E se l’eroe di cui abbiamo bisogno fosse Ned Ludd? - Lucy
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Giacomo Ferrara

E se l’eroe di cui abbiamo bisogno fosse Ned Ludd?

Ned Ludd è una figura mitica che negli ultimi due secoli ha ispirato rivolte e proteste contro l'oppressione dei sistemi di sfruttamento. Per questo ha affascinato molti scrittori, da Lord Byron a Thomas Pynchon. Oggi, per liberarci dalle angherie dell'algoritmo, ci vorrebbe un nuovo eroe luddista. Almeno in letteratura.

L’anno scorso, durante uno degli ultimi collegi docenti, nella scuola in cui insegno abbiamo discusso il piano di spese del PNRR. È una cosa interessante, il collegio docenti, se non altro per il suo spirito ateniese che permette a chiunque, tra i quasi cento partecipanti, di esprimere la propria opinione ogni volta che ne senta il bisogno.

Un collega, in particolare, si è distinto per la veemenza del suo intervento, risvegliandoci tutti dal torpore post-prandiale. Stavamo per approvare un piano che prevedeva di acquistare visori, proiettori 3D e, in generale, una gran quantità di strumenti tecnologici, in linea con l’obiettivo Next Generation EU di trasformare le “aule tradizionali” in “innovativi ambienti di apprendimento ibrido”. 

La scuola non è questo, ha tuonato il collega, si fa con la carta (gli studenti) e il gessetto (noi, i docenti). E poi: se i nostri bagni cascano a pezzi (vero), che importa di un paio di tablet in più? E ancora: un accordo del genere serve solo a far guadagnare le società appaltatrici, che ci rivendono i suddetti tablet a un prezzo maggiorato, e fa comodo al governo, perché è il modo più semplice e veloce per spendere tutti i soldi forniti dal PNRR, che è l’unica cosa che interessa ai giornali. Infine: così si permette una pericolosa infiltrazione delle multinazionali all’interno della scuola, perché vedere Giulio Cesare in forma di ologramma forse è fico, ma si tratta di storiografia, non di un videogioco, e non è un bene che venga sviluppato da un gruppo di programmatori californiani (i libri di testo, per lo meno, di solito sono scritti da accademici, e ce ne sono molti: ogni docente decide sulla loro adozione).

Ero d’accordo con le argomentazioni del collega? Sostanzialmente sì. Ma il modo in cui venivano esposte mi preoccupava: sembrava una posizione maturata sui gruppi Telegram, ed era stata espressa con rabbia e sputacchi, e con un lessico alquanto respingente. A scuola, come nel resto del mondo, eravamo appena usciti da due anni di discussioni sulle misure anti COVID, dunque dalla sciagurata opposizione benpensanti contro complottisti. Il collega non aveva dato segnali chiari, non aveva parlato di 5G o vaccini, ma mi sembrava comunque pericolosamente vicino al secondo schieramento. Cosa che io non volevo essere. Per questo, quando ha concluso il suo intervento con la proposta di non spendere nemmeno una lira, non mi sono unito agli applausi che hanno riempito l’aula magna.

“La scuola non è questo, ha tuonato il collega, si fa con la carta (gli studenti) e il gessetto (noi, i docenti). E poi: se i nostri bagni cascano a pezzi (vero), che importa di un paio di tablet in più?”

Mi sono sentito in colpa. Un tempo, il collega lo si sarebbe definito un luddista, per via della sua cocciuta opposizione alle nuove tecnologie. Ora lo avrei definito populista, se non proprio complottista, per il semplice motivo che il suo tono di voce era più alto del normale. Confido che se anche qualcuno di voi, come me, fosse d’accordo con lui, non vorrebbe essere chiamato in nessuno di questi due modi. 

Da allora mi è rimasto un senso di insoddisfazione. Col tempo, rimuginandoci su, sono arrivato a invidiarlo, il collega, per aver trovato la forza di incazzarsi. A me, che pure ho la metà dei suoi anni, opporsi alla proposta sembrava inutile; meglio far finta di niente, nella speranza di tornare a casa il prima possibile.

