Pubblicare libri per accettare le nostre ambiguità - Lucy
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Andrea Bergamini

Pubblicare libri per accettare le nostre ambiguità

17 Aprile 2024

Dal 2005 Playground pubblica narrativa, soprattutto nordamericana, di grande valore: da Scott Heim a Edmund White, passando per Bernardine Evaristo. Per il suo fondatore, ripercorrerne la storia è l’occasione per riflettere sui cambiamenti che negli ultimi vent'anni hanno investito letteratura, editoria e cultura gay.

Gli storici insegnano che il senso di una battaglia non si esaurisce né nei piani di combattimento dei generali né nel vissuto dei soldati, ma si ricava sommando i diversi punti di vista (e valutando decine di altri fattori: le condizioni atmosferiche, lo stato delle armi e delle divise, il caso). Un editore è soprattutto una persona d’azione, che spesso ricorre all’istinto, e che tenta di combinare, in modi talvolta goffi e sterili, senso pratico e immaginazione.

Se quindi vogliamo ricollegarci all’immagine bellica, si può serenamente sostenere che un editore svolga principalmente la propria azione sul campo di battaglia, e che spesso combatta a mani nude, alternando sogni di vittoria e reazioni di sola sopravvivenza. Diventa difficile, quindi, spostarsi sulle colline e osservare dall’alto i movimenti delle truppe, benché in teoria e paradossalmente si indossino le mostrine di generale.

È quello che tenterò di fare, osservando dall’alto i vent’anni della casa editrice Playground, che ho fondato nel 2004 e che da allora dirigo (dal 2011 insieme a Domenico Procacci, che è socio di maggioranza). Come tutti i racconti retrospettivi, anche il mio rischia di essere parziale e in una certa misura bugiardo. Va quindi interpretato come la tessera di un mosaico possibile, nulla di definitivo, forse utile semplicemente per dare un nome ad alcune esperienze e per ricordare l’opera di autori meritevoli.

Lo faccio concentrandomi su un romanzo che Playground ha pubblicato per la prima volta nel 2006, e di cui non ci siamo mai privati nei diciotto anni successivi (proprio in questi giorni ne abbiamo pubblicato una nuova edizione con postfazione di Sandro Veronesi), quasi incarnasse il senso e il destino della minuscola impresa. E forse in parte è così. 

Il romanzo è Mysterious Skin (tradotto da Carlotta Scarlata), dell’autore americano Scott Heim, uscito negli Stati Uniti nel 1995 e ancora oggi considerato tra le prove più convincenti, insieme a Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, della giovane narrativa americana degli anni Novanta.

Ambientato in una cittadina anonima del Kansas, racconta, attraverso i punti di vista dei diversi protagonisti, le ripetute violenze inflitte da un allenatore di baseball a due bambini, Brian Lackey e Neil McCormick, i quali misteriosamente (o umanamente) reagiscono in modo emotivamente contraddittorio.

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Brian Lackey dimentica a lungo la violenza subita, ma il suo corpo e la sua psiche no, e ben presto si sottraggono al suo controllo, facendo di lui un disadattato. Neil McCormick, invece, idealizza la figura dell’allenatore a tal punto da considerare le malsane attenzioni dell’adulto l’apice delle proprie esperienze sentimentali. E nella sua successiva vita di giovane omosessuale continuerà a cercare uomini molto più grandi, capaci di riportarlo emotivamente a quei mesi trascorsi accanto all’allenatore pedofilo. Tutto questo accade in una provincia che appare malinconica e allo stesso tempo spaventosa, il teatro ideale per lo spleen adolescenziale ma anche per comportamenti criminali di cui non sembra accorgersi una comunità distratta, se non proprio ipocrita.

Questo romanzo, ricchissimo, commovente e audace (per molti lettori addirittura intollerabile), rispondeva sicuramente a bisogni personali e a convinzioni non sempre meditate o approfondite, perché, occorre ammetterlo, è con quel misero bagaglio che spesso si affrontano questo genere di imprese: bisogni (spesso spacciati per ragioni) e teorie (con abbondanti dosi di astrattezza). 

