Anche la Terra ha i suoi limiti (e dobbiamo rispettarli) - Lucy
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Ferdinando Cotugno

Anche la Terra ha i suoi limiti (e dobbiamo rispettarli)

I “tipping point” e i “limiti planetari” sono come delle spie di controllo che servono a monitorare lo stato di salute della Terra. Oggi, tra crisi climatica, consumo di suolo, nuove estinzioni, quante di queste spie sono già accese? E con quale tono le raccontano gli scienziati che devono leggerle?

Mi hanno sempre affascinato le comunicazioni dei piloti d’aereo con le torri di controllo durante le emergenze. C’è qualcosa di ipnotico nel modo in cui la loro voce, nelle registrazioni, scandisce le parole, rimane ferma, calma, chiara, a suo modo rassicurante, non importa quanto grandi siano i problemi, le avarie o le bufere che stanno affrontando. Sono addestrati per comunicare in quel modo durante un’emergenza, perché è proprio in quei momenti che serve autocontrollo. L’ansia genera confusione, ambiguità, errori. I passeggeri possono urlare, piangere e rivolgersi a Dio, i piloti no. 

Per decenni, gli scienziati del clima hanno comunicato nello stesso modo: per quanto i dati diventassero sempre più preoccupanti, i toni dei rapporti e delle dichiarazioni pubbliche mantenevano un linguaggio  asettico: stavamo perdendo le condizioni necessarie per garantire la vita umana sulla Terra, ma non era un buon motivo per scegliere un lessico sguaiatamente emotivo. 

Con gli anni, però, la voce degli scienziati si sta incrinando con quel tipo di vibrazione che, a un passeggero di un aereo in caduta libera nel vuoto, farebbe più paura della caduta stessa. I ricercatori si stanno agitando, si uniscono ai gruppi di attivisti (Scientist Rebellion è da tempo una colonna di Extinction Rebellion), si fanno arrestare (come Peter Kalmus della NASA, sempre rigorosamente in camice bianco).

Se dovessimo individuare il punto esatto in cui la voce della scienza si è ufficialmente spezzata, però, quel punto sarebbero forse due parole di un gergo intraducibile, quasi infantile: ”Gobsmackingly bananas”, dove gobsmacking significa ‘sbalorditivo’ (è un aggettivo estremamente enfatico) mentre bananas è un vecchio modo di dire slang in inglese per intendere ‘fuori di testa’. Come dire: ‘fottutamente da pazzi’.

Le ha scritte qualche mese fa Zeke Hausfather, esperto di mitigazione dell’Università di Berkeley. Stava parlando di un’anomalia specifica, una delle tante, quanto caldo aveva fatto a settembre in riferimento alle medie attese, ma è un commento adattabile anche alla crisi climatica nella sua interezza fotografata nel 2023. Gobsmackingly bananas. La crisi fisica del pianeta è come la strumentazione a bordo di un aereo in cui tutte le spie sono rosse e lampeggianti. 

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Questo non vuole essere un pezzo catastrofista: l’umanità non è inerte, la transizione pur con le sue contraddizioni è in corso. Il nuovo World Energy Outlook dell’Agenzia internazionale per l’energia ci dice che nel 2030 il numero di auto elettriche sarà dieci volte quello che è oggi, che la metà dell’elettricità prodotta nel mondo verrà da rinnovabili (oggi è il 30%), che gli investimenti in nuovi progetti eolici offshore saranno tre volte superiori a quelli in nuove centrali elettriche a carbone e a gas.

L’ottimista compulsivo che c’è in noi (e che potremmo rappresentare con un personaggio simile a Bill Gates) ha di che nutrire le sue speranze. Il problema, però, è che finora siamo stati abituati a concepire il clima come un problema tripartito in modo tutto sommato semplice, come fece, in un famoso discorso, il climatologo James Hansen nel 1988: esistono cause, conseguenze soluzioni. E se le soluzioni neutralizzeranno le cause, saremo ragionevolmente a posto.

Nel frattempo, però, la nostra conoscenza del sistema climatico si è drammaticamente evoluta e ogni volta che mettiamo più a fuoco il problema, ci rendiamo conto che la situazione è gobsmackingly bananas

“Se dovessimo individuare il punto esatto in cui la voce della scienza si è ufficialmente spezzata, però, quel punto sarebbero forse due parole di un gergo intraducibile, quasi infantile: ‘Gobsmackingly bananas'”.

