Vicini di Gaza: la Palestina vista dalla Giordania - Lucy sulla cultura
articolo

Paola Mordiglia

Vicini di Gaza: la Palestina vista dalla Giordania

08 Luglio 2025

Nel regno hashemita, la cultura palestinese si intreccia a quella giordana. E viene raccontata con orgoglio, cautela e malinconia.

Al Centro culturale palestinese di Amman mi sono presentata forse con un vestito non appropriato, benché fosse a maniche lunghe e sotto al ginocchio, o forse dovevo insistere quando ho telefonato, ma nessuno rispondeva. O scrivere una mail. O avere alcune garanzie. Quando sei una giornalista freelance, interessata ai temi mediorientali ma non abbastanza esperta, curiosa di un Paese la cui popolazione è a maggioranza di origine palestinese, sedotta da una regina (di origini palestinesi) che lancia appelli per Gaza, e desiderosa di raccontare le contraddizioni di un paese piuttosto sconosciuto all’Occidente, forse è meglio presentarsi di persona, mi sono detta. In genere funziona, ma non questa volta ad Amman.

Il Centro culturale palestinese si trova in una delle 19 colline della città, in un quartiere di cemento armato, come molti nella capitale giordana, considerando che Amman ha avuto un’esplosione demografica all’inizio del XX secolo, dopo essere stata una città a lungo semi abbandonata. Salgo e scendo le alture metropolitane a bordo di un Uber, il conducente si dichiara palestinese, i genitori migrarono in Giordania nel 1967, dopo la guerra dei 6 giorni. Non ha idea di dove si trovi questo Centro culturale, e mi lancia occhiate dubbiose, mentre glielo chiedo, squadrandomi dallo specchietto retrovisore.

Per due dinari (due euro) percorriamo le strade polverose, clacsoniamo vecchi modelli di auto, sfioriamo donne velate in bilico su marciapiedi stretti. Anche se il Centro culturale sembra chiuso e l’uberista mi avvisa che quella a fianco è una moschea dove non posso entrare, suono fiduciosa il campanello, e attendo. Una giovane ragazza con l’hijab apre e mi chiede chi sono e cosa desidero. “Wait a moment”, e sparisce. Arriva un’altra ragazza e mi chiede chi sono e cosa voglio. Conoscere la storia di questo centro, chi siete e cosa fate per sostenere la cultura palestinese. “Wait a moment”. Sparisce e si presenta una terza signora, stavolta senza velo.

Il suo inglese è migliore ma il suo imbarazzo è grande (come se accogliere una sconosciuta, giornalista, occidentale, fosse un problema). Chiede che le scriva il mio nome e il mio cognome su un foglio, vuole il mio curriculum, il mio profilo Instagram, e, naturalmente, sapere per chi scrivo. Ci sediamo e le fornisco le informazioni richieste, tranne il cv, che le invierò in seguito. Studia il mio cognome, si consulta con una collega, torna da me. Non è un cognome ebraico, afferma. Bene, commenta.
Sospira e mi dice: “Mi scusi, ma la nostra organizzazione preferisce essere molto scrupolosa e prudente”.
Capisco, le chiedo se può raccontarmi del Centro, di chi ci lavora, di come operano. Acconsente.
Le chiedo se posso registrare. S’irrigidisce e mi dice: “Analizzeremo il suo profilo Instagram, leggeremo il suo curriculum vitae, ci informeremo su di lei, e in caso faremo un’intervista da remoto. Non sappiamo perché lei è qui, e non ci fidiamo più di nessuno. Mi perdoni, ma gli ebrei ci hanno rubato la terra, ci hanno rubato l’identità, non vogliamo ci rubino anche la cultura.” Mi saluta cordialmente, promettendomi che ci sentiremo.

Prima di andarmene, chiedo di poter vedere gli articoli che il Centro culturale produce e vende cesti, indumenti, braccialetti, tessuti. Compro una bellissima maglietta ricamata a mano, con la terra di Israele intessuta dei colori palestinesi. Non mi hanno mai richiamata.

Per raccontare se e quanto di palestinese c’è in Giordania, e quanto un paese così vicino a Israele possa assorbire l’identità di una popolazione di rifugiati, emigrati, sfollati dal territorio arabo israeliano, ho cercato persone e realtà che ne raccontassero la cultura, divulgando non soltanto la diaspora di emozioni e paure, ma anche un’identità forte, desiderosa di affermarsi. La prof.ssa Refqa Abu Remaileh, nata ad Amman da padre palestinese, oggi docente di studi Semitici e Arabi presso la Libera Università di Berlino, ha dedicato i propri studi all’identità palestinese, e ha raccolto in un atlante digitale in costruzione, la letteratura palestinese disseminata intorno al mondo dagli inizi del 1900 a oggi: si intitola Country of Words: A Transnational Atlas for Palestinian Literature.