Eppure qualcosa in me quel giorno si era risvegliato. In verità, sono arrivato a pensare, io vorrei davvero essere un luddista. Ho chiare di fronte a me tutte le storture delle tecnologie digitali, l’egemonia dell’algoritmo, il modo in cui i dati vengono usati per di controllo sociale, ho letto Il Capitalismo della sorveglianza, in classe insegno ogni anno dei moduli di educazione contro la dipendenza dagli schermi.

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Eppure non ho mai avuto un decimo della rabbia e della convinzione mostrate dal mio collega. Mi sembra di sentire la voce della mia terapeuta: lei deve darsi il permesso di esprimere le sue emozioni. Ma se poi mi prendono per uno zotico o uno svitato? Lei deve preoccuparsi meno del giudizio degli altri.

D’accordo, è vero. Ma resta il fatto che alcune posizioni anti-tecnologiche, oggi, continuano a sembrarmi troppo vicine a mondi che non mi convincono, e non solo sul piano estetico. E attorno a me non vedo esempi positivi a cui appigliarmi, da cui trarre ispirazione. Dunque la domanda: cosa significa, nel 2023, essere un luddista? Un “buon” luddista? 

Innanzitutto, un po’ di storia.

1. Nascita e morte di una leggenda



Di tutti gli eroi, reali o immaginari, pochi sono simpatici come Ned Ludd: un uomo la cui fama è dovuta a un attacco di rabbia. Siamo alla fine del Diciottesimo secolo, in provincia di Nottingham, nel pieno della Rivoluzione Industriale. Ludd viene accusato di oziare sul lavoro. Secondo alcune versioni della leggenda, lo prendono in giro perché in paese lo considerano un po’ scemo. Secondo altre, a redarguirlo non è uno qualsiasi, ma suo padre. Fatto sta che Ludd viene punito con delle frustate. Per tutta risposta, acchiappa un martello e sfonda il telaio a cui lo volevano far lavorare.

Nel 1811, cioè qualche decina di anni dopo il mitico evento. Oltremanica, passando per decapitazioni e cambi di calendario, è arrivato Napoleone. Un gruppo di calzettai inglesi – giacobinizzati, affamati dalla guerra che si combatte sul continente – si organizza per compiere una serie di sabotaggi nelle fabbriche tessili. Il loro eroe è proprio Ludd, che – l’ammirazione sfociata magnificamente nello sfottò – viene ormai invocato con l’appellativo di King Ludd.

Sono gli anni d’oro dei luddisti, quelli veri. Il nome di King, o Gen’rall, Ludd appare in calce alle lettere di minacce ricevute dai proprietari delle fabbriche, e viene indicato come il responsabile delle azioni di sabotaggio. Lord Byron è un simpatizzante: dedica loro un poemetto, Song for the Luddites, e in parlamento è l’unico a opporsi al Frame Breaking Bill, che condanna le loro azioni con la pena di morte.

“Di tutti gli eroi, reali o immaginari, pochi sono simpatici come Ned Ludd: un uomo la cui fama è dovuta a un attacco di rabbia”.

Fra i luddisti vige la completa segretezza. Secondo alcuni, il movimento, che ha dimostrato una capacità di organizzazione sorprendente, sarebbe finanziato dai Francesi. Sviluppatosi a macchia nelle altre città, il movimento sembra ora sul punto di diffondersi anche a Londra. E infatti, nel 1817 il governo ricorre alle misure d’emergenza: l’Habeas Corpus Suspension Act, che ricorre nella storia della Gran Bretagna solo una manciata di volte, nei suoi momenti più critici. Bonaparte è a Sant’Elena da più di un anno. Le rivolte infine si placano, e molti di loro vengono spediti in Australia.

Ma Ludd non è la sola figura mitica che in quegli anni servì a riunire, ispirare e coprire le proteste contro le condizioni di lavoro imposte dai nuovi macchinari. Nel 1830, un gruppo di agricoltori del Sussex minaccia di distruggere le trebbiatrici appena introdotte sui campi, e firmano le loro lettere con il misterioso nome di Captain Swing. Ancora: fra il 1839 e il ’43, certi contadini gallesi prendono l’abitudine di danneggiare i caselli di pedaggio delle strade di campagna travestiti da donne, autoproclamandosi Figlie di Rebecca. Chi dovesse essere, la figura mitologica minore di nome Rebecca, non è dato sapere. 