Ci sono due strumenti cognitivi chiave del discorso scientifico sul clima, due spie d’allarme che compongono quel set di lucette che ora sono rosse e lampeggianti: i tipping point – cioè i punti di non ritorno – e i limiti planetari.  I tipping point sono i limiti superati i quali un ecosistema cambia struttura di funzionamento in modo improvviso e irreversibile.

Una ricerca del 2022 ne ha individuati cinque pericolosamente vicini a quel punto di rottura. Quattro riguardano il ghiaccio, ai poli, sulle montagne e in Siberia. Uno le foreste. In Artico, al Polo Nord, l’estensione della copertura di ghiaccio è diminuita del 31% rispetto alle medie 1979-1988. La prima estate completamente libera dai ghiacci potrebbe arrivare già entro metà secolo.

Tecnicamente, l’Artico è ice free quando il ghiaccio scende sotto la soglia critica di un milione di chilometri quadrati, per ora il minimo che abbiamo raggiunto è cinque milioni di chilometri quadrati. L’evento avrebbe un nome che, con epica ambiguità, potrebbe essere il titolo di un film di fantascienza: blue ocean event.

Si aprirebbero nuove rotte di navigazione (già sfruttate commercialmente dalla Russia oggi) ma cambierebbero gli equilibri di tutti gli oceani globali: più si riduce la differenza di temperatura di Polo Nord e il resto dell’emisfero, più aumentano intensità e forza delle tempeste.

L’Antartide, al Polo Sud, reagisce per fortuna più lentamente al riscaldamento globale, ma le piattaforme galleggianti di ghiaccio sul lato occidentale del continente si stanno assottigliando sempre di più, minacciando la stabilità di tutto il continente. È come se quelle piattaforme fossero degli scudi contro il lavorio dell’oceano, e quegli scudi ora stanno cedendo proprio mentre l’oceano diventa più caldo.

Il clima è così: una storia di circoli viziosi. Così come stanno cedendo i ghiacciai alpini: tra la fine degli anni Novanta e oggi hanno perso 30 metri di spessore in media. Solo negli ultimi due anni hanno ridotto il 10% del loro volume complessivo: è un disastro anche per gli stock idrici per paesi come l’Italia, che dipendono dalla salute del ghiaccio per bere, irrigare, mandare avanti l’industria e, in generale, avere dei fiumi in salute.

Il permafrost è invece il suolo permanentemente ghiacciato, copre immense zone del Canada e soprattutto della Siberia, può essere spesso fino a un chilometro, in teoria era inattaccabile, infatti la maggior parte dei modelli climatici su cui basiamo le valutazioni sul futuro non lo calcolano nemmeno, il permafrost. E invece. (Quanti “e invece” ci sono in questa storia). Il suo collasso sta rilasciando CO2 (lì dentro ce ne sono 39 miliardi di tonnellate, il doppio di tutte le foreste europee), metano e anche materiale biologico del quale non sappiamo niente, visto che era intrappolato nel permafrost da migliaia di anni. Infine, le foreste tropicali sono sull’orlo del loro tipping point, più diventano piccole e meno sono in grado di riprendersi dagli shock che si susseguono anno dopo anno (incendi, siccità, tagli). Gli shock le rendono più piccole. Se sono più piccole, sono più vulnerabili agli shock. Loop. 

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E poi ci sono i limiti planetari, che sono una riformulazione teorica e cognitiva del nostro intero stare al mondo come specie. Non hanno a che fare con gli ecosistemi, hanno a che fare con noi. Sono dei selfie su scala terrestre. Sono stati individuati da uno degli esperti di clima più seguiti al mondo, lo svedese Johan Rockström che ha guidato lo Stockholm Resilience Center e il Potsdam Institute for Climate Impact Research.Grazie anche al lavoro svolto in questi istituti, Rockström ha codificato l’idea di un limite planetario che funziona come uno spazio operativo di sicurezza.