La nostra conversazione mi ha sorpreso per la naturalezza con cui Refqa usa termini precisi, a volte ruvidi, per descrivere una realtà che va avanti da 77 anni.
“C’è molta Palestina in me, anche per ragioni ancestrali. Sono in parte anche originaria della Siria, un Paese che conosco e in cui ho trascorso del tempo durante l’infanzia, mentre non sono mai stata in Palestina. Perché come famiglia non siamo più stati autorizzati a tornarci, da quando mio padre, nato a Hebron e cresciuto nella città vecchia di Gerusalemme, è stato costretto all’esilio. La Palestina è diventata parte della mia identità più di recente. Molte persone in Giordania sono un mix di varie culture, come egiziana, irachena, siriana, ma credo che l’identità palestinese prevalga sulle altre”.

Refqa Abu Remaileh non può confermare quale percentuale della popolazione in Giordania sia palestinese — secondo alcune fonti, si tratterebbe della maggioranza — e mi ricorda che il governo del re Abdullah II di Giordania è l’unico in Medio Oriente a concedere la cittadinanza ai palestinesi. Il paradosso giordano si annida anche qui: per il governo è rischioso e delicato ammettere di avere una popolazione a maggioranza palestinese, essendo la Giordania un Paese che, almeno economicamente, si appoggia a Israele e agli Stati Uniti.

Il primo significativo esodo dalla Palestina alla Giordania ha avuto inizio dopo la guerra arabo israeliana del 1948, che vide fallire il tentativo dei Paesi arabi di riappropriarsi delle terre assegnate a Israele, dopo la seconda guerra mondiale.

“Da allora centinaia di migliaia di palestinesi si spostarono dalla Cisgiordania a est, oltre il fiume Giordano” mi ricorda Refqa. “In Giordania ci sono i rifugiati dalla Nakba nel 1948, ma anche della guerra nel 1967. In molti luoghi Israele ha deportato palestinesi in Giordania, li hanno brutalmente spinti fuori dai confini. La massiccia presenza palestinese ad Amman è dovuta ai figli e ai nipoti dei rifugiati, deportati o esiliati. La Giordania è diventata un luogo dove confluiscono molti espatriati principalmente provenienti da Palestina, Siria e Iraq, e questa diversità rischia di nascondere l’identità giordana. Il viavai di culture che caratterizza la Giordania la rende sia un luogo di transizione che di incontro tra famiglie di vari paesi, soprattutto tra famiglie palestinesi”.

Le migrazioni, gli esodi o, come puntualizza Refqa, le “deportazioni” hanno disintegrato anche il tessuto culturale palestinese. “C’è una diaspora anche nella letteratura, nello storytelling palestinese. Il nostro gruppo di ricerca ha fatto un lavoro di recupero delle penne e delle emozioni di quella Terra. Credo che il tema letterario sia legato alla politica, e serva ad aprire una finestra sul mondo. Perché c’è stata una diaspora nella cultura ma anche una diaspora della nazione”.

Secondo Refqa la vera domanda è come sia possibile avere una letteratura nazionale senza avere una nazione. E anche: “Com’erano i dibattiti, le discussioni, la gente, come si sono mossi, dove sono andati, come si sono uniti? Per rispondere a queste domande è stata concepita l’idea dell’atlante. Esistono moltissimi progetti digitali che riguardano la Palestina, e grazie a strumenti di mappatura si riescono a rappresentare una quantità di informazioni che non potrebbero mai essere racchiuse in nulla di fisico, non mi sarebbe stato possibile riportare le connessioni in un libro convenzionale, cartaceo.

Gli strumenti digitali mi hanno permesso di creare connessioni, mappando i percorsi che i palestinesi hanno dovuto forzatamente percorrere, cacciati dalla loro terra. Ho davvero voluto individuare una continuità, nonostante questa storia sia continuamente interrotta. Il mio focus è stato proprio nel mettere in risalto il ripetersi di certi fenomeni negativi, di dispersione o silenziamento.

C’è ancora molto da fare nelle terre occupate dai coloni, dove le voci palestinesi sono silenziate. E c’è molto da fare anche con la stampa e con i media, che devono capire quanto la voce palestinese venga messa a tacere. Anche il facchino dell’hotel, che parla un po’ italiano e lavora da 30 anni ad Amman, ricorda “la catastrofe”, Al Nakba in arabo. Ripete questa parola molte volte, mischiando frasi di cortesia a immagini ripescate nella memoria.

