La rabbia femminile è ancora un tabù - Lucy
articolo

Viola Stefanello

La rabbia femminile è ancora un tabù

17 Novembre 2023

La rabbia è un’emozione familiare a tutti, ma che le donne spesso non sono incoraggiate a esprimere. Se le cause sono molteplici, quello che rimane è un senso di frustrazione politico, di genere, personale. Le "rage room", luoghi predisposti allo sfogo della rabbia che stanno aumentando nelle città di tutto il mondo, possono aiutare. Forse.

Di recente ho scoperto che rompere un bicchiere a mani nude non è così semplice. Agli attori che devono farlo nelle scene drammatiche, vengono messi in mano bicchieri fatti di una pasta di zucchero molto realistica – ma piuttosto facile da distruggere – o di specifici materiali plastici pensati appositamente per gli stunt.

La scoperta, di per sé non particolarmente stupefacente, mi è rimasta impressa perché io, invece, un bicchiere a mani nude una volta l’ho rotto. Era un calice di vino, sicuramente di pessima fattura: lo davano ai visitatori per gli assaggi a una festa dell’uva dove ero stata trascinata dalle amiche, una sera vuota tra tante nella pianura padana. Stavamo godendo della dimostrazione di civiltà rappresentata dai bicchieri di vino a un euro quando ci siamo imbattute nel ragazzo di cui ero innamorata, e con cui parlavo per ore e ore ogni giorno da mesi, mano nella mano con la fidanzata che stava sempre per mollare.

Uno scambio trascurabile, da inserire nell’archivio delle tante scelte discutibili dei primi vent’anni, al punto che non ricordo nemmeno cosa ci fossimo detti. Ricordo solo, perché sono certa di non essere mai arrivata così vicina ad assomigliare alla protagonista nevrotica di una commedia romantica di scarsa qualità, che reprimere la rabbia in pubblico era diventata la priorità, e stavo lì a sorridere nervosamente tutta intenta a tenere in piedi una facciata da buona amica e senza accorgermene il calice che tenevo in mano ha fatto crac, proprio come in un cartone animato. Sempre mantenendo il sorriso – a quel punto immagino da psicopatica – l’ho osservato lì, rotto tra le mie dita, ho detto “scusate”, e sono andata a recuperare un altro bicchiere di vino. Tornando alla macchina con le amiche, abbiamo trovato una pila di sacchi pieni di sabbia vicino a un cantiere e abbiamo provato a lanciarli con tutta la forza che avevamo (non molta);  io per sfogo , loro per solidarietà. Esattamente il finale che ci si aspetterebbe da una commedia romantica di scarsa qualità.

Ero invece fermamente convinta che a spaccare una bottiglia non ci volesse poi tanto: l’intento giusto, l’angolazione sbagliata. Forse perché nei film d’azione sono spesso brandite come arma nei litigi di coppia più accesi e nelle risse, o magari  perché siamo tutti stati a una festa dove il pavimento diventa fastidiosamente appiccicoso dopo che qualcuno ne ha fatta cascare una.

Ho scoperto che rompere una bottiglia è molto più difficile di quanto si pensi il giorno che sono entrata in una stanza dalle pareti coperte di pannelli di sughero: mi hanno messo messo davanti una dozzina di bottiglie vuote e mi  hanno detto: fai quello che vuoi. Ora so che una bottiglia di Absolut può essere scaraventata addosso a un muro anche cinque o sei volte prima di andare in frantumi. 

“Stavo lì a sorridere nervosamente tutta intenta a tenere in piedi una facciata da buona amica e senza accorgermene il calice che tenevo in mano ha fatto crac, proprio come in un cartone animato”.

Quella è stata la mia prima volta in una rage room. Sapevo da anni della loro esistenza: sono spazi raccontati come terapeutici, dove è possibile pagare per spaccare un determinato quantitativo di oggetti per un determinato periodo di tempo, e non ero mai riuscita a convincermi ad andarci fino a una sera di poche settimane fa.

La prima rage room è stata aperta a Tokyo, nel 2008, da un fisioterapista che aveva notato tra i propri clienti una crescente frustrazione, difficile da sfogare. Si chiamava, senza grande originalità, “Il posto degli sfoghi”, e nella pratica era un grosso furgone insonorizzato all’interno del quale le persone potevano spaccare le cose.

