Francesco Tedeschi
17 Settembre 2025
In Georgia, è dal novembre del 2024 che proseguono ininterrotte le manifestazioni contro il partito al potere “Sogno Georgiano” e le sue leggi liberticide. Anche i giornalisti scendono in piazza per difendere la libertà d’espressione, che è sempre più a rischio.
La prima cosa che noto al mio arrivo a Tbilisi è la quantità di manifesti elettorali del sindaco, ex giocatore del Milan e membro del partito al governo “Sogno Georgiano”, K’akhaber K’aladze. La città è tappezzata di foto che ritraggono la sua espressione bonaria e ottimista, nonostante gli oltre 280 giorni di mobilitazione dei manifestanti, che da novembre occupano l’ingresso principale del Parlamento georgiano in Viale Rustaveli.
“Sogno Georgiano” è stato fondato dall’uomo più ricco della Georgia, il miliardario con cittadinanza francese Bidzina Ivanishvili, nel 2012, quando si presentò alle elezioni presidenziali contro l’ex presidente filo-europeo Mikheil Saak’ashvili.
A poche settimane dal voto, l’emittente televisiva Channel 9 di Ivanishvili pubblicò il video di un detenuto – accusato di attività terroristiche – stuprato con un manganello da un poliziotto. La storia fece un tale scalpore che il manganello divenne il simbolo della gestione violenta e fallimentare dell’allora presidente Saak’ashvili, che dovette prima dimettersi e poi lasciare il Paese. Sull’onda dell’indignazione generale che ne seguì, il manganello fu ribattezzato “il manganello di Saak’ashvili”.
Per anni i georgiani furono persuasi della veridicità di quel video: Saakashvili del resto era un personaggio controverso, in virtù delle sue posizioni contro la mafia georgiana (che contribuì decisamente a indebolire), e contro la Russia. Nel 2018 è stato condannato a 6 anni per abuso d’ufficio, e di recente a 9 anni per appropriazione indebita e ad altri quattro e mezzo per aver attraversato illegalmente il confine tra Georgia e Ucraina, dove era riparato dopo aver lasciato il Paese. Dal 2021, quando è tornato in Georgia, è in carcere, in condizioni di salute precarie e con altri capi d’accusa ad oggi sospesi.
Nel 2016 però, il detenuto abusato nel video confessò che si trattava di una montatura orchestrata da membri del partito di opposizione. Ma a distanza di anni, dopo il clamore suscitato dal video, la rivelazione passò pressoché inosservata. Del resto, il video aveva già sortito gli effetti sperati.
“Sogno Goergiano” governa la Georgia ininterrottamente dalle elezioni del 2012, ma nonostante le iniziali posizioni filo-europee negli ultimi anni ha intrapreso una sempre più marcata politica estera filo-russa, con enormi ripercussioni sulla libertà di parola ed espressione nel Paese. Lo scorso anno il processo di adesione all’UE è stato posticipato, sono state introdotte leggi che vietano a redazioni indipendenti, ong e no-profit di poter ricevere finanziamenti dall’estero, ed è chiaro come – in modo per ora meno evidente che in Ucraina – la Russia voglia esercitare anche qui la stessa influenza.
Alcuni giorni dopo il mio arrivo, alla fine di agosto, partecipo alla manifestazione organizzata dai maggiori media indipendenti del Paese, per protestare contro le leggi che vietano ai giornali di ricevere finanziamenti dall’estero. Quando raggiungo i manifestanti, mi guardo attorno e chiedo alla coordinatrice se non debba preoccuparmi di essere seguito. Premura d’obbligo, visto che mi è arrivata la voce che nei mesi scorsi alcuni attivisti erano stati pedinati sotto casa e picchiati dalla polizia per aver partecipato alle proteste. Lei mi rassicura, non devo preoccuparmi, la situazione è seria ma non ancora così grave. Eppure non sembra: solo nelle ultime tre settimane otto oppositori politici sono stati arrestati; cinquantacinque tra giornalisti e attivisti sono oggi in carcere con pene esagerate, dai due agli otto anni, per piccoli danneggiamenti o accuse fabbricate dalla polizia.