La sua famiglia viene dalla Cisgiordania, persa nella guerra dei 6 giorni, dal 5 al 10 giugno del 1967, quando altre centinaia di migliaia di palestinesi abbandonarono le loro case, o quel che ne restava, rifugiandosi nella terra dal deserto rosa.

Spe, il conducente di Uber che mi porta al Centro Darat al Funun, sopra Rainbow street, nel quartiere considerato più artistico della città, m’informa che, se fossi interessata a vedere i campi profughi, può portarmici lui: da Umm Kais, appena due ore di auto, precisamente dall’altopiano di Gadara, si vedono il fiume Giordano, le alture siriane del Golan, il monte Hermon, Il lago di Tiberiade e le pianure a nord della Palestina.

“Vuole andare?” Mi chiede

“Questa volta no”, rispondo.

Spe viene da Haifa, che, in linea d’aria si trova quasi di fronte a Umm Qais. Ha occhi scuri e capelli brizzolati, parla tanto e sorride molto, dondolando la testa come l’immaginetta di Saddam Hussein che penzola dal suo specchietto. Perché – gli chiedo – porta a spasso l’effigie del dittatore iracheno?
Mi risponde che alla morte di Saddam è andato proprio con questa macchina a cercarne i preziosi. Se sono interessata – aggiunge – può mostrarmi orologi d’oro, medaglie, anelli e altro, a un prezzo onesto.
“Non sono interessata”, rispondo. Pago i soliti due dinari e scendo a Nadim Al-Mallah st, numero 31.
Sul muro davanti a me: un bel ritratto di una bambina con il velo di kefiah, che guarda una colomba bianca. C’è anche una bicicletta, attaccata al muro accanto e sospesa in aria, del resto ci troviamo a Jabal al-Lweibdeh, il quartiere più alternativo della città.

Darat al Funun, Fondazione Khalid Shoman, a nord della capitale, è un centro per le arti: ha una biblioteca, una galleria, un laboratorio, un caffè e, nel complesso, l’aria cosmopolita. Alla base, vicino all’ingresso, sono state riportate alla luce le rovine di una chiesa bizantina del VI secolo. Gli edifici situati più in alto sulla collina, in gran parte restaurati, sono abitazioni costruite negli anni ’20. Fu in una di queste case che Thomas Edward Lawrence scrisse parte del libro autobiografico I sette pilastri della saggezza. Anche qui ho cercato di annunciarmi via mail, ma nessuno mi ha risposto. Salgo le scale, cercando ombra e qualcuno a cui presentarmi.

M’informano che una sala è chiusa, stanno allestendo una mostra, e che la direttrice è assente, ma se voglio possono aprirmi il laboratorio di architettura. Lo visito, imparando come quattro giovani architetti di Nablus immaginino e progettino una libreria nel mezzo del nulla, nella delicata zona di West bank, destinata nei loro disegni a trasformarsi in un luogo di ristoro e condivisione. Riflettendo sulla necessità di fare progetti in qualsiasi condizione, raggiungo la mostra “Under Fire”, al terzo piano della struttura, di fronte a una piccola oasi di verde, con la fontana e una statua di pregio che, dall’alto, scruta la città. 

“Under fire” è una mostra piccola ma importante, commovente, umana. Così recita la sua didascalia di presentazione. Quattro artisti di Gaza: Basel Al Maquosi, Majed Shala, Raed Issa e Sohail Salem hanno documentato la guerra ciascuno con il proprio tratto. Non hanno smesso di disegnare sotto il fuoco, lo hanno impresso su ciò che trovavano: quaderni dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) confezioni di medicinali degli aiuti umanitari, stoffe, rifiuti. Per colorare hanno utilizzato tè, carbone, karkadè, inchiostro di melograno. Qualche biro, almeno finché i rifornimenti potevano entrare nella Striscia di Gaza. Hanno disegnato opere che sono istantanee di paura: aerei, bombe, occhi bendati, distruzione, solitudine.

Alcune hanno titoli commoventi: “L’abbraccio di una madre è più grande di una tenda”. Altre raccontano piccoli slanci di speranza: “La bambina ha miracolosamente trovato la sua bambola tra le macerie”.C’è un quaderno dove ogni pagina racconta un’ingiustizia, un torto subito: lo sterminio. C’è una testimonianza: “Penso spesso alla nostra bella casa da cui si vedeva il mare”. Quando si pensa alla Striscia Gaza, o si vedono le immagini di quella distruzione, nessuno riesce a immaginarlo, il mare. Eccetto Donald Trump che fantastica di piantare gli ombrelloni su quella sabbia e godersi il tramonto. 