Un articolo del «Telegraph» l’anno seguente raccontava con curiosità di questo posto dove i lavoratori stressati pagavano “per scagliare stoviglie contro un muro di cemento nel tentativo di alleviare l’angoscia legata alla recessione”. Da allora ne sono spuntate centinaia in varie città del mondo: vengono raccontate non soltanto come un’attività divertente per bruciare qualche caloria, rilasciare lo stress, provare cose che altrimenti non potresti fare – lanciare bottiglie contro un muro, distruggere un computer a sprangate, scoprire che rumore fa uno specchio quando lo colpisci con una mazza da baseball – ma anche come una sorta di terapia alternativa, un modo per tirare fuori quello che hai dentro prima che ti consumi, di sfogare la rabbia contro oggetti inanimati, gettando via con qualche bottiglia una vita di ingiustizie.

Mentre entravo nella principale rage room di Milano – un capannone anonimo senza pretese, a pochi passi dall’ospedale Niguarda – pensavo un po’ a quella festa dell’uva di anni fa, un po’ a quei i sogni di violenza ricorrenti, un po’ ad un’amica che mi diceva di esserci stata per la prima volta su consiglio della psicologa, dopo aver convissuto per anni con un carico di rabbia difficile da sopportare. L’aveva trovato abbastanza liberatorio, mi aveva detto: ”Incanali molta rabbia, anche se non puoi pensare di andarci una volta e risolvere tutti i tuoi problemi”. 

La rabbia femminile è ancora un tabù - Artemisia Gentileschi, "Giuditta che decapita Oloferne", 1620.

Artemisia Gentileschi, “Giuditta che decapita Oloferne”, 1620.

Non ho mai pensato a me stessa come a una persona particolarmente violenta. Sono cresciuta in una casa in cui il monopolio della rabbia apparteneva a mia madre: a noi restavano la frustrazione, il senso d’impotenza, un’aggressività che si poteva esprimere al massimo tramite frecciatine e lacrime furiose agli occhi. Non sono mai stata in una rissa. Al massimo, quando qualcuno mi molesta per strada, lo mando affanculo. So però che c’è una parte di me, nemmeno troppo nascosta, che vuole spaccare tutto. È la a parte di me che ha lanciato quei sacchi e spaccato quel bicchiere; quella che una volta ha distrutto il libro peggiore che aveva in casa strappandolo pagina dopo pagina come una margherita; quella che per mesi ha sognato tutte le notti di regolare conti con una persona che aveva tradito la mia fiducia in modo ripugnante a pugni, calci, capelli strappati.

Credo fosse anche la parte di me che da ragazzina passava le ore ad ascoltarsi Break stuff dei Limp Bizkit a ripetizione e al massimo volume sull’autobus verso casa: Your best bet is to stay away motherfucker / It’s just one of those days. Buona parte della materia di cui quella parte di me si ciba è, senza dubbio, intima: delusioni, frustrazioni, incomprensioni interpersonali. Ma una parte della mia rabbia – e, immagino, di quella che anima molte persone della mia generazione, a un passo dai trent’anni – è politica.

A costo di diventare una caricatura di me stessa, ovvero di una ventenne di sinistra che passa troppo tempo nella sua bolla online e cita non ironicamente Mark Fisher, credo che il centro di questa rabbia stia tutto in quello famoso slogan che Margaret Thatcher sventolava in giro quando io non ero nemmeno nata: “There is no alternative”. Sento di essere immersa, insieme a tutti i miei coetanei, in una spessa brodaglia di immobilismo da quando ho cominciato a formarmi una coscienza politica, come se avessimo provato ogni via d’uscita e avessimo sbattuto collettivamente contro un muro e giacessimo a terra storditi.

Di fronte a qualsiasi crisi – internazionale, regionale, nazionale, o locale, poco importa – sembra che immaginare una soluzione soddisfacente, umana, che non abbia il gusto di una sconfitta sia fuori discussione. Quindi: votare  il meno peggio nel nome del voto utile, spostarsi un po’ più in periferia perché le case costano troppo, lamentarsi  del troppo lavoro per troppi pochi soldi, davanti a uno spritz che, onestamente, non dovrebbe costare otto euro. Bollare come inutile l’idea impegnarsi in politica, scendere in piazza, unirsi a un sindacato. Condividere al massimo qualche meme su quando verrà la rivoluzione. Gettare tutto nella pila delle frustrazioni.

