Nicola Lagioia
15 Luglio 2024
Il primo posto di Elena Ferrante nella classifica dei 100 migliori libri del secolo ha fatto scoppiare, in Italia, un putiferio di reazioni. Tra detrattori indignati e sostenitori che gioiscono a sproposito, abbiamo assistito alla manifestazione del tipico spirito italiano, intrappolato dentro logiche condominiali.
Ho l’impressione che la “scuola del risentimento” di cui parlava Harold Bloom sia diventata come “la linea della palma” di cui scriveva Leonardo Sciascia, solo che non scorre da sud verso nord ma da ovest verso est, dagli Stati Uniti in Europa, trovando in Italia la morte sua.
Qualche giorno fa il «New York Times» ha pubblicato la classifica dei 100 migliori libri del Ventunesimo secolo (titolo a ragione un po’ pomposo, sono ovviamente i primi 24 anni del secolo). Al primo posto c’è L’amica geniale. Elena Ferrante ha preceduto Philip Roth, Jonathan Franzen, Roberto Bolaño, Toni Morrison, Jon Fosse, W.G. Sebald e tutti gli scrittori e le scrittrici che in Italia vengono puntualmente portati a esempio per demolire la nostra letteratura (in nessun paese come in Italia si grida “facciamo schifo!” per procurarsi un orgasmo). Le classifiche sono sempre un gioco, ma certi giochi scoprono le carte: rivelano in questo caso la sofferenza di tanti italiani a cui sembra incredibile che a un connazionale (di successo e contemporaneo: combinazione letale) venga tributato un qualche onore, peggio se questo onore viene dall’estero, dove tutti devono essere più bravi di noi per non farci morire di dolore.
Diceva Leo Longanesi che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. Il nostro spirito è intrappolato dentro logiche condominiali (questo è Carmelo Bene) ed è forse il motivo (“il condominio che ci fa tanto feroci”) per cui mal sopportiamo le fortune del dirimpettaio, sentiamo che il successo altrui (se non oltreconfine) toglie spazio a noi, esattamente come quei condòmini che ci fanno sotto il naso l’abuso edilizio.
“A tanti italiani sembra incredibile che a un connazionale (di successo e contemporaneo: combinazione letale) venga tributato un qualche onore, peggio se questo onore viene dall’estero, dove tutti devono essere più bravi di noi”.
Non appena la notizia del «New York Times» si è diffusa, in Italia è scoppiato prevedibilmente un putiferio ben registrato sulla scala sismica dei social (presto scalzato però dall’attentato a Trump), tra i tanti che si strappavano le vesti (“Come? La Ferrante meglio di Roth? Meglio di McCarthy? Ma stiamo scherzando?”), e altri che gioivano, non di rado a sproposito.
Non è una storia nuova. Tutti oggi a celebrare Elsa Morante (non è più una condomina, è morta), ma bisognerebbe ricordare la tempesta di fiele che si abbatté su La storia quando uscì. Il nome della rosa fece soffrire tanti condòmini di Eco (i professori universitari), ma del resto gli stessi ex sodali di Eco del Gruppo 63 si scagliarono contro Bassani che, da morto, sopravvive oggi meglio di tanti loro.
Conoscendo l’infiammabilità dei miei connazionali su questi temi (io sono tra quelli che hanno amato L’amica geniale), ho fatto allora un piccolo esperimento. Ho scritto questo post su Facebook:
L’amica geniale di Elena Ferrante libro del secolo (ovviamente il primo quarto) per il «New York Times».
Più di Franzen, più di Roth, più di Bolaño, più di Munro, più di Ernaux, più di Sebald, più di Morrison e Robinson, tutte e tutti molto amati e giustamente in quella classifica (più della tradizione protestante, luterana, afroamericana, ebraica), valse l’intramontabile melodramma/commedia italiana, genere antico, nobile, popolare, profondamente mediterraneo, rinnovabile in mille modi. Felicità.
Le reazioni dei commentatori sono state interessanti. Interessanti le reazioni dei detrattori di Ferrante. Ma ancora più interessanti, mi sono sorpreso a verificare, quelle di molti sostenitori e sostenitrici.
È ovvio che i gusti letterari (e cinematografici, musicali ecc.) sono oltre una certa soglia insindacabili. Ci sta naturalmente considerare Roberto Bolaño, Donna Tartt, Toni Morrison o Alice Munro autori e autrici di libri più importanti de L’amica geniale. Quello che trovo rivelatorio, e inconcepibile, è ritenere invece che tra Elena Ferrante (sottotesto: qualunque italiano contemporaneo) e i grandi scrittori della nostra epoca non possa esserci partita, in assoluto, a priori.