Se si guida a 120km/h orari su una strada di montagna a doppio senso di marcia e molte curve, si finisce fuori dal proprio spazio operativo di sicurezza. Col nostro pianeta, stiamo facendo la stessa cosa. Secondo Rockström e il suo team, i limiti planetari sono nove, l’ultimo studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research ha misurato che per sei di questi nove limiti siamo già fuori dai confini di sicurezza. È come fare sei infrazioni stradali gravi e pericolosissime tutte insieme.

La prima è il cambiamento climatico, al quale sembriamo ridurre ogni discorso ma che da questa prospettiva è solo parte del problema: inseriamo CO2, metano e altri gas serra in atmosfera, le temperature aumentano più di quanto siamo in grado di gestire o adattarci, causando scompensi di ogni tipo (ondate di calore, siccità, aumento della frequenza delle tempeste, innalzamento del livello del mare).

Secondo una ricerca recente di James Hansen, fino a oggi il rapporto tra emissioni e aumento di temperatura è stato lineare. Ora qualcosa sta andando ancora più storto, e il riscaldamento starebbe accelerando. Hansen è uno dei climatologi più ascoltati al mondo, quello che dice ha il sapore di Cassazione, anche perché fu il primo a prendersi la briga di spiegare l’emergenza climatica al Congresso USA, nel 1988.

Ma torniamo ai limiti planetari. Il secondo è il cambio di uso del suolo, che è strettamente legato alla crisi climatica (e che tende ad aggravarla): è la trasformazione in corso su vasta scala, ovunque nel mondo, di foreste in terreni agricoli, miniere, infrastrutture, pascoli, intere città. Al suolo è collegato un’altra infrazione planetaria, la terza: il flusso biogeochimico fuori controllo. Sono gli effetti avvelenati della moderna agricoltura intensiva, che invece di ridurre la fame globale aumenta solo i tassi di obesità e di spreco di cibo, alterando allo stesso tempo due cicli base della vita con il massiccio uso di fertilizzanti: quello del fosforo e quello dell’azoto.

La chimica di sintesi ha poi la sua categoria dedicata nello schema di Rockström ed è un altro limite planetario nel quale oggi operiamo fuori da ogni sicurezza, il quarto: è la somma di tutti i composti chimici che non esistono in natura, tutto quello abbiamo inventato in un laboratorio, dalla plastica alla cosmetica passando per le bombe atomiche, che produciamo su scala industriale e che devastano ogni sistema vivente in proporzioni che ci sono ancora ignote. Il vero materiale che ci ha trasformato in Prometeo non è il fuoco, né l’atomo, è la sintesi chimica. È una delle corse più folli in assoluto: dal 1950 i composti chimici industriali sono aumentati di cinquanta volte, entro il 2050 questa quota triplicherà ancora.

Il quinto limite planetario è l’acqua dolce: per essere certi di non devastare la risorsa, dovremmo usarne 2800 chilometri cubi all’anno, oggi siamo quasi al doppio, in un range che va da 4.000 a 6.000 chilometri cubi all’anno. È come avere un conto in banca sempre in debito, fino al giorno in cui ci sequestreranno la carta e ce la taglieranno.

Il sesto è chi paga il conto di tutto questo, cioè ogni cosa che è viva o è stata viva su questo pianeta, la biodiversità e la sua estinzione di massa, la prima in miliardi di anni di storia della Terra causata da una singola specie. L’estinzione è un fatto naturale, non lo è la velocità con la quale le specie stanno sparendo o rischiano di sparire dalla Terra. Oggi il tasso di estinzione è stimato tra 1.000 e 10.000 volte più veloce di quello fisiologico, il 30% di mammiferi, uccelli e rettili rischia di sparire entro la fine di questo secolo.

Tre invece sono i limiti dentro i quali operiamo (per ora) ancora in sicurezza e vale la pena scriverli per ricordarceli, la nostra quota mentale buone notizie (o, almeno, notizie non cattive): il livello di acidificazione degli oceani, lo strato di ozono e il carico di aerosol in atmosfera.

“E poi ci sono i limiti planetari, che sono una riformulazione teorica e cognitiva del nostro intero stare al mondo come specie. Non hanno a che fare con gli ecosistemi, hanno a che fare con noi. Sono dei selfie su scala terrestre”.