Partiamo dai miei bisogni, innanzitutto quello di separarmi dal “ghetto gay” (il quale, peraltro, mi aveva salvato la vita… e che quindi continuo a omaggiare retrospettivamente), luogo in cui mi sembrava dominare il camp, o una interpretazione del camp, una cultura trasmessa di generazione in generazione, spesso indefinibile, composta da atteggiamenti oltre che da linguaggi capaci di celebrare il kitsch e l’eccesso, giocando su forme spinte di parodia del femminile. Cito qui solo alcuni tratti, così come li ho incontrati e percepiti (ovviamente il fenomeno merita definizioni più estese e meno soggettive). 

Ancora oggi il camp continua a sembrarmi la sola cultura veramente condivisa dalla stragrande maggioranza degli omosessuali d’occidente (anche nelle sue varianti locali): un gusto, come dicevo, ma anche un modo di atteggiarsi e di interpretare la realtà. Ma proprio perché condivisa, con un’identità allo stesso tempo forte e sfuggente, era una cultura che poteva indurre stanchezza, dato che, come accade spesso, oltre che a proteggere (stimola un senso di appartenenza al gruppo e quindi combatte il senso di solitudine di fronte al mondo) tendeva a separare, a spezzare rapporti che si erano costruiti negli anni precedenti, quelli trascorsi fuori dal “ghetto”. 

E Mysterious Skin, a un lettore accorto, sembra animato dallo stesso bisogno. Scott Heim costruisce, infatti, un romanzo in cui i giovani protagonisti omosessuali hanno consumi culturali imprevisti e originali: niente pop da classifica, e nemmeno musica classica o d’opera, tantomeno brani da musical, ma punk molto duro, hard rock assordante e violento, cui accompagnare una passione smodata per il cinema horror, con tanto di riferimento a Suspiria di Dario Argento (dopo aver letto l’edizione italiana di Mysterious Skin, Luca Guadagnino pensò in un primo momento di coinvolgere Scott Heim nel progetto di un remake di Suspiria che, però, come è noto, realizzerà molti anni dopo). Gusti che manifestavano il desiderio di raccontare (di immaginare o idealizzare?) un modo diverso di essere gay. 

Va detto che ogni generazione tende ad assolutizzare i propri bisogni e desideri che sono, invece, storicamente dati, e rispondono, benché in modo non meccanico, a esistenze ed esperienze specifiche.

A questo proposito, c’è un divertente e illuminante passaggio del recente (e splendido) film di Andrew Haigh, All of Us Strangers (Estranei), nel quale i due protagonisti, interpretati da Andrew Scott e Paul Mescal, si lamentano di come il termine contemporaneo “queer” appaia a loro troppo educato (“è come se non succhiassimo più i cazzi!”). Rimpiangono, al contrario, il più comune e trasgressivo termine “gay”.

Eppure, a partire dagli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, era proprio gay  la parola “educata” che rivendicavamo per opporci a “frocio” o al troppo neutro “omosessuale” che puzzava di diagnosi medica, e quindi di istituti di igiene mentale.

“Un editore è soprattutto una persona d’azione, che spesso ricorre all’istinto, e che tenta di combinare, in modi talvolta goffi e sterili, senso pratico e immaginazione”.

Ebbene, Scott Heim, ma penso anche al regista Gus Van Sant (Belli e dannati è del 1991), comincia negli anni Novanta a rappresentare i giovani omosessuali in modi che evocano solo in parte gli outcast di certa letteratura beat degli anni Cinquanta (a questo proposito, Edmund White perfidamente ci ricorda sempre come in realtà sia il dentista gay di famiglia a spaventare il borghese eterosessuale più che il prostituto di strada, convenzionalmente “fuori”, e con cui non si hanno rapporti, se non clandestini). 

In Mysterious Skin il giovane gay Neil McCormick sembra smentire tutti i vecchi e triti cliché legati all’omosessualità maschile, dalla delicatezza all’insicurezza perenne, dalla goffaggine all’effeminatezza. Il piglio di Neil McCormick è invece quello del leader, sicuro di sé, trascinatore, a tratti spietato. Il classico duro. In un evidente ribaltamento dei ruoli, Neil McCormick infligge agli eterosessuali quel che di solito subivano gli adolescenti omosessuali, e lo fa senza bandiere, senza coscienza politica, ma con una naturalezza ancor più sorprendente.