“La prima cosa che noto al mio arrivo a Tbilisi è la quantità di manifesti elettorali del sindaco, ex giocatore del Milan e membro del partito al governo “Sogno Georgiano”, K’akhaber K’aladze”.
La manifestazione parte dalla piazza dedicata alla Rivoluzione delle Rose – il movimento che nel 2003 pretese libere elezioni in Georgia e contribuì a un cambio di passo filo-occidentale all’interno delle file del governo allora guidato da Shevardnadze, ex dirigente del PCUS vicino alla Russia. La piazza, oltre a essere un luogo simbolico per i manifestanti, si trova in posizione strategica all’inizio di Viale Rustaveli, dove ha sede il parlamento georgiano. Qui, durante la guerra civile del 1992, c’erano carri armati che sventravano i palazzi a colpi di cannone e soldati per le strade. Fa una certa impressione vederla oggi centro della vita turistica di una Tbilisi sempre più frequentata e aperta al turismo.
La coordinatrice della manifestazione mi presenta uno a uno i giornalisti presenti, mentre distribuisce ai manifestanti torce e laser per rendere più difficile l’identificazione dei nostri volti alla polizia, che scatterà foto durante la marcia. Il clima non sembra teso ed è strano vedere i giornalisti – a cui la manifestazione è dedicata – impegnati sia nel loro lavoro, sia nel compito di tenere gli striscioni in testa al corteo.
Tra uno scatto e l’altro, riesco a intercettare la fotografa Mariam Nikuradze di «oc-media.org». Esordisco riportandole le dichiarazioni di Giorgia Meloni, che a Trump aveva detto di non essere solita rispondere alle domande dei giornalisti italiani; le chiedo se non stia succedendo qualcosa di simile anche in Georgia. Lei sorride e mi dice che la situazione non è minimamente paragonabile. “Qui i giornalisti finiscono in carcere, vengono intimiditi e picchiati dalla polizia per il semplice fatto di fare il loro lavoro”.
La tenuta democratica della Georgia è entrata in crisi quando la Russia ha avviato l’invasione su larga scala dell’Ucraina. “Al momento, abbiamo non una, ma due leggi sulle ingerenze straniere che vietano ai giornali e alle ong qualsiasi tipo di sovvenzione estera – pena cinque anni di carcere – e leggi contro la comunità LGBTQ+. Anche scendere in piazza a manifestare, come stiamo facendo proprio ora, comporta una multa di circa 5000 lari al giorno, cinque volte superiore allo stipendio medio mensile”. Solo alcuni giorni fa, il governo georgiano ha bloccato i conti delle sette ONG che, durante le manifestazioni, avevano pagato e distribuito gratuitamente maschere antigas ai manifestanti per proteggersi dai lacrimogeni nelle proteste dello scorso novembre.
“Il partito al governo ha messo in atto misure di ogni tipo per impedirci di svolgere il nostro lavoro e addirittura minare la nostra stessa esistenza”. Ha vietato ai media di seguire le udienze che vedono imputati attivisti, giornalisti e oppositori politici, le registrazioni video, fotografica e audio dei processi. Non solo delle udienze in sé, ma anche qualsiasi ripresa fatta all’interno dell’edificio, nell’atrio o nel giardino. “Gli ufficiali giudiziari ricorrono spesso all’uso della forza nei confronti dei familiari e dei sostenitori degli imputati che vengono ad assistere. E noi non possiamo documentarlo”. Le uniche immagini di quello che accade lì dentro provengono dalle telecamere di sorveglianza. “Ma se oggi siamo ancora qui a protestare e i media a scriverne, vuol dire che non siamo ancora arrivati al punto di non ritorno. Forse c’è ancora qualche possibilità di cambiare le cose. Anche se al riguardo sono piuttosto scettica”.
