Zuckerberg non ha mai creduto in niente - Lucy
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Davide Piacenza

Zuckerberg non ha mai creduto in niente

Nel 2021 Zuckerberg è stato il primo a bandire Trump da Meta dopo l'assalto a Capitol Hill. Ad oggi è un munifico donatore della causa trumpiana, a cui si è alleato senza indugi sostenendo di dover combattere per la "libertà di espressione".

In una delle scene più belle di  The Social Network, mentre buona parte del corpo studentesco di Harvard è a una sfarzosa festa di fine semestre, il Mark Zuckerberg di Jesse Eisenberg, alle prese con una delusione sentimentale nella penombra della sua dorm room, passa ore davanti al computer con una birra in bottiglia, tenacemente determinato a creare un sito per votare l’aspetto delle ragazze del campus. Quel sito, nella realtà e nella sua trasposizione filmica di David Fincher, andrà online quella stessa notte del 2003 col nome di  “FaceMash”: pescando dai database più e meno pubblici dell’ateneo, il giovane Zuckerberg aveva trovato un modo di far pagare a tutti (anzi, in questo caso a tutte) i costi dei suoi desideri di rivalsa e affermazione personale. Nei vent’anni trascorsi da allora non ha mai smesso di farlo, generando un modello di socializzazione delle perdite in cui a fare le spese della sua hybris sono sempre, invariabilmente gli altri.

È un film, The Social Network, che ‘Zuck’ stesso mostrerà ai suoi dipendenti in una sontuosa proiezione privata in un multisala di Mountain View, dicendosi “ferito” dalla sua resa cinematografica – sostenendo che non è mica vero che lui l’abbia fatto per le ragazze e per entrare nei circoli che contano – ma nel contempo lodando la scelta di felpe con cappuccio della costumista. Cosa resta, oggi, della matricola di Harvard schiva e machiavellica così ben ritratta da Fincher? Apparentemente, tutto: nella già famigerata ospitata di Zuckerberg nel podcast dell’influencer populista Joe Rogan, la settimana scorsa il fondatore di Facebook si è prodotto in diverse considerazioni che sembravano uscite dalla bocca del suo alter ego filmico. Ha detto, tra le altre cose, che il mondo corporate gli sembra “culturalmente castrato”, perché manca di “energia maschile”, quella cosa che gli capita di provare istintivamente quando passa del tempo a praticare le arti marziali miste coi suoi bro – quest’ultima parola non è stata usata, quantomeno – e non “celebra” abbastanza “l’aggressione” (qui invece sto citando).

“Zuckerberg ha trovato un modo di far pagare a tutti e a tutte i costi dei suoi desideri di rivalsa e affermazione personale, generando un modello di socializzazione delle perdite in cui a fare le spese della sua hybris sono sempre, invariabilmente gli altri”.

Per consolidare la sua inversione a U in direzione trumpiana, Zuckerberg si è affidato a un video semplice dei suoi, pubblicato sul suo profilo Instagram,  incurante delle meritate accuse grandinate nei commenti: sguardo fisso in camera, nuovo taglio di capelli cherubinico e, soprattutto, una dose fuori scala di quello che l’utente medio di Facebook chiamerebbe probabilmente pelo sullo stomaco. Mr. Meta ha annunciato una nuova policy di laissez-faire circa la moderazione dei contenuti sulle sue piattaforme, prevedendo  l’avvento di “una nuova era” in cui c’è bisogno di far fronte a fact-checker diventati “troppo faziosi”. Ha poi spiegato che lui e la sua azienda lavoreranno con il presidente Trump per salvaguardare la libertà di espressione in tutto il mondo. 

Il fatto che la “libertà di espressione” sia diventata anzitutto uno slogan da brandire in favore di vento è un discorso politico più ampio, che naturalmente travalica i confini dello zuckerberghismo. Ciò che risalta nel discorso di Zuckerberg dunque è più la sua abilità nel presentarsi come l’alfiere di tutto il contrario di cui era stato il capofila fino al giorno prima. La sua vera forza da  mutaforma risiede qui, nelle sue doti eminentemente politiche di fare terra bruciata del suo passato e delle sue personali convinzioni; convinzioni di cui non a caso non sappiamo nulla (o nulla di vero). Come nella celebre massima di Bruce Lee – “Se metti dell’acqua in una tazza, l’acqua diviene tazza; se la metti in una bottiglia, diventa bottiglia; se la metti in una teiera, diventa teiera. Sii come l’acqua, amico” – Zuckerberg ha saputo perfezionarsi e approdare allo stato chimico più infido dei nostri tempi, quello che permette di assumere la forma del suo contenitore per mimetizzarsi e prosperare. Nel modello economico e culturale di Zuckerberg – che è, per estensione ma anche per contaminazione diretta, quello in cui viviamo tutti – basta pronunciare un proclama perché sia vero, additare un problema perché esista e confezionare un reel per risolverlo. Zuckerberg non ne è, ovviamente, l’unico responsabile – come, d’altronde, ai tempi di Hegel lo spirito del mondo forse non si manifestava soltanto attraverso Napoleone a cavallo – ma è tra i suoi principali artefici, nonché di certo quello di maggiore successo.