Intorno a Neil c’è un alone di eroismo e di fascino, che è avvertito anche dai ragazzi più popolari della scuola, i quali guardano a lui con fastidio ma anche con segreta ammirazione. E ancor di più, Neil conduce le danze con gli adulti, di cui intuisce i desideri, nella consapevolezza della potenza smisurata del proprio corpo.

In altre parole, Neil McCormick preferisce il ruolo del carnefice a quello della vittima, che pure era stato centrale nei processi di emancipazione e di rivendicazione del movimento omosessuale della fine degli anni Sessanta e Settanta. Ovviamente, la realtà gli presenterà il conto, ma il compito di inedito role model è svolto perfettamente. Oggi, questo bisogno è meno impellente (e anzi, è molto forte il tentativo di creare un maggiore equilibro tra elemento “femminile” e “maschile”, così come li abbiamo storicamente ricevuti), ma all’epoca era avvertito da molti, e rispondeva, appunto a un passato e a un presente che si voleva modificare. Profondamente. 

Questi aspetti del romanzo di Heim, e verso i quali Playground è stata da subito molto sensibile, si collegano in qualche modo a un canone critico che è esploso proprio negli anni Novanta negli Stati Uniti, e di cui, di nuovo, Mysterious Skin sembra una perfetta espressione.

All’epoca si parlava infatti diffusamente di letteratura post-gay, ispirandosi al concetto di post-history (nozione coeva, legata in particolare alla caduta del Muro di Berlino). Nel caso della post-history si prefigurava la fine della storia e dei conflitti, nel caso del post-gay, la fine della cosiddetta narrativa gay.

Si sosteneva che a fronte della moltiplicazione del numero di protagonisti omosessuali (uomini e donne) nella narrativa d’occidente, il loro orientamento sessuale non sarebbe stato il centro né del romanzo né dell’azione dei medesimi. Con la progressiva integrazione nella società di gay, lesbiche e transgender, con la conquista di sempre maggiori diritti, l’omosessualità sarebbe diventato un tratto scontato della personalità, come appunto l’eterosessualità, una condizione da non tematizzare, di cui non ricercare più ossessivamente origini, cause e quant’altro. 

Di nuovo, il romanzo di Heim è esemplare. Gli abusi dell’allenatore pedofilo non sono affatto all’origine dei desideri di Neil McCormick, che si erano già manifestati, e che nel suo racconto in prima persona non hanno mai i caratteri della perversione, della stravaganza, dell’eccentricità. Tutt’altro. Per Neil McCormick, infatti, la sola preoccupazione è soddisfarli, in modo libero e a volte compulsivo. Non sente alcun bisogno di motivarli, di ricercarne l’origine, né considera quei desideri un limite alla realizzazione di sé o una barriera nel rapporto con il mondo. 

Il concetto di post-gay forse assolutizzava per il futuro una debole tendenza del presente, ma è stato di stimolo per un’interpretazione personale dello stesso concetto, spingendomi a interrogare le opere di autori dichiaratamente omosessuali che però nella loro narrativa affrontavano esperienze diverse, o non immediatamente riconducibili alla condizione omosessuale.

Ed è così che nel 2009 entrava nel nostro catalogo Allan Gurganus, il quale, dopo il suo celebre romanzo d’esordio, L’ultima vedova sudista vuota il sacco (1991) ha progressivamente privilegiato il genere della novella e del racconto. Narratore di razza, erede della tradizione del sud degli Stati Uniti, Gurganus mescola realismo e magia, la piccola storia e i grandi eventi, istinto e dilemmi etici.

Ma ancor prima di Allan Gurganus, Playground si legava alla narrativa di Edmund White. Sodalizio che dura dal 2007 e che non si è ancora interrotto: nell’estate del 2024 pubblicheremo il suo ultimo romanzo, L’umile amante. Tra i primissimi, negli anni Ottanta, ad applicare alla propria biografia le strategie del romanzo, la sua celebre tetralogia parzialmente autobiografica (Un giovane americano, La bella stanza è vuota, La sinfonia degli addii e L’uomo sposato) è considerata tra le opere più rilevanti della narrativa americana del dopoguerra (Harold Bloom ha inserito in particolare La bella stanza è vuota nel canone americano). 

