Abbiamo davvero bisogno della parola Antropocene? - Lucy
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Massimo Sandal

Abbiamo davvero bisogno della parola Antropocene?

Gli esseri umani stanno trasformando il pianeta, spesso in maniera irreversibile, portando a profondi cambiamenti climatici e ambientali. Eppure, dopo decenni di dibattito, la commissione scientifica responsabile ha bocciato la proposta di chiamare Antropocene, epoca dell'uomo, quella in cui viviamo oggi. Secondo i geologi siamo ancora nell'Olocene. Qual è il significato scientifico di questa scelta? Dobbiamo davvero sbarazzarci del termine Antropocene?

In quale epoca viviamo? Non l’Antropocene, sembrerebbe. Il 5 marzo 2024 un comitato di geologi ha votato contro l’introduzione dell’Antropocene nella scala temporale della Terra. È la conclusione ingloriosa di quindici anni di lavoro dell’Anthropocene Working Group, la commissione scientifica che ha cercato di dare concretezza formale a un concetto fin troppo familiare: siamo la principale forza che agisce sul pianeta, oggi.

Dal punto di vista climatico, certamente – senza di noi il clima sarebbe stabile – ma non solo. La traiettoria di vari limiti planetari sta sbandando verso condizioni inedite in tutta la storia recente del pianeta; la biosfera subisce quella che è forse la più grande estinzione di massa dalla fine dell’epoca dei dinosauri. Sono proprio queste ultime, spesso, a segnare confini tra le epoche geologiche.

Ora, tutto questo è assolutamente accertato: la comunità scientifica non lo mette in dubbio, inclusa quella dei geologi. Eppure, secondo la Commissione Internazionale sulla Stratigrafia, nulla sembra essere cambiato. 

Cosa è successo? È una Caporetto per decenni di dibattito accademico e culturale? Abbiamo inseguito un fantasma? Prima di annunciare il funerale dell’Antropocene è bene fare chiarezza. Le ere geologiche sono convenzioni, segnalibri che mettiamo tra le pagine del tempo per renderlo comprensibile. Sono definite geologiche perché la disciplina che legge i segni del tempo profondo sulla Terra è la geologia. Semplificando rozzamente: i geologi prima classificano le rocce, mettendo in ordine i vari strati deposti sulla Terra in unità stratigrafiche. Dopo, assegnano un’età a questi strati. Per capirci, prima mettono in ordine i capitoli del libro e poi si occupano di ricostruire quando i vari capitoli sono stati scritti.

Un esempio: quando i geologi dicono che si passa dal Cretaceo al Paleogene, questi vedono una discontinuità tra gli strati del capitolo “Cretaceo” e gli strati del capitolo “Paleogene”. In corrispondenza di questa discontinuità c’è uno strato sottile di iridio, la firma dell’asteroide che si è schiantato nello Yucatan 66 milioni di anni fa. È il segnalibro, una traccia misurabile nella roccia.

Questo segnalibro viene poi formalizzato con quello che viene chiamato golden spike, “chiodo d’oro”, che non è un chiodo e non è d’oro, ma una placca metallica che viene piantata nella roccia, dove l’Unione Internazionale di Stratigrafia definisce il punto di riferimento per quella suddivisione geologica. Il Pleistocene per esempio è definito in tutto il mondo a partire da un golden spike poco a nord di Gela, in Sicilia. 

La definizione proposta alla commissione per l’era dell’Antropocene si riferiva a un arco di tempo molto breve: meno di una vita umana fa. Il confine era posto intorno al 1950. Un tempo perfettamente documentato e documentabile da un punto di vista storico, ma difficilissimo da definire in senso geologico. I geologi dell’Anthropocene Working Group avevano deciso di usare come segnalibro gli isotopi rilasciati dall’esplosione delle bombe atomiche deposti nei sedimenti del lago Crawford, una placida pozza d’acqua ampia meno di 300 metri, in Canada, i cui quieti fondali documentano però strato dopo strato i cambiamenti ambientali degli ultimi secoli.

Abbiamo davvero bisogno della parola Antropocene? - Carote di sedimenti del lago Crawford; lo strato indicato come “Proposed GSSP 1950” era il confine proposto per l’Antropocene.

Carote di sedimenti del lago Crawford; lo strato indicato come “Proposed GSSP 1950” era il confine proposto per l’Antropocene.

Noi dunque dividiamo il tempo della storia della Terra usando gli strumenti e le logiche di una disciplina che non è adatta a descrivere un momento così recente. Ma i geologi che hanno votato contro la formalizzazione dell’Antropocene non sono necessariamente contro l’idea dell’Antropocene in sé; spesso sono contro la definizione di questo Antropocene. Per motivi tecnici, certamente (un esempio: le microplastiche, considerate un possibile marcatore geologico alternativo dell’Antropocene, tendono a diffondere lungo gli strati, rendendo di fatto impossibile il loro uso). Per alcuni invece il problema è che una data così recente implicherebbe che l’influsso umano sulla Terra sia roba di pochi decenni fa. E sappiamo che non è così.