Negli ultimi anni ha provato a dare una nuova verve alla sua immagine pubblica, a cominciare dallo stile personale, un ambito che per più di un decennio aveva sempre confinato allo stesso trito repertorio da nerd trasandato: e così sono arrivate le t-shirt di Cucinelli, i completi à la Richard Branson, le catenine, le già citate arti marziali, e contenuti virali come l’insensato video in cui il nostro fa wakeboarding bevendo una birra e sventolando la bandiera statunitense in occasione del 4 luglio dell’anno scorso.

“Nel modello economico e culturale di Zuckerberg basta pronunciare un proclama perché sia vero, additare un problema perché esista e confezionare un reel per risolverlo”.

Con Trump, Zuckerberg ha sempre avuto un rapporto burrascoso, come avviene spesso tra anime eccessivamente affini: prima la telefonata dopo la vittoria alle urne del 2016, l’anno in cui Zuckerberg si è congratulato col tycoon per il suo “innovativo” uso di Facebook in campagna elettorale (così innovativo che si scoprirà che poggiava su milioni di dati provenienti da utenti inconsapevoli, sottratti dalla sconosciuta società di consulenza britannica Cambridge Analytica), poi la promessa – con la fronte imperlata di sudore e il viso terreo mostrati alle telecamere di mezzo mondo di fronte al Congresso americano – che la sua multinazionale della profilazione avrebbe fatto di più per contrastare la disinformazione. Quindi, in piena pandemia, gli strumenti avevano registrato un riavvicinamento, dopo la famosa esternazione zuckerberghiana su Facebook che non avrebbe fatto da “arbitro della verità” di fronte alle bugie di Trump sui voti per corrispondenza; poi ancora un voltafaccia, seguito al 6 gennaio 2021 e all’assalto al Campidoglio, con la corsa di Zuck per arrivare – ancora una volta – primo nella gara mediatica a bandire il presidente dalle sue piattaforme. La scorsa estate, durante l’ultima campagna elettorale presidenziale, Trump ha accusato apertamente il suo nemico-amico di aver “tramato” contro di lui nelle elezioni di quattro anni prima, spiegando che se l’avesse rifatto avrebbe “passato il resto della sua vita in prigione”.

Zuckerberg, a cui tutto si può imputare, tranne che di non essere uno che capisce le antifone al volo, gli ha risposto epurando i vertici di Meta in favore di figure più vicine alla destra (il nuovo responsabile degli affari globali Joel Kaplan, ex dell’amministrazione di George W. Bush, e il nuovo membro del board Dana White, presidente della lega di arti marziali miste UFC e trumpiano di ferro, donando un milione di euro al fondo per l’insediamento della nuova amministrazione e, per l’appunto, alleandosi alla  crociata in favore della “libertà di espressione”. Difficile aspettarsi che questa unione sia, non dico eterna, visti i precedenti, ma almeno  solida: se nell’era di Barack Obama si parlava di politica delle porte girevoli tra Washington e la Silicon Valley, con diversi personaggi apicali dal curriculum equamente diviso fra i due palchi, nell’epoca di Trump a contare sono l’opportunismo puro e il cinismo delle occasioni da cogliere. Le condizioni ideali perché a spuntarla sia di nuovo quella matricola fredda e calcolatrice che diceva, nei film e nella realtà: “È gente che conosce gente, e mi servono le loro email”. Il fine, a Palo Alto, giustifica sempre gli algoritmi.

Davide Piacenza

Davide Piacenza è giornalista e collabora a diverse testate. Il suo ultimo ultimo libro, che riprende temi della sua newsletter settimanale “Culture Wars”, si intitola La correzione del mondo (Einaudi, 2023).

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