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Nella narrativa di Edmund White, diversamente da Gurganus, l’omosessualità, o forse sarebbe meglio dire il vissuto degli omosessuali, è assolutamente centrale (di recente Breat Easton Ellis ha definito La Sinfonia degli addii il testo americano più importante sulla condizione omosessuale), ma è proprio una sua acuta considerazione a spiegare, paradossalmente, i percorsi e le deviazioni successive del catalogo di Playground.

A una domanda di una giornalista, in cui, implicitamente, gli si rimproverava di non aspirare a essere universale (l’agognata condizione umana universale…), White replicava come la narrativa americana, diversamente da quella europea, esistesse solo come racconto delle minoranze (parti, segmenti della società, per arrivare all’intero): dagli ebrei americani di Philip Roth agli afroamericani di Toni Morrison, dagli ispano-americani di Junot Díaz agli omosessuali, appunto, dello stesso White. Ed è quindi, la materia – gli Stati Uniti e la sua letteratura – con la costante aria di famiglia, pur nelle diversità, a decidere, a modellare, attraverso rimandi continui, a volte inesorabili, le scelte successive. 

Se all’inizio la casa editrice è segnata da decisioni individuali del suo editore, da una rigida delimitazione di campo, a partire da Mysterious Skin, e proprio per gli stimoli offerti da quel romanzo, il suo catalogo tende a costruirsi aderendo alla trama e alla consistenza della materia, rispondendo quindi a stimoli e a sollecitazioni più che a una rigida delimitazione di territorio, in una dialettica morbida, mai deterministica.

È la natura stessa della vitalissima narrativa americana a costringere a deviazioni, a moltiplicare i rimandi, spostando l’attenzione in direzioni diverse. Centrale è l’insistenza sulle vite del ceto medio, in un’alternanza di comportamenti ripetitivi (di massa) ed eccentricità individuali, che in parte si traduce anche nella contrapposizione, sempre feconda, tra industria del divertimento popolare e realtà indipendenti.

E di nuovo, Mysterious Skin, come sottolineato anche in precedenza, è esemplare: in un Kansas di stazioni di servizio, centri commerciali, fast food, si introducono schegge di cultura di “opposizione”, o comunque di consumi originali rispetto al cosiddetto american way of life, rimandando a una narrativa che, anche nella forma, ha sempre cercato di avere un’impronta personale, autonoma. Impronta che è anche una convinta interpretazione della realtà, e che per questa ragione non si piega alle mode, alla popolarità dei generi, ma resta fedele a uno sguardo che si considera il solo utile (o efficace). 

Penso a Sam Shepard (di lui abbiamo pubblicato Diario di lavorazione nel 2016), che, fin dal suo leggendario Motel Chronicles (1983), ha ostinatamente raccontato un’America periferica e ignorata, mescolando versi e prosa, racconti lunghi e scene brevissime, costringendo il lettore a entrare in territori meno comodi, ma certamente più liberi.

O anche a Susan Minot, che a distanza di quarant’anni dal suo esordio, Scimmie (la prima edizione è del 1986, noi lo abbiamo ripubblicato con una nuova traduzione nel 2020), che apparve da subito come la manifestazione di una nuova e importante voce, continua a perseguire, senza tentennamenti, il proprio percorso letterario, una versione personale dello stile e degli strumenti espressivi del minimalismo americano – dopo aver pubblicato La sera (edizione italiana 2022) e la nuova raccolta di racconti dal titolo La lingua dei cani e dei gatti (2021), nel 2025 pubblicheremo il suo nuovo romanzo, Don’t be a Stranger). O ancora a Christine Schutt e al suo Anime (la nostra edizione è del 2022), finalista al premio Pulitzer: un originale tentativo di riprodurre le voci di una comunità scolastica, forzando i limiti e i confini della forma romanzo. 

“È la natura stessa della vitalissima narrativa americana a costringere a deviazioni, a moltiplicare i rimandi, spostando l’attenzione in direzioni diverse”.

E forse non è una semplice coincidenza se dopo vent’anni di attività, Playground incrocia, attraverso lo scrittore Eugene Marten, di cui pubblicheremo due romanzi nel 2025 e nel 2026, la strada di Giancarlo DiTrapano. Venuto a mancare improvvisamente nel 2021, DiTrapano è stata una figura molto rilevante negli ambienti letterari newyorkesi per aver fondato nel 2006 una rivista, «The New York Tyrant Magazine», e poi nel 2009 la casa editrice Tyrant Books, capace di imporre scrittori nuovi e d’avanguardia nel panorama letterario americano, da Brian Evanson ad Atticus Lish, per citarne alcuni.

