’inverno, la conclusione di un ciclo. E quindi, per estensione, parlano tutte della morte: della nostra e di quella di tutte le persone che abbiamo amato e che ameremo in futuro. 

Come cantavano i Flaming Lips in Do you realize?? (una delle più belle canzoni di questo secolo): “Lo capisci che tutti quelli che conosci un giorno moriranno?”. Le belle canzoni estive, quelle davvero indimenticabili, dietro la loro patina di allegria, anche zuccherosa, anche demenziale e spesso kitsch, ci dicono sempre la stessa cosa: la vita scivola via e con lei le estati che ricordiamo e quelle che il fato ancora ci accorderà. La canzone estiva è un buco nero da cui la luce non passa più: è la forma d’arte pop più nichilista perché si consuma in un qui e ora che non prevede domani; solo l’inarrestabile ciclo pagano di morte e rigenerazione.

Ecco dunque una playlist di tormentoni estivi di varie epoche per riflettere sulla caducità della vita umana mentre sorseggiate una Piña Colada.

The Beach Boys, The Warmth of the Sun (1964)

I Beach Boys hanno inventato l’estate. Hanno sintetizzato in laboratorio l’idea platonica di vacanza: surfisti biondi circondati da ragazze bellissime anche loro bionde, pelle baciata dal sole, birre ghiacciate e melodie dolcissime: il sogno del pop californiano. The Warmth of the Sun non è la loro canzone più nota ma è la hit estiva perfetta perché già nell’attacco parla del ciclo cosmico della notte e del giorno (“A cosa servono l’alba che poi diventa giorno o il tramonto che diventa notte?”). L’io narrante della canzone è stato lasciato ma l’amore della sua ragazza è il calore del sole che sente dentro di sé anche quando cala il buio. “Non morirà mai” dice alla fine del pezzo ma lo fa più che altro per convincersi: noi che ascoltiamo sappiamo benissimo che il suo amore è già uno zombie. Questa canzone è stata scritta da Brian Wilson e da Mike Love in poche ore il 22 novembre del 1963, il giorno dell’uccisione, a Dallas, del presidente John Fitzgerald Kennedy.  

Bobby Hebb, Sunny (1966)

All’apparenza è una delle più luminose e ottimiste canzoni estive mai scritte e mai cantate: “Ieri la mia vita era piena di pioggia e oggi mi hai sorriso e hai calmato il mio dolore”. Bobby Hebb ha scritto questa perla in equilibrio tra pop e rhythm ’n’ blues poco dopo la morte del fratello Harold, ammazzato a coltellate fuori da un bar di Nashville. Bobby e Harold Hebb, fin da bambini, erano un duo canoro e questa canzone che insiste sull’alternanza tra luce e tenebre è in realtà una canzone sul lutto e sulla mancanza. È molto ben camuffata ma leggete tra le righe: “Grazie per l’amore che mi hai fatto arrivare, mi hai dato tutto…”. Sunny è un addio cantato con un sorriso rivolto al sole. Se ascoltate la versione di Dusty Springfield (incisa nel Regno Unito sempre nel 1966) si capisce ancora meglio: Dusty era un maestra nel tingere di soffusa tristezza tutto quello che toccava e con Sunny ha avuto gioco facile. Nonostante l’arrangiamento tutto fiati e swing, Springfield riesce a restituire la natura malinconica e profondamente filosofica di questa memorabile hit estiva e lo fa andando di corsa e anticipando sempre un po’ il beat, come se avesse fretta di finire per non crollare davanti a tutti. 

Joni Mitchell, The Hissing of Summer Lawns, 1974

Questa non è una hit pop in senso stretto ma è la canzone che meglio di ogni altra descrive il vuoto, la noia e il nulla di certe estati: un oblio dentro cui può essere bellissimo e fatale lasciarsi scivolare. “Il sibilo dei prati d’estate” potrebbe far pensare al serpente nascosto nell’erba pronto a mordere il piede di Euridice spedendola dritta nell’Ade. E in effetti nella copertina dell’album omonimo di Joni Mitchell vediamo un enorme pitone trasportato nel verde da un gruppo di persone. In realtà questo serpente non esiste e il sibilo che sente Euridice è solo il sistema di irrigazione della lussuosa casa californiana in cui è murata viva, bellissima e annoiata, una “kept woman”, una donna mantenuta nel lusso con la sola compagnia della sua inutile bellezza e di un “salotto Chippendale su cui non siederà mai nessuno”. Nel silenzio, la protagonista della canzone sente il ronzio di una mosca e percepisce un’onda di calore bruciare nella voce del suo padrone. Sul finire della canzone tutta quella luce estiva diventa oscurità, buio, una dissolvenza verso il nero. 