Una cosa che ho fatto – sperando forse ingenuamente che cambiasse qualcosa – per tantissimo tempo è litigare su internet, prima di raggiungere quella che considero  una sorta di pace interiore in cui blocco sistematicamente gli sconosciuti che mi sembrano in cattiva fede sui social network. Ho litigato sul pericolo effettivo che Donald Trump rappresentava per la democrazia e sul fatto che non basta smettere di fare brunch tutti i weekend per permettersi un mutuo, sull’utilità di lasciare l’Unione Europea e sul trattamento che riserviamo ai migranti (pensare che lasciare morire la gente in mare sia disumano fa di me, a quanto pare, una nemica del popolo).

“So però che c’è una parte di me, nemmeno troppo nascosta, che vuole spaccare tutto. È la a parte di me che ha lanciato quei sacchi e spaccato quel bicchiere; quella che una volta ha distrutto il libro peggiore che aveva in casa strappandolo pagina dopo pagina”.

Ma soprattutto ho impiegato un infinità di tempo che nessuno mi ridarà mai indietro a difendere, in un modo o nell’altro, il diritto delle donne di esistere tranquillamente senza che qualcuno stia costantemente a romperci il cazzo (o a minare la nostra libertà, se vogliamo essere meno scurrili). Se c’è qualcosa che ho imparato, oltre al fatto che un utente che sceglie come foto profilo un busto greco è quasi sempre un fascista, è che nel momento in cui mostri che sei arrabbiata, hai perso: sei una nazifemminista. Non si può ragionare con te. E non è nemmeno improbabile che sia quel periodo del mese. La rabbia non è un valore.

Ma questo non vuol dire che io non la provi. C’è uno screenshot di un film che non ho mai visto che da anni mi insegue di piattaforma in piattaforma, un po’ trascinato dall’algoritmo, un po’ riproposto ancora e ancora da amiche e conoscenti. Forse alla ventesima, forse alla cinquantesima volta che vedevo quello screenshot completamente decontestualizzato ho scoperto che viene da un documentario del 2008, Les plages d’Agnès, in cui la regista, sceneggiatrice e fotografa femminista Agnès Varda ripercorre i propri ottant’anni di vita.

Nello screenshot Varda guarda in camera, appoggiata al tronco di un albero, vestita di un rosso scuro. Cè una folla sullo sfondo, ma nessuno la guarda: l’attenzione è tutta per i sottotitoli che accompagnano le immagini: “Ho provato a essere una femminista gioiosa, ma ero molto arrabbiata”. Ogni volta che mi passa davanti, dopo un attimo di preoccupazione per la possibilità di aver ancora una volta esaurito tutti i contenuti che internet ha da propormi, penso: sono io. O, per la precisione, penso mood, ma sto cercando di smettere.

La rabbia femminile è ancora un tabù - Elisabetta Sirani, "Timoclea uccide il capitano di Alessandro Magno", 1659.

Elisabetta Sirani, “Timoclea uccide il capitano di Alessandro Magno”, 1659.

Non so che soluzione avesse trovato Varda per rapportarsi con la sua rabbia: dubito litigasse con le persone su internet o strappasse libri a mani nude, figuriamoci se è mai stata in una rage room. So che io, con la mia, non so davvero cosa fare.

Quando arrivi in una rage room c’è un dipendente che ti spiega le regole. La mia aveva poco più di vent’anni e stava festeggiando dietro al bancone con un amico con la corona d’alloro in testa. All’interno non c’è un orologio, mi ha detto. Il tempo è scandito da quattro canzoni scelte da loro, puoi distruggere tutto ciò che trovi nella stanza, stai attenta a non farti male in modo stupido. Urla, bestemmia, fai quello che vuoi. Hai quindici minuti. Le protezioni te le danno loro. 

Nell’ingresso ci sono due enormi televisori: trasmettono in diretta quello che sta succedendo nelle due rage room, senza audio. Servono ad assicurarsi minuto per minuto che le persone non facciano cose di cui potrebbero pentirsi: a me hanno però fatto pensare a tutti quei film in cui la protagonista femminile, raggiunto il punto di non ritorno, decide di abbandonarsi alla rabbia anche se può costarle tutto.