La scala di quanto scritto finora può essere sfiancante, quindi torniamo a parlare con le persone, perché tutto quello che inseriamo nella vasta categoria delle scienze del clima procede dall’infinitamente specifico fino ai sistemi generali, i punti di non ritorno, i limiti planetari, o i rapporti ciclici dell’IPCC, per arrivare a comporre il disegno di quello che sappiamo del clima terrestre e dei nostri effetti su di esso.

All’inizio di questa lunga catena della conoscenza ci sono degli esseri umani, gli scienziati, cioè le persone che passano tutta la propria carriera a sorvegliare una singola spia accesa, misurando lo stato e spesso la crisi del singolo ecosistema a cui dedicano la vita intera, cercando di collegarlo al disegno generale, nel tentativo, mai facile e spesso disperato, di farsi capire e ascoltare nel rumore della crisi generale. Ognuno di loro è custode, testimone ed evangelizzatore di quel pezzo di mondo danneggiato. 

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Giorgio Vacchiano è uno scienziato forestale, insegna all’Università Statale di Milano, nel 2018 fu inserito da «Nature» nella lista degli undici scienziati su cui scommettere per il futuro della ricerca globale. È uno di quelli che ancora parlano con la voce calma del pilota che non si fa spezzare dalle spie accese, anche se le foreste su cui fa ricerca sono l’ecosistema che più di tutti gli altri si trova all’intreccio di limiti planetari superati e punti di non ritorno da non superare e figurano, in modi diversi, in entrambe le categorie. Un problema multilivello, soprattutto su scala globale e soprattutto se guardiamo l’America centrale e meridionale, la ferita aperta del mondo vegetale su scala globale.

“Le foreste non sono statiche, hanno la capacità di auto-rigenerarsi”, mi spiega Vacchiano. “A noi non preoccupa mai la sorte dei singoli alberi, che muoiono in continuazione, ma quando il sistema ecologico perde quella capacità di rigenerarsi”.

I forestali ricordano sempre che boschi e foreste hanno una grande capacità di ripresa. Magari cambiano forma e si adattano a un nuovo clima, combattono, come nel nord-est italiano dopo la tempesta Vaia del 2018, quando oltre dodici milioni di alberi furono abbattuti da un vento caldo di scirocco a ottobre. Quello fu uno shock climatico, il peggiore mai subito dai nostri boschi, che però sono ancora al di qua di qualsiasi punto di non ritorno, con tutte le loro fragilità. Le foreste del nord globale sono relativamente in salute, in Nordamerica e in Europa continuano a conquistare spazio. In Africa ma soprattutto in Sudamerica, invece, collassano a ritmi spaventosi.

Nel 2022 si sono persi 4,1 milioni di ettari di foresta primaria tropicale, un dato altissimo che è anche uno scossone climatico: le foreste assorbono CO2 dall’atmosfera e ci aiutano a mitigare il riscaldamento globale. In pratica, è come se alla crisi climatica, per la CO2 rilasciata in atmosfera delle foreste perse nel 2022, si fosse aggiunto un paese delle dimensioni dell’India. 

Il punto di non ritorno non sono però nemmeno i milioni di ettari persi in sé, ma il fatto che le foreste non riescono più a ricrescere, nemmeno se gli lasciassimo lo spazio per farlo. Molte di quelle tropicali stanno proprio diventando un altro tipo di ecosistema. Questo processo si indica con una parola brutta e temibile: ”savanizzazione”, enormi polmoni umidi e verdi che diventano spazi aridi.

La savanizzazione dell’Amazzonia potrebbe essere distante pochi decenni e per chi studia le foreste è la madre di tutte le lucette rosse. ”Non sarà un singolo evento a portarci lì, ma la combinazione di tanti diversi eventi climatici: gli incendi combinati alla siccità, combinati ai tagli a raso, combinati alle temperature più alte per periodi più lunghi”. È la deforestazione che combinata al riscaldamento globale spezza il ciclo dell’acqua, la fine di un mondo. ”A quel punto ecologicamente i piccoli arbusti meno assetati di acqua si rivelano più in grado di sopravvivere dei grandi alberi”, conclude Vacchiano. Savana amazzonica. La voce? Sempre calma. 