È celebre una sua simpatica e acuta considerazione per spiegare la natura dei libri che amava pubblicare: “Le cose di Tyrant non sono per tutti, ma niente dovrebbe essere per tutti. O almeno niente che valga qualcosa. Sai cos’è per tutti? L’acqua. L’acqua è per tutti. E se pubblichi qualcosa per tutti, beh, stai pubblicando acqua”

A rafforzare il tratto anomalo e personale di questa narrativa è anche la sua capacità di stabilire un rapporto diretto con il cinema d’autore, ma non in senso di semplice trasposizione, o adattamento, ma di dialogo tra arti, tra mestieri, e persino tra immaginari, per cui le forme dell’una si sovrappongono a quelle dell’altra, e viceversa. A volte, addirittura, il cinema è la prosecuzione, in altra forma, della narrativa.

Penso di nuovo a Sam Shepard, sceneggiatore, tra gli altri, di Paris, Texas di Wim Wenders e Follia d’amore di Robert Altman (meno rilevante il suo contributo di sceneggiatore per Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni); ma anche Susan Minot, sceneggiatrice de Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci, e soprattutto Rudolph Wurlitzer (di cui abbiamo pubblicato il western psichedelico Zebulon nel 2018), sceneggiatore del capolavoro del cinema indipendente americano Strada a doppia corsia di Monte Hellman (1971) e in seguito de Il Piccolo Buddha sempre di Bernardo Bertolucci.

E poi John Waters, uno tra i registi più trasgressivi del cinema americano, un monumento dell’arte indipendente e radicale, di cui abbiamo pubblicato un libro insolito e spassoso, a metà tra autobiografia e manuale di consigli sfiziosi, Il signor So-tutto-io

Ma lo stretto rapporto tra narrativa e cinema si ritrova anche nella giovane narrativa europea che abbiamo cercato di proporre, dove è evidente come la consuetudine con il linguaggio cinematografico influenzi pesantemente la scrittura letteraria. Segnalo, a questo proposito, Christophe Honoré (nel 2006 abbiamo pubblicato uno dei sui romanzi per adulti, La dolcezza), divenuto negli anni a venire uno degli autori cinematografici francesi più ispirati (nel suo film più recente Le Lycéen è evidente l’importanza del monologo narrativo), e che non ha mai smesso nella sua attività registica di sottolineare la centralità della letteratura, spesso con citazioni esplicite (il debito verso François Truffaut è evidente, con il commovente tratto stilistico di inquadrare le copertine dei romanzi).

Ed è in fondo anche il tentativo di Emidio Clementi (autore nel nostro catalogo dal 2011), leader di uno dei gruppi storici della musica indipendente italiana, i Massimo Volume, che da ormai tre decenni lavora sul rapporto tra la parola nella musica e la parola narrativa, rinunciando sempre a esiti tradizionali e scontati, per privilegiare ritmi e tempi del racconto nuovi e contemporanei. 

C’è un ultimo aspetto rilevante in Mysterious Skin, e che mi sembra di aver riconosciuto paradossalmente solo rileggendolo diciotto anni dopo, quasi con sgomento e un vago terrore. Ricorrendo a Jean Cocteau, potremmo parlare di “vocazione alla verità”, ma mi piace sempre citare un’osservazione acuta di Gilberto Severini (tra i nostri autori irrinunciabili) il quale ricorda come “ci siano sempre le buone ragioni, e poi le ragioni vere.”

La ricerca delle ragioni vere, a scapito delle buone ragioni, è forse uno dei compiti più importanti della narrativa. Compito non semplice, e che oggi si scontra con un’attenzione eccessiva al “dover essere” (possiamo anche chiamarlo “messaggio virtuoso”), che spesso limita il racconto di quel che è, e persino di quel che si desidera.

Atteggiamento, o preoccupazione, cui non sono immune, se a rileggere dopo tanti anni il racconto in prima persona del giovanissimo Neil McCormick alle prese con l’allenatore pedofilo non dico di essermi scandalizzato, ma preoccupato certamente. Preoccupazione di cui non ho memoria ripensando alla prima volta che avevo letto Mysterious Skin nel 2004. Anzi, al di là della bellezza stilistica del romanzo, mi sembrava, infatti, che Scott Heim mi stesse accompagnando (quasi una visita guidata in un museo) attraverso un pezzo di realtà che andava conosciuto, e non solo giudicato. 