Secondo la Prof.ssa Refqa Al Ramaileh “la resistenza è cultura”.  Sembrano della stessa idea gli artisti che alloggiano alla Fondazione Sochair, (Shocair House for Culture and Heritage) una bellissima abitazione-galleria su modello siriano. La padrona di casa che mi accoglie è Fawz, la nipote del fondatore: Khalil Shocair. Provenienti da Damasco, i Sochair emigrarono negli anni ‘20 del Novecento ad Amman, fuggendo all’occupazione francese.

Numerosi, intellettuali, ricchi e generosi, i discendenti del baffuto ed elegante signore che troneggia nella prima sala, hanno mantenuto lo spirito artistico del nonno, trasformando la casa rifugio in casa per la cultura. Ogni stanza, illuminata da finestre incorniciate di verde acqua, ospita opere di artisti arabi, o africani. Sempre guidata da Fawz Shocair m’inoltro nelle stanze interne della struttura, alla scoperta di un patio con fontana – a Damasco sono tutti a cielo aperto – su cui affacciano varie stanze, ognuna occupata da un artista all’opera.

C’è il liutaio con i flauti arabi, ricavati da canne di bambù, suonato in tutta la penisola arabica: lo si vede spesso tra le mani dei pastori. C’è la paesaggista di Haifa, che ritrae i panorami dei suoi ricordi, l’artista giordano di opere con pittura acrilica, ingegnere in pensione, la giovane sarta che veste i rapper arabi, ma ammette che non è proprio lei, ma la titolare “che li conosce”.

L’erede Shocair, felice di aver condiviso con me la tradizione siriana contaminata di realtà giordana, a un certo punto mi guarda negli occhi e dichiara: “Noi siamo tutti rifugiati, anche io sono una rifugiata, ma perché improvvisamente vi interessa la nostra cultura?”.

Amman è una capitale giovane, molto popolata, per certi versi ambiziosa. I giordani a volte sembrano non accontentarsi di essere il serbatoio dei rifugiati limitrofi, il giovanissimo driver che mi porta a Petra, per esempio, parla un ottimo inglese che dice di aver imparato da youtube, studia informatica, è l’ottavo di dieci figli, lavora a tempo pieno e adesso studia lo spagnolo guardando La Casa de Papel. Gli chiedo se i suoi siano di origine palestinese, e mi risponde seccato: “No, siamo tutti giordani da generazioni”.

Percorrendo la King’s Highway, che collega Amman a Petra, penso alla ricchezza del Medioriente, a quando questa strada era percorsa da merci pregiate provenienti dall’Asia e dirette in Arabia. Penso al prestigio di Petra, crocevia di gemme e spezie, all’orgoglio dei Nabatei, splendente ancora negli occhi di alcuni beduini. 

“Amman è una capitale giovane, molto popolata, per certi versi ambiziosa. I giordani a volte sembrano non accontentarsi di essere il serbatoio dei rifugiati limitrofi, il giovanissimo driver che mi porta a Petra, per esempio, parla un ottimo inglese che dice di aver imparato da youtube”.

Le rovine dei castelli crociati, meta delle ambizioni papali, nell’XI secolo, sembrano scheletri avvolti da veli rosa, la sabbia del deserto che si alza dai canyon giordani. Sfioriamo il Monte Nebo, pensando a Mosè, e ci fermiamo in squallide aree di sosta dove le donne restano in auto, e uomini barbuti comprano acqua e conversano tra di loro. 

Quando arriviamo a Wadi Musa, l’altopiano poco prima Petra, il driver giordano alza il volume della radio per godersi una hit araba neo melodica, che dovrebbe aumentare l’emozione di essere in mezzo al canyon  cangiante che abbiamo davanti. 

“È tutto deserto qui?” Gli chiedo

“Molto deserto, molto spazio – mi risponde – ma è la nostra terra, vorremmo decidere noi chi la può abitare”. 

All’ingresso della città rosa di Petra sventola la bandiera giordana: nera bianca a verde, diversa da quella palestinese soltanto per una stellina a 7 punte che brilla nel triangolo rosso. È lo stesso triangolo che simboleggia la rivolta araba capeggiata da Lawrence d’Arabia, quella che nel 1916 fece sentire arabi perfino i beduini. 

Non più soltanto tribù, ma un popolo che vuole diventare nazione ed essere riconosciuto come tale. 

Paola Mordiglia

Paola Mordiglia è giornalista ed è stata autrice per diversi programmi televisivi tra cui “Blu Notte”, “Circus”, “Pinocchio”. Ha scritto anche un romanzo per l’infanzia: La cubista scomparsa (Disney Libri, 2001).

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