”La fusione del ghiaccio è uno dei simboli più potenti nel rappresentare la crisi climatica. L’esistenza stessa del ghiaccio è legata alla temperatura, reagisce in modo immediato al riscaldamento globale”. Giovanni Baccolo è un glaciologo (scherzando, dice che ha paura di doversi trovare presto un altro lavoro, visto il tasso di scomparsa dei ghiacciai) e un divulgatore (attraverso le pagine social del progetto “Storie minerali”).

Nell’estate 2022 ha fatto una spedizione in uno degli ecosistemi più affacciati sull’orlo del baratro, la Groenlandia settentrionale: ascoltandolo ci si ricorda come a volte, parlando di clima, siamo abituati a confondere il remoto con l’astratto. I luoghi dove la crisi è più acuta non sono immaginari, sono solo lontani. ”Ma non saranno lontani nelle conseguenze. I ghiacciai sono il termometro del pianeta”, commenta Baccolo. I poli nord e sud rappresentano due tipi di problemi diversi, che in comune hanno soprattutto la magnitudo del guaio in cui ci troviamo.

L’Artico è un oceano circondato dalla terra ed è il polo messo peggio. Una ricerca dell’Istituto meteorologico finlandese ha misurato che il suo ritmo di aumento di temperatura è quattro volte superiore alla media globale. Se nel mondo è +1.15°C, qui abbiamo già superato i +4°C. Succede per un meccanismo chiamato amplificazione artica. Più fa caldo, più il ghiaccio fonde. L’acqua è scura e assorbe il calore, il ghiaccio è chiaro e lo riflette. Quindi più ghiaccio perdiamo e più assorbiamo calore, più assorbiamo calore e più ghiaccio perdiamo, e così via. In fondo è il motivo per cui se ci sono 40°C difficilmente usciamo vestiti di nero.

“È come avere un conto in banca sempre in debito, fino al giorno in cui ci sequestreranno la carta e ce la taglieranno”.

L’Antartide invece è un continente circondato dall’oceano ed è stato sempre considerato più stabile, ma nel 2023 il ghiaccio marino intorno al continente ha toccato i suoi minimi di sempre alla fine dell’inverno, oltre un milione di chilometri quadrati in meno rispetto al precedente record. Bananas, una cosa al limite dell’inspiegabile per gli scienziati. Senza il ghiaccio marino (e quello galleggiante) i grandi ghiacciai diventano instabili. Come il gigante Thwaites, quello che, in spregio alla sobrietà comunicativa, è stato soprannominato ”ghiacciaio dell’apocalisse”, un gigante fragile grande quanto la Gran Bretagna.

L’ultima volta che hanno fatto una valutazione, la missione congiunta USA – Regno Unito lo ha descritto come ”il parabrezza di un’auto pieno di crepe sul punto di aprirsi”. Quando chiedo a Baccolo se a volte gli viene voglia di urlare, mi dice che “tra scienziati a volte i toni diventano accesi, ma i toni accesi usati verso l’esterno portano solo critiche e non cambiamenti. Qualcuno dovrebbe prendere questi risultati e agire di conseguenza, ma non c’è nessuna infrastruttura politica in grado di occuparsene: noi percepiamo uno scollamento enorme tra comunità scientifica e decisori politici. Ma non è urlando che si chiuderà”.

Il limite planetario più complesso da comprendere è probabilmente quello che va sotto il nome di novel entities, i composti chimici che non esistevano fino all’Olocene – l’era geologica precedente alla rivoluzione industriale e all’Antropocene – e che sono stati creati dagli esseri umani per scopi commerciali o industriali: sono 350mila. ”Includono tutto quello che è artificiale, quello non sono le fragole, gli oceani, i funghi o le balene, tutto il resto: solventi, pesticidi, farmaci, vernici”, mi spiega Bethanie Carney Almroth dell’Università di Goteborg. ”Il principale rischio che corriamo, in quest’ambito, è il non sapere che rischio corriamo. La maggior parte di questi composti sono segreti industriali, non sono mai state fatte ricerche pubbliche sugli impatti”.