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Mi aiuta un’osservazione di Sandro Veronesi nella postfazione dell’edizione italiana: “Struggente, ipnotico, perverso e colmo di una violenta compassione, Mysterious Skin contiene pagine talmente belle da spingerci a desiderare d’esser stati violati anche noi, da bambini – e subito dopo altre pagine altrettanto belle e talmente spietate da farci inorridire anche solo di averci fantasticato su”.

È come se, da lettori, il ruolo del giudice e del censore avesse conquistato posizioni, arginando quel processo di identificazione (che spesso è un processo conoscitivo) di cui parla Sandro Veronesi, e che aveva il merito di abituarci all’ambiguità della condizione umana, ad accettarla, a non cancellarla per paura o conformismo. “L’ambiguità” è quel tratto per cui, per esempio, i ruoli di vittima e carnefice si sfumano, e cessano di essere fissati una volta per tutte e in modo nitido.

Ne Il giovane americano di Edmund White, il protagonista è un giovanissimo omosessuale nei moralisti anni Cinquanta, costretto ad affrontare un ambiente ostile, che lo criminalizza. Eppure quando trova attenzione e comprensione in un insegnante di musica, che seduce con grande abilità e con il quale ha il suo primo goffo rapporto sessuale, riesce subito dopo, e con una freddezza leggendaria, a denunciarlo alle autorità scolastiche, decretando il suo immediato licenziamento, convinto in tal modo di guadagnarsi l’ammirazione generale, e così potendo continuare la propria vita avvolto da un’aura di virtù (Edmund White ricorda come alcune case di produzione hollywoodiane abbiano rifiutato di prendere in considerazione l’adattamento cinematografico de Un giovane americano proprio per quel finale in cui il tormentato adolescente si trasforma in spietato delatore). 

Ne Il gioco di De Niro (la nostra edizione italiana è del 2019), romanzo dello scrittore libanese Rawi Hage (vincitore dell’International Dublin Literary Award), ambientato durante la guerra civile libanese, due amici d’infanzia, amanti della bella vita e delle donne, eroi senza macchia, si ritrovano, per scelta o per caso, a tradire e infine a uccidere, venendo meno ai propri principi e alla propria storia.

O ancora, l’autrice britannica Bernardine Evaristo (vincitrice del Booker Prize nel 2019), nel suo acuto e spassoso Mr Loverman (da noi edito nel 2015) racconta come un amore omosessuale clandestino e sofferto tra due amici d’infanzia possa trasformarsi nell’incubo di una delle mogli dei due protagonisti, sacrificata sull’altare di quell’amore inconfessabile, umiliata da un maschilismo irredimibile. Come in Mysterious Skin, la fragilità, la vulnerabilità, e ovviamente anche la crudeltà, non sono abiti indossati per la vita, e la narrativa si incarica di raccontarne gli imprevisti passaggi di mano. 

Come avvertito all’inizio, il racconto di questi vent’anni è bugiardo, del tutto parziale. Avrei potuto imboccare strade diverse, valorizzando altri autori e altri filoni della casa editrice. Mi accorgo, per esempio, di non aver mai citato una delle nostre autrici principali, la scrittrice canadese Helen Humphreys, che pubblichiamo dal 2007, a partire dal suo Cani selvaggi, romanzo sicuramente tra i più amati del nostro catalogo. Autrice che mi piace ricordare anche per il suo rapporto non banale con la forma romanzo, che ha provato coraggiosamente a rinnovare, soprattutto nelle sue ultime prove (Amuleto celeste, ma anche il prossimo Followed by the Lark, che pubblicheremo nel 2025). 

Ma al di là della parzialità di questo racconto, mi sembra di poter dire, dopo vent’anni di casa editrice, di credere ancora nel valore della parola scritta e soprattutto nel valore delle opere, separate dalla comunicazione. E in fondo non è poco.

Andrea Bergamini

Andrea Bergamini è editore, saggista, scrittore. Il suo ultimo libro si intitola Amori grandi per grandi uomini (Castelvecchi, 2003).

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