Cinque anni più tardi, e siamo giunti al 1848, e dunque al Manifesto del Partito Comunista (pubblicato originariamente proprio a Londra). L’opera di Marx e Engels fornisce ai lavoratori un impianto teorico che contribuisce a creare un vero Movimento Rivoluzionario Internazionale. Niente a che vedere con quei moti ingenui ispirati da buffi eroi popolari, certo. Anziché spaccarle, le macchine, è molto meglio appropriarsene: re-indirizzare il progresso tecnologico nel verso giusto.

In effetti, così come lo recepiamo oggi, il verbo di Marx porta nella filosofia del lavoro un principio fondamentale, che si potrebbe definire “tecnodeterminismo”: il progresso tecnologico non sarebbe solo un’opportunità per l’emancipazione del proletariato, ma la condizione necessaria.

È un principio che trova la sua massima espressione durante la Seconda Internazionale comunista, e poi con Stalin, ma è un’idea che al giorno d’oggi trionfa anche nel senso comune: abbiamo tutti l’impressione che la Storia sia determinata dallo sviluppo della tecnica. Lo insegniamo a scuola, ad esempio quando spieghiamo che l’affermazione della teoria eliocentrica è stata resa possibile dal perfezionamento del telescopio, o che l’Impressionismo è scaturito dalla diffusione della fotografia e dei pratici tubetti di colore.

“Fra il 1839 e il ’43, certi contadini gallesi prendono l’abitudine di danneggiare i caselli di pedaggio delle strade di campagna travestiti da donne, autoproclamandosi Figlie di Rebecca”.

Ma queste sono cose note. Ciò che a noi interessa è una questione apparentemente più marginale, e cioè che con l’entrata in scena di Marx e del partito comunista, qualcosa nella lotta proletaria sembra perdersi per sempre: il gusto per gli eroi che si ribellano alla macchina, come Ned Ludd, Rebecca, o il Capitano Swing.

2. Il luddismo in letteratura

In uno dei suoi rarissimi articoli giornalistici, dal titolo Is it OK to be a Luddite?, Thomas Pynchon non li chiama proprio eroi, ma badass: personaggi forti e grossi – non necessariamente cattivi, ma nemmeno teneri – che riescono ad avere la meglio sui marchingegni tecnologici in virtù dei loro muscoli e – dettaglio importante – grazie a qualcosa di magico o miracoloso, qualcosa cioè che, bene o male, vìoli una qualche legge della fisica. Il sovversivo badass , secondo Pynchon, arriva quando la gente è atterrita e si sente “alla mercé di forze […] molteplici, amplificate, più che umane”. La sua gagliarda ribellione avrebbe così l’effetto di vivificare gli animi, dimostrando che quegli agenti nemici sono in qualche modo scalfibili. Pynchon l’articolo lo scrive nel 1984. Ciò che allora aveva in mente erano le armi nucleari, ma già prevedeva qualcosa di ancora più inquietante:

Se il nostro mondo sopravvive, la prossima grande minaccia da cui guardarsi arriverà – lo avete sentito qui per la prima volta – quando le traiettorie di ricerca e sviluppo in intelligenza artificiale, biologia molecolare e robotica convergeranno tutte insieme. Ragazzi miei!

Nel proseguire il suo articolo, Pynchon sembra voler delineare un vero e proprio genere letterario luddista. Le sue origini risalirebbero agli stessi anni delle rivolte contro le fabbriche tessili, ossia quando Mary Shelley scriveva Frankenstein, in una villa di Ginevra in cui lo stesso Byron era stato ospite. Prima di lei, anche quello che è considerato il capostipite dei romanzi gotici – Il Castello di Otranto, di Horace Walpole – vedeva come protagonista un badass nato dal miscuglio di tecnica e magia. Con le sue ambientazioni fatte di castelli medievali e laboratori alchemici, il romanzo gotico rispondeva al bisogno di rifarsi a un’epoca antecedente all’Illuminismo (e, diremmo noi, al materialismo storico), che aveva definitivamente rilegato al passato la possibilità di un evento miracoloso, in favore dell’inevitabile progredire della Scienza. Quelle luddiste sono narrazioni nate nella notte, dal sogno e dalla nostalgia per il sovrannaturale. Per questo, corrono continuamente il rischio di essere bollate come “poco serie”, come semplice escapismo, dai teorici tecnodeterministi. 