Il geografo Erle Ellis che ha lasciato l’Anthropocene Working Group nel 2023 lo ha fatto proprio con questa motivazione: “La scelta dell’AWG di ignorare sistematicamente le prove schiaccianti della trasformazione antropica a lungo termine della Terra non è solo una cattiva scienza, ma è dannosa per la comprensione e l’azione pubblica sul cambiamento globale. […] Dividere la trasformazione umana della Terra in due parti, prima e dopo il 1950, provoca un danno reale negando la storia più profonda e le cause ultime della crisi socio-ambientale in corso sulla Terra. I cambiamenti planetari apportati dalle nazioni industriali e coloniali prima del 1950 non sono abbastanza significativi da trasformare il pianeta?”. È vero che intorno al Ventesimo secolo le cose accelerano e questo si può vedere nei sedimenti; ma forse la linea va posta ben prima. 

Esistono da tempo molti fautori di un Antropocene ‘remoto’, iniziato migliaia di anni fa, a partire da quanto propose William Ruddiman del 2003. Noi parliamo oggi di cambiamento climatico, ma – secondo Ruddiman e sodali – il nostro clima è anomalo da migliaia di anni, in realtà. I cicli astronomici dell’orbita terrestre dovrebbero portarci di nuovo lentamente verso un’era glaciale, ma da almeno 5000 anni questo semplicemente non accade. È come se un pendolo climatico si fosse fermato e fosse tornato indietro, e a spingere il pendolo siamo stati noi, con l’invenzione dell’agricoltura che cominciò lentamente a cambiare la concentrazione dei gas serra in atmosfera, ben prima del primo motore a scoppio.

In questo senso l’Antropocene, dal punto di vista geologico, coinciderebbe circa col Meghalayano, la suddivisione più recente dell’Olocene. Oppure il nostro segnalibro potrebbe dover tornare più indietro, al confine col Pleistocene, se consideriamo l’estinzione della fauna di grandi dimensioni tra 52.000 e 9.000 anni fa come la prima fase dell’attuale sesta estinzione di massa causata dalla nostra specie. In tal caso l’Antropocene non sarebbe che un altro nome dell’Olocene, formalmente l’attuale epoca geologica, che inizia 11.700 anni fa.  

“Cosa è successo? È una Caporetto per decenni di dibattito accademico e culturale? Abbiamo inseguito un fantasma?”

Al momento dunque l’Antropocene non può fregiarsi di un “chiodo d’oro”; per i geologi, siamo ancora nell’Olocene. Dovranno passare almeno dieci anni per una nuova proposta. Ironia vuole che sia stata l’ansia di formalizzarlo secondo le regole della geologia, cercando un segnale inequivocabile come gli isotopi artificiali generati dalle bombe nucleari, a portare a una proposta fuori sincrono rispetto alla vera età del nostro impatto planetario. Ma alla fine, importa? Dipende.

C’è chi ha suggerito che la definizione dell’Antropocene e della sua data d’inizio avesse un’importanza capitale, perché a ogni data d’inizio (o alla sua assenza) corrisponde una possibile diversa narrazione della nostra epoca.

Da un altro punto di vista, già nel 2016 vari geologi ammettevano che il voto formale sarebbe stato irrilevante per l’Antropocene come concetto scientifico e culturale ad ampio raggio. Antropocene è la crisi climatica e ambientale che viviamo tutti i giorni. È trovarsi imbottigliati nel traffico in un febbraio troppo caldo e capire che non è una coincidenza; è ammettere, come fa Amitav Ghosh, che le nostre letterature non bastano per raccontare il mondo che ci cambia tra le mani; è vedere sempre meno falene nelle notti d’estate – la biodiversità in declino; è scoprirsi non abitanti, ma miopi artefici di questo pianeta.

I geologi hanno le loro ragioni: Stan Finney, geologo della California State University, disse che “il nostro compito è definire unità di roccia, non di ratificare sconvolgimenti del sistema Terra”. Ma l’Antropocene è più di una linea sul fondo di un lago. È un concetto di cui non possiamo fare a meno per affrontare il destino del nostro pianeta. Libero dall’equivoco geologico, l’Antropocene è più pulsante, incombente che mai.

Massimo Sandal

Massimo Sandal è scrittore e giornalista scientifico. Il suo ultimo libro si intitola La malinconia del mammut. Specie estinte e come riportarle in vita (Il Saggiatore, 2019).

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