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Sui limiti planetari chimici è come guidare a 120 km/h su una strada di montagna, e pure bendati. Le novel entity sono la base della nostra tossicità sul pianeta e su noi stessi, migliaia di composti che alterano gli ecosistemi come il corpo umano. Il più pericoloso e pervasivo di tutti è anche uno dei materiali più usati al mondo: la plastica, 13.000 componenti chimici, di cui 3.000 tossici. Carney ha lavorato nel team che ha dichiarato questo limite superato. “In questo momento siamo nella posizione in cui non possiamo più prevenire il danno”. Non c’è economia circolare che tenga sulla plastica: globalmente solo il 9% viene riciclato. In questo momento il negoziato delle Nazioni Unite per un trattato internazionale sul contenimento del danno da materie plastiche è uno dei processi geopoliticamente più affascinanti (e complessi) al mondo. Dovrebbe giungere a destinazione nel 2024, se scritto bene sarà l’equivalente dell’accordo di Parigi (quello sul clima) e sarà un freno di emergenza. 

Questa è una fotografia articolata, piena di cose, difficile da digerire. Il discorso sulla crisi climatica com’è impostato oggi ha il problema di sembrare un problema grande ma singolo, che ci si può affrontare o negare nella sua interezza, pillola rossa o pillola blu.

Le griglie interpretative complesse come i tipping point o limiti planetari aumentano invece la risoluzione di quello che vediamo, e con la risoluzione può crescere lo sconforto. In economia la fila di spie rosse accese si chiamerebbe esternalità negative, costi nascosti.

Il nostro impatto corrisponde a un modo specifico di produrre, e quel modo di produrre a uno specifico modo di vivere. Entrambi stanno cambiando la forma e il funzionamento della Terra dalla quale attingono i materiali base.

“Il nostro rapporto con il posto che abitiamo è stato fondato su una cecità selettiva: come se il non rinnovabile fosse rinnovabile, come se il finito fosse infinito, come se il fragile fosse indistruttibile”.

I geologi definiscono il punto di passaggio da un’era geologica alla successiva Global Boundary Stratotype Section and Point, GSSP, più colloquialmente “chiodo d’oro”. Il chiodo d’oro è un punto fisico, specifico, si può vedere e toccare, allo stesso tempo simbolico e concreto.

Oggi c’è una commissione al lavoro per cercare dove mettere la bandierina del passaggio dall’Olocene, il mondo prima di noi, all’Antropocene, il mondo con noi dentro. C’è un dibattito lessicale che appassiona più gli economisti radicali e i filosofi che i geologi, se sia il caso di parlare di Capitalocene, ma è un’altra storia.

La commissione sembra aver individuato il GSSP perfetto in un lago canadese, Lake Crawford, sul cui fondale si vedono le tracce di tutto quelle che siamo e siamo stati, dai test atomici alla produzione di alluminio e cemento. Lo hanno definito “codice a barre dell’umanità”. Anche questo è una specie di autoritratto biologico su scala geologica ed è come le spie rosse accese: un discorso sulla responsabilità molto più di quanto contenga un discorso sulla disperazione.

Il nostro rapporto con il posto che abitiamo è stato fondato su una cecità selettiva: come se il non rinnovabile fosse rinnovabile, come se il finito fosse infinito, come se il fragile fosse indistruttibile. Le spie accese, e tutte le loro manifestazioni osservabili nella nostra scala quotidiana, ci stanno finalmente dicendo il contrario. Ogni luce lampeggiante che dice pericolo è una chiamata all’azione, è corredata da un piano operativo, diplomatico, politico, produttivo, esistenziale, personale, collettivo, qualcosa da fare, una lunga lista di cose da fare.

È il pezzo più importante della storia, è quello che vi dirà quasi ogni scienziato, a prescindere dall’ecosistema di cui è custode e dal danno che ha osservato, è allo stesso tempo la morale e il finale e la trama: si può ancora fare.

Si può ancora fare molto. Per arrivare dove, di preciso? Non c’è una risposta chiara. Molti dicono: i limiti di temperatura dell’accordo di Parigi. Oppure un concetto vago e multiuso: la sostenibilità. O la lettura economicista: la fine della crescita, la post-crescita. Si potrebbe dire: si può ancora fare molto per allontanarci dai punti di non ritorno, o rientrare nei nostri limiti planetari. In sostanza, per smettere di essere forza geologica e tornare a essere specie biologica. 

Ferdinando Cotugno

Ferdinando Cotugno è giornalista freelance. Il suo ultimo libro si intitola Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).

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