Verrà la morte e sarà una hit -

John Travolta e Olivia Newton John, Summer Nights (da Grease, 1978)

Grease, il film musicale del 1978 con John Travolta e Olivia Newton-John, è stata l’iniziazione all’amore estivo per la silenziosa, volubile e inafferrabile Generazione X, una generazione che non è mai stata troppo brava a esprimere i sentimenti. Non a caso Grease si svolge in un passato idealizzato e kitsch, lontanissimo dal presente di ragazzini cresciuti con il terrore dell’apocalisse nucleare e di divorzi alla Kramer contro Kramer. E funzionava proprio per quella distanza ironica che metteva tutto tra virgolette. Grease era un mondo a parte, finto come un cartoon, e Summer nights, il duetto tra Danny e Sandy, era la copia plasticosa di una hit estiva dei primi anni Sessanta. Apparentemente, negli arrangiamenti vocali, è un pezzo doo-wop ma, come tutti gli altri numeri musicali di Grease, ha l’ossatura e il nitore del pop radiofonico contemporaneo. Summer Nights parla del valore trasformativo dell’estate: vai in vacanza che sei ancora un bambino ma torni a scuola a settembre che sei un altro. O un’altra. In pochi pezzi è dimostrata con più efficacia la teoria di Judith Butler secondo cui “gender is a performance”: Sandy e Danny si conoscono in vacanza e s’innamorano. Quando tornano sono cambiati, sono “grandi” e con gli amici mettono in scena la loro “performance di genere”: Sandy è femmina e canta l’amore romantico, Danny è maschio e si vanta della sua conquista sessuale. Quando le loro voci armonizzano e cantano insieme però dicono la stessa cosa: quelle notti d’estate hanno cancellato la loro infanzia e l’innocenza che li rendeva eterni; ora sono anche loro intrappolati nella ruota del tempo e destinati, come tutti, a sposarsi, a riprodursi e a finire sotto terra. Summer nights con i suoi “Summer dreams ripped at the seams” (sogni d’estate strappati in mille pezzi) è una Liebestod wagneriana travestita da hit da jukebox.

“La canzone estiva è un buco nero da cui la luce non passa più: è la forma d’arte pop più nichilista perché si consuma in un qui e ora che non prevede domani”.

Bananarama, Cruel Summer, 1983

Prima di diventare delle superstar del pop patinato, le Bananarama erano delle party girls un po’ squatter e un po’ fattone da carnevale di Notting Hill. Cruel Summer, una hit estiva sulla ferocia dell’estate in una Londra thatcheriana arroventata e priva di prospettive, è una delle canzoni pop più segretamente politiche dei primi anni Ottanta. Ha qualcosa di caraibico, quel sapore di Cuba Libre tiepido e appiccicoso in un bicchierino di plastica, e qualcosa di new wave, una rabbia sorda da lumpenproletariat che vista da lontano sembra solo stupidità pop. Ascoltatela insieme alla canzone con lo stesso titolo di Taylor Swift (2023) in cui lei, ubriaca sul sedile posteriore di un macchinone con aria condizionata, si lascia andare alle sue ombelicali rêverie. È una delle mie canzoni preferite di Swift ma non venitemi a dire che gli anni Ottanta erano la “me decade” o il decennio del riflusso: in confronto a Taylor Swift le Bananarama sono i Clash di Sandinista! E infatti dei Clash erano amiche e sodali.

Alexia, Summer is Crazy, 1997

La provincia di La Spezia è nota per la bellezza di Portovenere e delle Cinque Terre e per il suo mare meraviglioso sovrastato, in lontananza, dal profilo arcigno delle Alpi Apuane. Oggi è terra di un overtourism selvaggio e scriteriato, ma è ancora una delle destinazioni più romantiche d’Italia. Non nel senso di Bacio Perugina o petali di rosa sparsi sul letto di un bnb pagato troppo; romantico nel senso di Sturm und Drang, di impeto, di follia – anche suicida. Qui Lord Byron nuotò per otto ore, sfidando i flutti, per raggiungere l’amico Shelley a Lerici. Alessia Aquilani (Alexia), stilista sopraffina della dance anni Novanta, viene dal golfo di La Spezia. E nella sua musica, che suona sciocca e commerciale solo alle orecchie più prosaiche e prive di fantasia, quel travolgente romanticismo si sente eccome. Summer is Crazy è drammatica fin dall’inizio, quando Alexia attacca, quasi a cappella, il primo verso: “La musica è la chiave per innamorarsi, la musica è la risposta del mondo, la musica è la forza per sopravvivere, quando mi sento giù”. Alexia ha due assi nella manica: primo, lo dice in inglese mettendo già un primo schermo tra lei e l’ascoltatore italiano. Secondo, lo canta con una voce potente e intonatissima da disco diva d’altri tempi. La voce di Alexia, una delle più sottovalutate del pop italiano, è la forza che traina questa canzone che di banale ha solo la superficie di hit estiva da calcinculo. Summer is crazy, se fosse un’aria d’opera, sarebbe una cavatina di delirio e di pazzia. La protagonista cerca di attaccarsi alla musica come a un relitto in mezzo alla tempesta ma a ogni ripresa del verso s’inabissa sempre di più in un gorgo di malinconia. A rendere così efficace il pezzo sono l’autorevolezza e il colore della voce di Alexia e la successione degli accordi. A un certo punto, sepolta nel mix, si sente anche una sirena, un luogo comune della house music di quegli anni, ma qui sembra un’emergenza vera, una richiesta d’aiuto. L’estate può davvero farci uscire pazzi e spingerci a  commettere qualcosa di estremo.