Su quel televisore, osservata in quello che doveva essere un momento di massima vulnerabilità, o massima libertà, non ero Thelma e Louise né Carrie, né Megan Fox in Jennifer’s Body né Stephanie Hsu in Everything everywhere all at once, pronta a far implodere l’universo con la forza della propria rabbia. Non ero nemmeno Agnés Varda, troppo arrabbiata per essere una femminista gioiosa. Avevo solo un bicchiere crepato in mano, e nessun altro posto dove andare.

La prima canzone è era Numb, dei Linkin Park. Ho preso in mano una spranga e ho fatto a pezzi uno specchio. È stato bellissimo. Avrei potuto farlo per tutta la vita. Ce n’era uno solo. Non avrei dovuto romperlo subito. Alla seconda canzone avevo già notato che se scagli una bottiglia contro un muro non è detto che non rimbalzi: la dipendente me l’aveva detto, ma non le avevo creduto. Alla terza – ricordo solo che erano i Rolling Stone – mi ero stancata di inveire su un vecchio juke box con una mazza da baseball: non avrei mai pensato di essere più una tipa da lunghe spranghe di ferro. Alla quarta sapevo che quindici minuti non possono nemmeno cominciare a scalfire una vita di rabbia, ma che sarei stata troppo stanca per continuare. Per giorni, poi, i muscoli delle mie braccia chiedevano pietà a ogni movimento.

La rabbia femminile è ancora un tabù - Jean-Léon Gérôme, “Truth Coming Out of Her Well to Shame Mankind", 1896.

Jean-Léon Gérôme, “Truth Coming Out of Her Well to Shame Mankind”, 1896.

Da anni si moltiplicano gli studi che mostrano quanto le donne tendano a provare rabbia più spesso, e più intensamente, degli uomini. Le ragioni sono tantissime: la stanchezza e la solitudine della maternità, le disparità sul posto di lavoro e nei lavori domestici, la sensazione di non essere davvero al sicuro negli spazi pubblici, i costanti tentativi di corrosione dei diritti riproduttivi, la sensazione di non avere mai davvero tempo per te stessa come individuo, la gente che ti chiama nazifemminista se fai notare che è faticoso vivere così (forse quest’ultima sono solo io). Ma è spesso una rabbia molto lontana dai pugni tirati ai muri, che non sa cosa fare di sé stessa. Così, l’espressione della rabbia femminile finisce per essere quasi sempre autodistruttiva.

“Alla seconda canzone avevo già notato che se scagli una bottiglia contro un muro non è detto che non rimbalzi: la dipendente me l’aveva detto, ma non le avevo creduto”.

Non è difficile immaginare che le casalinghe borghesi della provincia statunitense intervistate dalla giornalista e teorica femminista Betty Friedan negli anni Sessanta per The feminine mystique, uno dei più importanti testi femministi della sua generazione, si riempissero di farmaci per placare la voce arrabbiata nel cervello che diceva loro che forse volevano qualcosa di diverso da una vita dedicata esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga.

Ed “è una teoria piuttosto condivisa quella secondo cui l’autodistruzione femminile è una rabbia che non sa come esprimere sé stessa. Deformata e costretta a ripiegarsi verso l’interno, implode trasformandosi in disturbi alimentari, autolesionismo, dipendenze, devastazione”, ha scritto recentemente su Frieze la scrittrice irlandese Megan Nolan. “È anche vero che esprimere rabbia significa, per una donna, rischiare di attirare violenze materiali. È difficile sentirsi sicure nell’esprimere la rabbia, ma è anche spiacevole – non solo per gli altri, ma per la persona che la prova. Pochi scelgono di arrabbiarsi”. 

Mentre scrivevo questo pezzo, ho cercato su Google “Come si esprime la rabbia in modo sano?”, perché non ero sicura di avere la risposta, e mi sono trovata sommersa di pubblicità per app di respirazione e blog che lodano i poteri curativi del karaoke, le sessioni di pianto, le urla quando nessuno ti sente, la boxe. Qualcuno parla anche delle rage room: dice anche che esistono dei posti dove pagando puoi pagare per rompere tutto. Ma forse, a guardarle bene, potrebbero essere solo un’estensione dell’idea che aprendo il portafogli sia possibile risolvere qualsiasi cosa. 

In copertina: Pipilotti Rist, “Ever is Over All”, 1997.

Viola Stefanello

Viola Stefanello è giornalista. Ha collaborato con «Repubblica», «Internazionale» e altre testate. Fa parte della redazione de «Il Post».

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