Molti detrattori dicono: gli americani premiano Ferrante (presente in classifica anche con Storia della bambina perduta all’ottantesimo posto e I giorni dell’abbandono al novantaduesimo) perché fornisce loro una visione oleografica, falsa, facile e pittoresca dell’Italia, la solita pizza e mandolino che rassicura i lettori di New York, Chicago, Los Angeles, Boston. Benissimo, ma allora ne dovremmo dedurre (“Lo vedrete quanto vi costerà la logica”, Albert Camus, Caligola) che Roberto Bolaño fornisce agli americani una versione folkloristica del Messico, W.G. Sebald una versione commestibile dell’Europa centrale, Jon Fosse dell’Europa del Nord, Svetlana Aleksievič di quella dell’Est, e così via, quando noi invece in Italia (risentiti e non) celebriamo tranquillamente Aleksievič, Sebald, Bolaño e da poco anche Fosse come gli eroi di quest’epoca letteraria. Ve lo immaginate? In un universo parallelo c’è un folto gruppo di lettori, critici e addetti ai lavori, residenti tra Colonia, Monaco e Berlino, che ci implorano: “Italiani! Non ci cascate! W.G. Sebald è una patacca! È solo l’equivalente letterario dell’Oktoberfest!”.
“Quello che trovo rivelatorio, e inconcepibile, è ritenere che tra Elena Ferrante (sottotesto: qualunque italiano contemporaneo) e i grandi scrittori della nostra epoca non possa esserci partita, in assoluto, a priori”.
Scorrendo la classifica del «New York Times» (pochissimi gli scrittori non anglofoni) verrebbe da dire al contrario che gli statunitensi leggono come sempre troppo poca narrativa straniera, e che se la loro conoscenza del mondo esterno fosse un po’ più estesa allora quella classifica sarebbe diversa, più contaminata, varia, molteplice, polifonica, incline alla bibliodiversità. Mi verrebbe da dire, restando all’Italia (e qui sento già la sofferenza di molti miei condòmini) che Emanuele Trevi è uno scrittore più interessante di Ben Lerner (62° in classifica) o che Nicoletta Verna è una scrittrice più fresca di Zadie Smith. (La sento! La sento la sofferenza condominiale!)
Quelli però che mi hanno lasciato più basito non sono i detrattori di Ferrante, ma quei sostenitori e quelle sostenitrici che hanno scambiato il mio post per un messaggio denigratorio verso L’amica geniale. Motivo dello sconcerto: il fatto che io abbia tirato in ballo la commedia e il melodramma, qualifiche considerate (incredibilmente, almeno per me) offensive. Certo, L’amica geniale mescola diversi generi, usa il romanzo di formazione, il dramma, c’è il motivo dell’emancipazione femminile ecc., ma mentre il romanzo di formazione è prima europeo e poi italiano, un certo uso della commedia e del melodramma sono doni che l’Italia ha fatto all’Europa e poi al mondo, rendendoli universali, continuamente rinnovabili.
Il mio sospetto allora è che tanti estimatori di Ferrante seguano in fondo la stessa logica condominiale (lo stesso odio per se stessi, verrebbe da dire) dei detrattori più feroci, considerando scarso un genere, o una cifra, o un motivo estetico, solo perché italiano. “Ma la commedia di quel tipo è vecchia di 50 anni! Siamo ancora al neorealismo?”, dicono. Ma allora il western? E il noir? Perché Cormac McCarthy può ambientare un suo romanzo tra Ottocento e Novecento (l’epoca del western, nei luoghi tipici del western, con i cavalli tipici del western, e i bovini del western, i saloon del western e i vecchi sceriffi tipici del western), e Elena Ferrante non può ambientare il suo romanzo a Napoli tra i panni stesi del secondo dopoguerra? Ma che i generi valgono solo per gli altri?
“Il mio sospetto è che tanti estimatori di Ferrante seguano in fondo la stessa logica condominiale (lo stesso odio per se stessi, verrebbe da dire) dei detrattori più feroci, considerando scarso un genere, o una cifra, o un motivo estetico, solo perché italiano”.
Non mi sono arrischiato a citare il Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi di Giorgio Agamben (nottetempo), dove il filosofo spiega come la commedia riesca a sondare dell’animo umano profondità e motivi aerei quanto e a volte più della tragedia. Mi sono limitato a dire quanto i film di Mario Monicelli (oggi non più condomino anche lui) fossero a volte più belli (e certamente più liberi) di quelli di un altro gigante come Billy Wilder, ho ricordato come proprio la Elsa Morante de La storia abbia ridefinito il melodramma in maniera audace e sorprendente, ho continuato a battagliare, argomentare, approfondire, ma via via che rispondevo in modo appassionato ai messaggi indignati pro e contro Ferrante, mi sono sentito sempre più un battista da strapazzo, e ho rinunciato: vox clamantis in condominio.
Nicola Lagioia
Nicola Lagioia è scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e direttore editoriale di Lucy. Il suo ultimo libro è La città dei vivi (Einaudi, 2020).
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