Paris Hilton, Stars Are Blind, 2006

Non esiste guilty pleasure, solo pleasure. E Stars Are Blind, il debutto discografico dell’ereditiera Paris Hilton è puro piacere, privo di senso di colpa. La canzone, un’esile pop-reggae dalla produzione immacolata, è il figlio millennial, viziato e imbronciato di The Tide is High dei Blondie. Dozzinale e costosissimo allo stesso tempo, è un Calippo allo champagne, semmai esistesse una cosa del genere. Alexis Petridis, il critico musicale del «The Guardian», la descrisse come “un reggaettino qualsiasi cantato con un tono da non-riagganciare-per-non-perdere-la-priorità-acquisita”. E ha perfettamente ragione: quello che non dice però è che quel vuoto pneumatico che è Stars Are Blind è la summer-hit perfetta. La summa del genere. La Cappella Sistina delle canzoncine estive. Per prima cosa Paris Hilton canta davvero: quel tono così piatto e annoiato in cui tutto è uno sbattimento insormontabile, anche solo farsi fare le unghie, è inimitabile. Secondo: Stars Are Blind è la canzone pop più autentica che sia mai stata realizzata perché rende evidente quello che il pop di solito cerca maldestramente di nascondere. Il talento è un optional ingombrante, l’originalità non esiste e i soldi possono comprare tutto, anche una vera hit. In Stars Are Blind Paris dice che sebbene gli dei siano pazzi e la fortuna cieca, lei potrebbe passare dieci secondi del suo preziosissimo tempo con te. Ma non è detto. Se siamo in grado di immaginare un futuro senza acqua e senza pace, magari su Marte, ma non non siamo in grado di immaginare un futuro senza capitalismo è anche grazie a canzoni estive come questa. Stars Are Blind non ha neanche bisogno di parlarci della nostra estinzione perché è già implicita nella cultura che l’ha creata e nel sistema che l’ha portata alle nostre orecchie. E Paris Hilton, la vacua socialite che vestiva tutta di rosa prima che Barbie ci facesse credere che quel colore fosse un simbolo di empowerment, ha la sola colpa di cantare le cose come stanno, senza risparmiarci nulla.  

Verrà la morte e sarà una hit -

Lana Del Rey, Summertime Sadness, 2012

Come i Beach Boys hanno inventato l’estate californiana, così Lana Del Rey ha reinventato, remixato e sintetizzato l’ennui hollywoodiano per un pubblico di millennial disorientati e malinconici. Summertime Sadness è il quarto singolo del suo album di debutto Born to Die ed è la canzone che ha fatto capire che come cantautrice faceva sul serio e non era solo una che bamboleggiava con l’estetica di Tumblr. “Kiss me hard before you go”, baciami forte prima che te ne vai, è uno degli incipit più fulminanti della storia del pop contemporaneo. La canzone, a differenza delle altre hit estive di cui abbiamo parlato fino a ora, non fa nulla per nascondersi: è una canzone sul suicidio, e come tutte le buone canzoni sul suicidio non parla del come o del perché ma accenna solo a una languida voglia di dissolversi e di scomparire per sempre. A rendere ancora più esplicito il testo è arrivato il video, una sorta di Mulholland Drive lo-fi fatto con brandelli sovraesposti di Vine ricuciti insieme. Lana e l’attrice Jamie King sono due “star crossed lovers” che, ricordando i bei momenti passati insieme, separatamente decidono di farla finita.

Summertime Sadness, soprattutto nel verso in cui dice “So che se me ne vado oggi muoio felice”, mi ricorda Seasons in the Sun, un riadattamento del 1973 di Le moribond di Jacques Brel che fu anche un numero uno natalizio del 1999 per una delle boyband con meno vergogna della storia della musica pop, i Westlife. Seasons in the Sun è la storia di un giovane malato che saluta i suoi cari chiudendo gli occhi per sempre circondato dalla bellezza e dalla luce dell’estate. Ovviamente le anime belle, giovani e romantiche muoiono sempre eroicamente d’estate.

La playlist Cruel Summer si ascolta qui.

Daniele Cassandro

Daniele Cassandro è giornalista di «Internazionale» e collabora con diverse testate.

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