Un esempio eclatante di quanto accade oggi nel Paese è la storia di Mzia Amaghlobeli, fondatrice di due tra le maggiori testate indipendenti del Paese, «Batumelebi.ge» e «Netgazeti.ge», arrestata lo scorso gennaio per aver appiccicato un adesivo in solidarietà alle proteste, e poi trattenuta dopo aver dato uno schiaffo al capo della polizia di Batumi. Presa in custodia dalla polizia, fu obbligata ad assistere al pestaggio dei suoi colleghi. Nonostante le accuse ufficiali riguardino due reati di lieve entità, l’applicazione di un adesivo e uno schiaffo tirato, il 6 agosto scorso è stata condannata a due anni di carcere. “Ma a guardare bene – mi racconta una giornalista di «Publika.ge» – le prove sono state manipolate, le tempistiche non coincidono e la versione delle autorità cambia ogni volta che vengono avanzate perplessità e critiche da voci internazionali”.
Le nuove leggi, in fase di implementazione, obbligheranno le organizzazioni che ricevono oltre il 20% di finanziamenti dall’estero a registrarsi come entità che “perseguono gli interessi di una potenza straniera”, con severi requisiti e controlli sulla gestione di quei fondi. Queste nuove leggi sugli agenti stranieri, non sorprendentemente, sono pressoché identiche a quelle in vigore in Russia; leggi che ormai sono diventate – assieme alla vodka – uno dei prodotti di maggior successo esportati dal Paese. Dal 2012, anno in cui la Russia le ha introdotte, lo stesso modello è stato adottato da Paesi come il Nicaragua, dove è servito a chiudere oltre 3.600 organizzazioni no-profit e ONG, l’Egitto, e l’Ungheria, dove il partito di Orbán sta cercando di metterlo in atto nonostante il parere contrario dell’Unione Europea.
“Il problema non sono gli interessi stranieri nel Paese, o almeno non solo, ma piuttosto a quale sfera di influenza si desidera appartenere: la Russia o l’Unione Europea?” mi racconta Masho Loimashvili di «codastory.com», a margine della serata di mobilitazione. “Voglio vivere in un Paese che abbia un tribunale, magari soggetto a imperfezioni ed errori, certo, ma che funzioni almeno! Ora invece viviamo in un Paese dove il Procuratore Generale si scopre essere al servizio dei servizi segreti russi”, dice riferendosi a Otar Partskhaladze, capo delle procure georgiane fino al 2013, quando gli americani rivelarono che aveva condiviso per anni informazioni riservate con il Cremlino e l’FSB.
L’interesse della Russia in Georgia non è semplicemente commerciale, come quello europeo, ma di annessione culturale: “i manifestanti in piazza con la bandiera europea, non pensano che l’Unione Europea sia il Paese dei balocchi, ma che sia il male minore. Questa è la realtà. Tutti hanno i loro interessi: l’Occidente come la Russia, ma se l’Occidente ha soprattutto interessi economici, la Russia ha ambizioni coloniali. Sono due cose diverse, le stesse dinamiche che si protraggono da duecento anni”. Questo è evidente anche nella lingua, mi spiega Masho. In russo ci sono due modi per riferirsi a una persona russa: c’è россиянин (rossiyanin) per parlare di coloro che vivono nelle città più grandi e русский (russkij) per indicare tutti quelli che vengono dalla campagna e dalle zone più remote dell’ex Unione Sovietica. Il Caucaso però è una questione a parte: i georgiani infatti non sono considerati russkij, molto spesso ci si riferisce a loro con il dispregiativo “culi neri”.
Quando finisco di parlare con Masho è già tardi – il discorso ci ha coinvolti troppo per accorgerci del tempo che passava. La vedo stanca e, sinceramente, anche un po’ demoralizzata di fronte allo stato delle cose. Tuttavia, mi dice lei, quasi urlando: “[…] è troppo facile pensare che tutto sia una merda e che la catastrofe sia tanto grande da non poter essere affrontata. E che l’unica soluzione sia ritirarsi in una fattoria in campagna sperando che tutto questo non ti raggiunga mai. Ma così non si fa altro che il gioco dell’autoritarismo che sta fiorendo ovunque. La verità è che quello da cui stai fuggendo ti raggiungerà sempre, e l’unico modo che hai per sopravvivere è affrontarlo”.
Francesco Tedeschi
Francesco Tedeschi è giornalista freelance e collabora con «Domani», «Wired» e RaiRadio.
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