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King-Kong, che è apparso per la prima volta sugli schermi nel 1933, sembra essere l’ultima narrazione che Pynchon considera come autenticamente luddista. Infatti la fantascienza della Guerra Fredda si sarebbe ritirata in “temi umanistici, […] paradossi e giochi con lo spazio/tempo, bizarre questioni filosofiche”, rinunciando a confrontarsi con le preoccupazioni del suo tempo (con la bomba atomica, in particolare). 

Si potrebbe dire che dieci anni prima lo stesso Pynchon aveva provato a colmare questa assenza di luddismo letterario. L’arcobaleno della gravità, la sua opera più ambiziosa, era incentrata attorno alla costruzione di una terrificante arma nazista e agli sforzi di fermarla da parte di un eroe, Tyrone Slothrop, che non disdegna i travestimenti e sembra godere di uno strano potere magico (quello di connettersi, attraverso le sue erezioni, con i missili V-2). 

Ebbene, sono cambiate le cose dal 1984 a oggi? Qual è lo stato di salute delle narrazioni luddiste? Matrix ne è stato certamente un esempio. Anche lì, in effetti, era presente una componente miracolosa: Neo, questa strana reincarnazione di Ned Ludd, si rivela essere niente meno che l’Eletto, l’unico in grado di guidare la rivolta contro le macchine.

Allargando un po’ di più il campo, mi chiedo se non sia possibile includere nella nostra categoria narrazioni come il film The Social Network di David Fincher o il romanzo The Circle di Dave Eggers. Sono storie che hanno il merito di mostrare la genesi dei social network evitando così di presentarli sin dall’inizio come il Colosso Inarrestabile a cui ormai siamo abituati.

Questa, forse, è una strada promettente. Può servire a smontare uno dei preconcetti soggiacenti al tecnodeterminismo, secondo cui le invenzioni tecnologiche proverrebbero da un mondo adamantino e distante, quello dell’accademia e, delle start-up, che non conosciamo e che, scollegato dal resto della società, obbedisce a leggi interne imperscrutabili (per anni, dall’esterno abbiamo creduto alla narrazione restituita dalle immagini di impiegati felici che giocano a ping-pong in ufficio). Storie come queste mostrano le imperfezioni, le liti, gli interessi economici e personali, la macchia umana che determina la nascita delle tecnologie. 

Cosa ne è, invece, del luddismo vero e proprio? La minaccia atomica è scivolata in basso nella lista delle nostre preoccupazioni, ma il controllo delle macchine, non c’è bisogno che ve lo ricordi, si è espanso su ogni aspetto della nostra vita, ben al di fuori dei capannoni industriali. Di fatto, oggi ci troviamo tutti in una catena fordista permanente. 

3. Alla ricerca di un nuovo Re

Nel saggio Tecnoluddismo l’autore Gavin Mueller individua la stessa contrapposizione tra luddismo e tecnodetermismo, seppure traslata fuori dal piano della letteratura. Da una parte ci sono i teorici, che, forti del loro idealismo e di una concezione teleologica della Storia, declamano l’inevitabilità del progresso tecnologico (li si trova in ogni parte dello spettro politico). Dall’altra i lavoratori, che hanno escogitano ogni volta nuovi modi per sfuggire alle angherie a cui quella stessa tecnologia li sottopone. Mueller ne stila una lista più che convincente: le orchestre del cinema muto che fecero esplodere i nuovi impianti di sonorizzazione, le Pantere Nere che nel loro programma in dieci punti chiedevano il “controllo delle nuove tecnologie da parte della comunità”, le rivolte contro la “containerizzazione” delle operazioni portuali… 

Ma, a ben vedere, le ragioni per un po’ di sano luddismo non mancano anche in esempi minori eppure persistenti della vita quotidiana. Ecco per esempio il testo di una delle interruzioni di Spotify, una di quelle che si sentono ogni due o tre canzoni, per convincervi a fare l’abbonamento premium:

VOCE FEMMINILE: Hai presente quando stai ascoltando Spotify, e fai partire una playlist, ma viene interrotta da un’annuncio pubblicitario?

VOCE MASCHILE: È esattamente quello che è appena successo

VF: Esatto

VM: Bè, con Spotify premium puoi liberarti delle interruzioni pubblicitarie

VF: Come questa

VM: Prova Premium gratis per 30 giorni…

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Un messaggio il cui unico scopo risiede nell’essere così fastidioso da divenire insopportabile, se ascoltato un numero sufficiente di volte. La stessa piattaforma su cui ascoltate la vostra musica vi infligge questo strazio. L’idea è così diabolica e perversa che al confronto la vecchia pubblicità, quella che si limitava a elogiare le qualità di un prodotto, sembra una cosa per cui provare nostalgia. 

Personalmente, poi, non sono mai stato così vicino a luddizzarmi quanto quest’estate. Ero a Bilbao, al Guggenheim, abbastanza di buon umore. Al terzo piano mi imbatto in una “installazione” organizzata da Google. In cosa consisteva? Uno schermo ti mostrava i quadri più famosi della collezione permanente, e poi ti chiedeva di cliccare sulle nuvolette colorate corrispondenti alle emozioni che quel quadro ti faceva provare. L’idea era incredibilmente noiosa. E non vedevo alcun motivo per cui Google dovesse appropriarsi di una stanza di un museo prestigioso.

Naturalmente, il motivo c’era: con ogni probabilità, grazie ai dati raccolti attraverso quell’installazione, il dipartimento AI di Google in questo momento sta addestrando una rete neurale  ad associare emozioni umane a complicate rappresentazioni visive. Ho ripensato all’anno in cui, dopo la solita occupazione, nella scuola in cui insegno è stata trovata una penna Bic conficcata nel mezzo di una lavagna elettronica. Tralasciando il fatto che quella lavagna veniva usata per disegnarci piani cartesiani o legami chimici, lì, dentro al Guggenheim, ho empatizzato un po’ di più con quel piccolo luddista adolescente.

“Personalmente, poi, non sono mai stato così vicino a luddizzarmi quanto quest’estate. Ero a Bilbao, al Guggenheim, abbastanza di buon umore”.

Se ci mancano ancora dei veri luddisti digitali, lo spirito di Ludd sembra invece riverberare in alcuni ambienti della critica ecologica. Nel 2007 lo scrittore John Lanchester, in un articolo sulla London Review of Books, si chiedeva: se tutti a Londra odiano i SUV, perché non si organizzano per rendere la vita impossibile a chi li possiede? Basterebbe fargli la fiancata, graffiandoli con una chiave ogni volta che gli si cammina accanto. È un esempio un po’ datato, visto che oggi i ricchi sono gli unici a potersi permettere di guidare una Tesla senza inquinare.

Ma è proprio dal “Paradosso Lanchester” che prende le mosse Come far saltare un oleodotto, il libro scritto da Andreas Malm, che forse più di tutti ha contribuito al recente dibattito sulla svolta che potrebbe, o dovrebbe, assumere la battaglia ecologista. Forse, suggerisce Malm, è giunto il momento di abbandonare i principi pacifisti e non-violenti che da sempre caratterizzano questi movimenti (in Italia il movimento No Tav è ormai vicino a compiere trent’anni, ma evidentemente non ha goduto del megafono dalla lingua inglese e di un certo tipo di editoria).

Il suo saggio sconfina presto nel campo dell’etica e della filosofia morale. Leggendolo, si avverte la difficoltà di convincere un nordeuropeo che un’azione di sabotaggio contro la proprietà altrui non è una violenza in alcun modo paragonabile alla violenza fisica (a patto che dall’integrità di tale oggetto non dipenda la sopravvivenza di qualcuno, ça va sans dire). La cosa giusta da fare, argomenta Malm, potrebbe richiedere di procurare un danno (e trasgredire una legge) oggi, per scongiurare un pericolo futuro di dimensioni enormemente maggiori.

Insomma, i tempi sembrano maturi, e le ragioni per luddizzarci non mancano. Ci manca solo un eroe, o un mito. Un nuovo Ned Ludd, almeno in letteratura. Si tratta di aprire uno spiraglio per poter immaginare una storia che non abbia come protagonista l’ennesimo oggetto magico, creato dal nulla, che comanda le nostre vite. Immaginare una nuova Storia luddista. Non è facile. Eppure siamo qui, ad aspettare l’arrivo del nuovo Re.

Giacomo Ferrara

Giacomo Ferrara è professore di matematica e fisica in un liceo di Roma. Scrive per diverse testate e collabora al podcast Ragù.

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